AMM GT n. 3

Intervista a Gabriel Tzeggai

L’intervista fa parte di una serie di tre incontri svolti a Roma con Gabriel Tzeggai. L’intervista si è svolta il 19 dicembre 2009, quando più forte era la pressione migratoria giovanile proveniente dall’Eritrea. Le precedenti interviste sono state condotte da Alessandro Triulzi e Giulia Barrera, a Roma, l’11 e il 15 gennaio 2008. V. il saggio “Il sapore della libertà” (in U. Chelati Dirar, S. Palma, A. Triulzi, A. Volterra, Colonia e postcolonia come spazi diasporici. Attraversamenti di memorie, identità e confini nel Corno d’Africa, Roma, Carocci 2011, pp. 273-97) Cfr. la sezione Testimonianze.

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Data: 19 dicembre 2009
Luogo: Roma
Durata: 3h ca
Intervistatore: Alessandro Triulzi (AT)
Lingua: italiano

Supporto d’archiviazione: registrazione audio analogica digitalizzata
Trascrizione: Sintayehu Eshetu
Revisione: Alessandro Triulzi, febbraio 2012

Gabriel Tzeggai, 58 anni, è un eritreo che ha ricoperto cariche amministrative nell’Eritrea indipendente dopo 17 anni passati al Fronte (EPLF) durante la Guerra di Liberazione terminata nel 1991. Nel 2007 GT lascia l’Eritrea quando è ancora responsabile di un progetto governativo finanziato dalla Banca Mondiale e si rifugia prima in Inghilterra poi in Italia dove ottiene sporadici incarichi di catalogatore di foto presso l’IsIAO a Roma.

Sandro Triulzi ha insegnato presso le Università di Perugia, Addis Abeba, EHESS (Parigi), Napoli Orientale. A Napoli ha insegnato per molti anni Storia dell’Africa sub-sahariana e Storia e istituzioni etiopiche.

Abstract:
L’intervista ripercorre le tappe della ribellione giovanile in Eritrea contro il governo del Fronte (EPLF) che ha portato il paese all’indipendenza nel 1991 ma non ha saputo assicurare la pace e lo sviluppo democratico del Paese. Il conflitto ‘di confine’ con l’Etiopia del 1998-2000 viene visto come uno spartiacque dirompente nei rapporti tra i due paesi, con rotture dolorose non solo nella infranta identità comune dei due paesi fratelli ma nella consapevolezza politica e nei livelli di oppressione della società civile e dell’opposizione politica in entrambi. I giovani eritrei di ambo i sessi, arruolati in un sistema di leva nazionale prolungato dal continuo stato di guerra con l’Etiopia, non hanno possibilità di programmare il proprio futuro e hanno poche scelte autonome al di là dell’esodo forzato dall’autoritarismo imperante nel paese.

Estratti della trascrizione:
“(…) la leva era per la nostra generazione una cosa giusta e necessaria. Però, i giovani non erano entusiasti di questo dovere, loro non ne capivano la necessità. Specialmente i giovani che non avevano vissuto in città, quelli delle campagne, quelli che non erano mai stati a contatto diretto  con [l’occupazione etiopica]  …. sì, certo, la repressione del governo del Derg l’avevano vissuta. Però, i giovani, la cosa che aborrivano di più era proprio la guerra, essere o diventare militare ecc.,  per loro la leva era una cosa strana, che faceva paura. Penso che non si fidassero del fatto che fosse una cosa limitata nel tempo, di un anno e mezzo. Non si fidavano di questo, perciò non ci fu un grande entusiasmo, una risposta entusiasta a questa cosa qui. Il primo round [andò così]…. anche se il numero programmato dal governo?”’ non fu completamente raggiunto. Molta gente come noi cercava di convincere i giovani che ci stavano intorno. [Dicevamo:] Vai, fai questo e poi dopo un anno e mezzo sarai libero di fare quello che vuoi. Vuoi andare fuori dal paese, puoi andare, e se vuoi lavorare, potrai lavorare. Sennò, ci saranno sempre limitazioni, si può essere chiamati per la leva dopo aver trovato un lavoro, perciò interrompere un contratto di lavoro non ti fa continuare la tua carriera. Per programmare la propria vita è meglio slacciarsi da questo debito e basta. Era questo. Però, non c’era quell’entusiasmo [di un tempo]. Anche in molte famiglie non è che ci fosse tutto questo [entusiasmo]. Comunque, le cose procedevano come procedevano, i giovani erano praticamente costretti, anche se non c’era quella costrizione che si vede adesso. Certo dopo le prime vittime della guerra, la leva assunse  un altro carattere. Ma più in generale, la sensazione  era questa. Per come la vedevano i giovani, la leva era una cosa così … una scocciatura. Più che altro, a loro non interessava la politica, si sentivano addosso quella sensazione nazionalista di dover essere etc., e basta. Penso che all’inizio, i giovani ammirassero molto noi per quello che avevamo fatto, però la cosa si fermava lì. Non erano disposti a ripetere quell’esperienza o a fare qualcosa di simile. Non erano disposti per niente. Insieme invece c’era  una società che… non c’era più…. Non c’era ancora quel desiderio di andare all’estero, erano molti pochi quelli che, avendone la possibilità, volevano andare all’estero, andarsene via, non sentivano questa necessità. Pochi se ne sono andati in quel periodo lì. Non c’era bisogno di attraversare i confini allora, e i pericoli che stanno correndo i giovani di oggi. Sì, era forse faticoso avere il passaporto, passare per la burocrazia, ecc, però…”

“…fu dopo la guerra, nel 2000. Firmato l’accordo di Algeri, le battaglie si fermarono. Non c’erano più battaglie praticamente. Naturalmente, ci si aspettava il ritorno alla normalità. Anche se tutti, penso anche i giovani e gli esperti, capivano che ci voleva un po’ di tempo per tornare alla normalità. Però, quel desiderio di tornare alla normalità, per i giovani che si erano ritrovati in una guerra inaspettata, proprio completamente inaspettata, che non avevano mai avuto voglia di partecipare ad una guerra, trovarsi in quella situazione lì per un paio d’anni, partecipare  a delle battaglie veramente molte molto dure e brutte, vedere tutto quello che la guerra comporta, tutte le morti, tutte le distruzioni, tutte le cose brutte che una guerra comporta… sicuramente erano scioccati, avevano desiderio di andarsene via, di togliersi da quell’ambiente lì, di tornare ad una vita normale, non di andarsene all’estero, ma di avere una vita normale, tranquilla, di pace. Perciò, privati di tutto questo, forzati a continuare lì, forzati a rimanere militari, a una vita di tensione, naturalmente non c’è la facevano. Per tanti, il più delle volte, era il desiderio di togliersi da quella tensione lì. Andare a casa, incontrare, che so io, i famigliari e stare un po’ tranquilli. Ma la disciplina militare è disciplina militare. La disciplina militare dell’EPLF è molto, molto severa, é sempre stata molto severa. Però, ci fu anche  una reazione, veramente, eccessiva. Le punizioni cominciarono a diventare eccessive. Al di fuori della norma, al di fuori di quello che era la norma quando noi eravamo in guerra. Cose inaccettabili”.