I racconti che seguono sono estratti dai dialoghi di backstage (Db 1-4) raccolti da Dagmawi Yimer durante la lavorazione del film documentario C.A.R.A. Italia (Asinitas-AMM 2010) girato in collaborazione con un gruppo di giovani somali richiedenti asilo nel Centro di accoglienza di Castelnuovo di Porto. La traduzione dal somalo è di Cristina Ali Farah. L’editing delle storie è a cura di Alessandro Triulzi e di Abubakar Muktar Jokof. L’età degli intervistati è riferita all’anno dell’intervista. I dialoghi originali sono conservati presso l’Archivio delle Memorie Migranti. (A.T.)
Una versione ridotta delle storie è stata pubblicata sulla rivista “Lo straniero” (n. 164, febbraio 2014).
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Hassan, anni 20
Ci hanno portati a Roma in un grande centro di accoglienza
(Db 1) Sono nato a Ceeldheer ma sono cresciuto a Mogadiscio. Quando avevo quattro anni mi hanno portato alla dugsi (scuola coranica), perché imparassi il Corano. Ero piccolo, quindi non mi hanno portato alla dugsi perché ero già in grado di imparare, ma per tenermi occupato e non farmi andare in giro.
Non ho resistito a lungo, così quando avevo sei anni, ho iniziato di nuovo a studiare il Corano e contemporaneamente andavo alla scuola normale. Sono cresciuto in un periodo in cui in Somalia non c’era un governo, ho fatto la scuola coranica fino a dodici anni e contemporaneamente la scuola normale che ho continuato fino a quando ne avevo diciotto. Quando ho finito la scuola di Corano sono passato alla scuola media e poi a quella superiore. Alla scuola media studiavamo 10 materie, la matematica, la chimica, la geografia, la fisica e queste quattro costituivano le Scienze, poi c’erano le Arti. Si studiava in inglese, in arabo e in somalo. In somalo studiavamo le poesie di un tempo, la storia somala e molte parole che adesso non si usano più, ma un tempo si usavano.
Abbiamo continuato a studiare le stesse materie in modo più dettagliato. Finita la scuola superiore ho cominciato a frequentare l’università di Mogadiscio. Dopo Siad Barre tutte le università e le scuole erano a pagamento, perché non c’era un governo che le finanziasse. C’erano delle scuole per i bambini, ma io sono sempre andato in scuole private. A me piaceva molto studiare e sono sempre stato uno di quelli che studiano molto e vanno molto bene.
C’erano amici con cui studiavo, con cui preparavo le lezioni. Io e A. abbiamo fatto insieme le elementari e le medie in arabo, poi io ho cominciato la scuola superiore in inglese, mentre lui ha continuato con l’arabo.
Quando facevo la scuola elementare e media il pomeriggio studiavo l’inglese a una scuola privata. Ci siamo ritrovati insieme all’università. Ma la situazione politica peggiorava, prima sono arrivate le corti islamiche, poi gli etiopi. Gli scontri sono aumentati. Succedeva che mentre eravamo all’università ci fossero degli scontri, c’erano anche prima, ma poi sono aumentati. Rimaneva chiusa per settimane o mesi, oppure rimanevi bloccato dentro per gli scontri, non potevi tornare e la tua famiglia si preoccupava.
È per questo motivo che abbiamo deciso di lasciare il nostro paese. Siamo passati per l’Etiopia, il Sudan, il Sahara e siamo arrivati in Italia. La nostra idea era che siccome nel nostro paese c’era la guerra civile e noi eravamo persone che amavano lo studio, così avremmo raggiunto il nostro obiettivo.
Ci hanno portati a Roma in un grande centro di accoglienza dove c’erano somali e rifugiati di altre provenienze. Pensavamo che nel campo ci fosse una scuola in cui avremo imparato la lingua mentre aspettavamo i documenti e poi avremo potuto continuare a studiare. Il campo si è rivelato come una prigione. Noi non siamo arrivati qui per mangiare, dormire e andare in giro come degli animali, io voglio studiare e lavorare per migliorare la condizione mia e del mio paese.
Non è facile, dopo aver studiato al liceo e per due anni all’università, arrivare in un paese in cui ti dicono mangia, dormi! Sei abituato al lavoro, all’attività, sei abituato a svegliarti tutte le mattine, ad andare a scuola, a tornare, a studiare il pomeriggio, occupare il tuo tempo insomma. Rimanere seduti senza fare nulla è come stare in prigione. Dopo un po’ abbiamo iniziato una scuola che frequentavamo una volta ogni due settimane, alcuni hanno avuto i documenti e sono venuti in città. In città hanno trovato la scuola che ora frequentiamo.
Prima di arrivare in città, non conoscevamo i luoghi, non c’erano persone che ci avevano preceduto e ci davano informazioni. Siamo rimasti due mesi fermi al campo senza sapere cosa fare. Solo quando alcuni di noi sono venuti in città e sono andati alla moschea per l’Iid (festa di fine Ramadan), hanno incontrato Z. che li ha bene accolti, hanno chiacchierato, ha chiesto loro dove stavano, hanno risposto che erano a Castelnuovo, ha chiesto loro se andavano a scuola, hanno risposto di no, ha detto loro che c’era una scuola e si sono dati appuntamento un giorno per andarci insieme.
Quando i ragazzi che avevano avuto i documenti sono venuti a trovarci al campo, abbiamo chiesto loro cosa avevano trovato in città. E uno di questi con cui avevo fatto amicizia ha detto che nessuno li aveva accolti in città all’inizio, che dormivano alla sede dell’ex Ambasciata e ex Consolato [della Somalia, a Via dei Villini] e poi avevano incontrato una bravissima ragazza che aveva mostrato loro la scuola. Gli ho chiesto come era la scuola, mi ha risposto che era un’ottima scuola, ma era molto lontana per noi che abitavamo a Castelnuovo e non avevamo ancora ricevuto i documenti.
Io e il ragazzo abbiamo preso appuntamento un giovedì, eravamo nel mese di ottobre, il 10 o 11 del mese, abitavamo nella stanza in cui siamo adesso, io, A. e G., ci siamo dati appuntamento a Termini, siamo venuti alla scuola e abbiamo incontrato il mu’allim [maestro].
La scuola è diventata la nostra scuola.
Arrivi in un paese e ti mettono in un posto a sedere, noi siamo arrivati come profughi e per stare in un posto abbiamo bisogno di comunicare. Quando ti danno i documenti ti riversano nella città dove non conosci nessuno, non conosci la lingua, la vita è molto difficile, non hai soldi, né il biglietto per i mezzi, questo paese è freddo e per andare a scuola ti devi svegliare molto presto, non conosci nessuno e non conosci le abitudini di questo paese. Anche se ci prendono e ci multano, dobbiamo resistere a queste avversità perché è nel nostro interesse venire a scuola e imparare la lingua.
(Db 4) Ho sentito che si può chiedere alloggio al comune e quando hai chiesto l’alloggio devi aspettare per due mesi, dormendo in posti come l’ambasciata o sui muretti, dopo due mesi ti danno una casa, ma una casa di che tipo? una casa in cui entri al tramonto e che devi lasciare la mattina. Ti danno la cena e la colazione. Allora mi stupisce questo: sei un rifugiato, hai aspettato due mesi, ti hanno dato una casa, ma ti dicono che non ci puoi pranzare. E io dove mangio? Sono uscito dal centro d’accoglienza e sono andato al Comune e il Comune dice, andate. La casa è lontana, non hai i soldi per pagarti l’autobus e per mangiare a pranzo bisogna andare alla Caritas. Per mangiare bisogna fare una lunghissima fila. Per tornare a casa ci si mette tantissimo. Quindi l’intera giornata è occupata per cercare quel cibo, ti avanzano pochissime ore. La fila per quel cibo è in mezzo alla strada, rimani in mezzo alla strada per due ore e ti danno pochissimo cibo. Quando esci di lì hai già bisogno di cenare. Il cibo lo danno ma in un modo frustrante. Tutto il tempo prezioso che dovevi impegnare per studiare, per fare altre cose, lo occupi sui mezzi e per fare la fila alle mense.
Nella casa che ti danno non puoi pranzare, ti dicono di andare altrove per pranzare, non puoi farti la doccia, ti dicono di andare altrove per farti la doccia, non puoi lavarti gli abiti, ti dicono di andare altrove per lavarti gli abiti, non riesco a capire perché. Queste sono le cose incredibili che ho incontrato o di cui ho sentito parlare.
Molti somali non ce l’hanno fatta a rimanere qui e sono andati in altri paesi europei, come la Norvegia, l’Olanda, la Finlandia. Molte persone non hanno resistito a tutti i problemi incontrati in Italia. Poiché i loro parenti in Somalia si aspettavano da loro qualcosa che loro stessi non potevano permettersi, hanno cercato di andare in altri paesi europei. Molta gente continua ad arrivare in Italia convinta di trovare qualcosa di positivo.
Le persone che vivono in Italia o in altri paesi europei non sanno, o lo sanno solo in pochi, quali sono i problemi per cui queste persone fuggono dalle loro case. Non parlo del governo, ma il popolo italiano non conosce la situazione in cui vivono queste persone ospiti nel loro paese. Credono che prendano soldi, che lavorino e vivano in una casa.
Un risultato si può raggiungere se noi raccontiamo la nostra situazione, la chiariamo, ne parliamo in modo di comunicarla al popolo italiano e successivamente al mondo intero. Solo dopo di questo ci potrà essere una risposta, un risultato, ma se andiamo in città, vagabondiamo disorientati, cerchiamo di andare in un altro paese, ci rispediscono indietro, la vita finisce, si consuma così. Invece se ci incontriamo, facciamo un programma, comunichiamo con l’esterno, si va dagli italiani, nei quartieri, solo così potremo avere un risultato secondo me.
Abubakar, anni 21
Mio nonno ha iniziato a insegnare il Corano a quattordici anni
(Db 1) Mio nonno ha iniziato a insegnare il Corano quando aveva quattordici anni. Un tempo la maggior parte dei somali viveva in boscaglia mentre ora vivono prevalentemente in città. Quando era piccolo ha lasciato il luogo in cui viveva, la regione di Galguduud, per andare a studiare nel Benaadir. È andato da solo a Merca, da quelle parti, per studiare il Corano. All’epoca erano pochi quelli che conoscevano il Corano, erano tenuti in grande considerazione e venivano chiamati Aw [titolo onorifico dei Wadaad, i sapienti, ndt]. Dopo aver studiato è tornato nel suo paese e ha iniziato a insegnare. Ha insegnato per moltissimo tempo e a molte generazioni.
A me il Corano l’ha insegnato lui. Dopo un po’ che insegnava, la sua dugsi (scuola coranica) è diventata molto grande, gli studenti venivano da altre regioni, così come aveva fatto lui in precedenza. Finiti gli studi poi tornavano nel loro paese e aprivano lì una loro dugsi. Il suo insegnamento quindi si è propagato (sparso, diffuso) per molti luoghi. È vissuto a lungo. Aveva novantaquattro anni quando è morto. Ma non ha smesso di lavorare quando era vecchio, ha continuato a correggere [i suoi studenti] fino a quando è morto. Quando aveva novantatre anni correggeva ancora, i suoi occhi vedevano bene. Continuava a correggere ed era lucido, non dimenticava niente. I suoi bambini imparavano il Corano e poi studiavano altre discipline. In passato non c’era uno stato, il paese era una colonia italiana. Poi la situazione è cambiata, e il paese è diventato indipendente. Lui ha insegnato a generazioni di bambini.
È diventato molto prestigioso. Ed era molto generoso. I bambini lo amavano molto, io lo amavo molto. Era un uomo di religione e anche nella vecchiaia ha continuato a leggere il Corano la sera. Siccome era anziano invocava su di me soprattutto benedizioni/precetti religiosi. Mi diceva sempre, io sono vecchio, ma tu sei giovane, guardati dai difetti della giovinezza. Diceva che a Dio stavano più a cuore i giovani rispettosi di Dio, rispetto ai vecchi vicini alla morte. Poi mi diceva che l’istruzione è qualcosa che va accumulato, perché c’è sempre qualcosa che non sappiamo. Diceva che nessun coetaneo doveva superarmi. I somali dicono kamaqnaw (mostrati o sottraiti, fatti da parte). Prima i somali erano nomadi. Il padre di mio nonno conosceva molto bene la religione musulmana, ed era andato in pellegrinaggio alla Mecca a piedi.
Mio nonno era tradizionalista. Non mangiava le cose che piacciono ai giovani come la pasta, gli spaghetti, amava molto la polenta di semolino e il latte di cammello, la carne di capretto e soprattutto la spalla. Noi eravamo bambini e ci piacevano le cose nuove. Lo zucchero e il latte zuccherato. Mi diceva di lasciar perdere lo zucchero. Infatti i somali non conoscevano lo zucchero prima, bevevano latte di cammello senza niente. Abitava in provincia di Ceeldheer nella regione di Galguduud. Si è ammalato e aveva bisogno di un controllo [medico]. Mentre andava in città la macchina su cui viaggiava è caduta in un dirupo, lui era vecchio e si è rotto un piede. L’hanno portato in Kenya per operarlo, ma mentre era a Nairobi e lo stavano per operare è finito il suo tempo. Quando una persona è anziana e il suo spirito se ne è andato in pace, diciamo che il suo tempo è finito, ed è finito bene.
Io sono cresciuto durante la guerra civile. Non ho mai visto il paese in pace. Sono cresciuto in un paese qasan (confuso, intorpidito, aggrovigliato, nota del tradutore), in cui ognuno aveva il suo fucile. Il primo insegnamento che riceviamo noi somali di solito ha a che fare con la religione, io ho iniziato a studiare il Corano e la religione, Kitaabo cilmi.
Ho frequentato la scuola inferiore e media. Il sistema scolastico somalo durante la guerra civile è scomparso completamente anche se c’erano delle organizzazioni che si occupavano dell’istruzione. Le scuole erano solo in arabo e in inglese. Quindi eri costretto a imparare prima la lingua, perché ogni materia veniva insegnata in una di quelle due lingue. Così ho imparato sia l’inglese che l’arabo, ma i miei studi li ho fatti in arabo. Non so nulla della storia somala, penso di non conoscere nessun paese bene come conosco l’Arabia Saudita, di cui ho studiato tutto. Per andare all’università bisognava conoscere l’inglese, per questo l’ho dovuto studiare.
Andavo a scuola e crescevo in un paese con la guerra civile. A volte c’erano degli scontri e poteva succedere di incontrare un uomo ferito a terra che ti chiedeva ‘portami via, portami via’, ma tu non eri in grado di fare nulla per lui.
Succedeva tante volte che ci fosse una sparatoria mentre eri in un’auto, oppure ci fossero scontri mentre eri a scuola e non potevi farci nulla, potevi morire anche semplicemente camminando per strada. Si andava avanti così, con questo pensiero, ti dicevi che non dipendeva da te se saresti vissuto o morto.
La situazione poi è peggiorata. Prima c’erano dei periodi di scontri, ma non duravano sempre. Due giorni e poi smetteva. Invece ora continuava, per mesi. Non siamo più riusciti ad andare all’università, ci siamo detti che bisognava fuggire [aa la qaxo, qax fuga, evacuazione, parola chiave della diaspora post guerra civile, ndt].
Allora abbiamo scelto il viaggio. Piuttosto di morire immobili, a quel punto era meglio morire per strada mentre tentavamo il viaggio. Era sempre più pericoloso. Ogni anno si ricominciava a sperare, verrà questo nuovo governo e tornerà la pace, verrà quest’altro governo. Sono venuto via. Ho passato l’Etiopia, il Sudan e il Sahara, il deserto, ma non parlerò di questo. Sono arrivato qui.
(Db 2) L’accoglienza italiana si può riassumere con una formula, ‘buon appetito’. Dopo essere sbarcato mi hanno portato nel luogo in cui sono [ora]. La vita si è rivelata molto difficile. Io mi aspettavo un futuro, delle possibilità, invece, [qui] ti danno un posto dove dormire e mangiare, buon appetito e vai dove vuoi. Ho girato la città per trovare qualcosa da fare. I somali dicono (cita un proverbio) qooro lusho aa qeyrka ku jira (trovano pace solo i testicoli che dondolano) il significato è che un uomo ha bisogno di muoversi, di darsi da fare. In altri paesi europei ti danno una tessera con la quale girare, invece qui è ‘buon appetito’ e basta. Mi sono sentito perso e non capivo la lingua, ma a un certo punto ho saputo della scuola e ho cominciato a frequentarla.
Un bambino appena nato ha bisogno di tempo dici, ha bisogno di essere nutrito, curato, di essere educato. Ora qui non abbiamo genitori, siamo ospiti e questo paese non ci aiuta, lascia stare economicamente, ma neppure psicologicamente. Lascia stare i burocrati, ma la gente comune non è ospitale, ti guarda male, quello che guida l’autobus, ti chiude la porta in faccia (…).
(Db 4) Allora hai la sensazione che il governo italiano non voglia i rifugiati e che il popolo italiano non voglia i rifugiati, io sono passato per molti paesi, l’Arabia Saudita e non sono rimasto, il Sudan e non sono rimasto, la Libia e non sono rimasto. Non riconoscevano i rifugiati, e qui mi hanno preso le impronte (…). I somali dicono Nabar aad filanaysay naxdin malaha/ una feriti che ti aspetti non fa paura.
Quando ero in Somalia, rischiavo ogni giorno di morire, quando ho fatto il viaggio ho corso grossi pericoli, ero così spaventato, mi aspettavo di tutto. Ma quando sono arrivato in Italia non ero più in sospeso. Arrivando in questo paese sei come un bambino, hai bisogno di cure, hai bisogno di cibo, di abiti, hai bisogno di ciò di cui hanno bisogno i bambini, non hai trovato quello che cercavi. Le persone si possono unire se dormono nello stesso luogo, non se ognuno dorme su un muretto diverso, Se si rimane uniti un risultato si raggiunge. Chissà cosa succederà a noi quando non potremo più stare qui.
Farhaan, anni 25
Siamo venuti qui scappando da una situazione difficile
(Db 2) Per me questo paese non è una prigione. Non tutti abbiamo le stesse speranze o aspettative. Sulla costituzione di questo paese c’è scritto che siamo in una repubblica fondata sul lavoro. La prima difficoltà che si incontra arrivando qui è quella della lingua. Siamo come un bambino appena nato. Un bambino appena nato ha bisogno di diverse cose per crescere e per questo c’è bisogno di tempo. Siccome il caso mi ha portato qui e tutti coloro che si spostano lo fanno mossi da una necessità, quello che voglio dire è che poiché siamo qui, dobbiamo entrare a far parte di questa vita, di questa comunità.
Quando si dice stranieri, secondo me come somali siamo diversi dagli altri perché con gli italiani abbiamo un legame da lungo tempo, ci hanno colonizzato, ci hanno costruito il paese, le strade, i palazzi, noi abbiamo una responsabilità nei loro confronti e viceversa. Tutti i nostri intellettuali e politici hanno studiato qui. Quando si dice che una persona è stata in Italia è una persona di valore. In quanto somali ci aspettavamo che l’Italia si occupasse di quello che sta succedendo nel nostro paese. Noi siamo venuti qui scappando da una situazione difficile e ci aspettavamo che l’Italia, proprio per questo antico vincolo che ci lega, ci accogliesse con riguardo. Invece mi sembra che tutto questo sia dimenticato.
Io sono nato nella regione di Hiiraan. Nella città di Beledweyn. Mi hanno detto che sono nato nel 1979. D’altronde è sempre qualcun altro che ti dice quando sei nato. La mattina andavo alla scuola normale e il pomeriggio alla scuola di Corano. Mi mettevo la divisa con la camicia gialla e i pantaloni blu. Quando avevo otto nove anni tra le due scuole rimanevo nell’officina di mio padre che era un fabbro. Mio padre voleva sapere quello che avevo imparato, mi controllava e mi picchiava. Soprattutto per la matematica. Così fino al 1991, ho continuato la scuola e quando ero libero aiutavo mio padre. Mi ricordo della mia città quando c’era la pace, era una città grande, la stazione di polizia funzionava, c’era la caserma dei militari, c’erano anche i guulwadeyaal, i miliziani (pionieri della vittoria).
La sera con gli amici andavamo al cinema, a mio padre non piaceva che andassi al cinema, quindi a volte mi picchiava. A volte c’erano dei film paurosi e scrivevano che chi aveva meno di 18, anzi 15 anni non poteva entrare. Per esempio c’era una scimmia grande che usciva dal bosco e uccideva le persone, proiettavano film di questo genere. Mio padre era un uomo di città, ma si preoccupava per me che ero piccolo, per questo non voleva che vedessi certi film. Poi nel 1991 è scoppiata la guerra civile. A me piaceva molto studiare, all’epoca mi mancava un anno per andare alla scuola superiore, quando il governo è caduto la scuola non c’era più, non funzionava più nulla come prima. Prima nelle scuole eravamo tutti insieme, somali di varie provenienze, invece quando il governo è caduto ognuno si è andato a rifugiare nel territorio di cui era originario il suo clan. Molti degli amici con cui andavo a scuola, il settanta per cento diciamo, sono partiti con le loro famiglie. Sono rimasto con pochissimi amici. Molti degli amici con i quali studiavo, giocavo a pallone, andavo al fiume, sono partiti. Ho iniziato a lavorare con mio padre nell’officina e ho imparato il lavoro. Quando ho visto che non potevo studiare mi sono molto demoralizzato, perché ero convinto che solo chi studia può migliorare la propria condizione e ricoprire ruoli di responsabilità (…).
È stata la somma di queste cose, la scuola che non potevo più frequentare, gli amici che se ne sono andati… Mi ricordavo come andavano le cose prima, quando ero bambino, se due litigavano venivano portati alla stazione di polizia. Quando non esisteva che ti fermassero per strada per chiederti chi sei? (cioè, a quale clan appartieni) dove sei diretto? Avevo paura e alla paura si è aggiunto questo problema familiare. Se parlo dei problemi familiari potrei andare avanti per ore. Sono successe varie cose tra cui che mio zio paterno fosse ucciso a Mogadiscio, mentre camminava.
Nel 1994 poi, la città in cui abitavo è stata presa da un altro gruppo, io sono scappato e ho camminato senza mai fermarmi, quasi correndo, per 60 chilometri. Sono partito alle tre di pomeriggio per arrivare in un villaggio in boscaglia. Siccome appartenevo al clan estromesso ed ero un giovane uomo, avevo paura che mi uccidessero. Succedeva sempre che quando un clan prendeva un posto, uccideva tutti i maschi dell’altro gruppo. Sono arrivato a Buulo Buurte da un mio cugino e mentre stavo lì, dopo cinque sei giorni, il gruppo che aveva preso la mia città ha occupato anche quest’altra. Io ero per strada e mi chiedevo cosa fosse meglio fare, se tornare, se proseguire e ho cominciato a sentire gli spari. Allora mi sono buttato nel fiume per passare dall’altra parte. Ho lasciato le mie scarpe, tutto. Alcuni di quelli che si sono buttati nel fiume dopo di me, sono stati colpiti e sono morti.
(Db 3) Sono rimasto in un villaggio per altri dodici giorni, poi ho trovato un passaggio e un uomo mi ha fatto superare la zona presa dall’altro gruppo. Sono uscito e sono andato nella regione di Bakool, la città di Tayeglow dove mi ha raggiunto mio padre e siamo rimasti lì quattro mesi, poi siamo andati nella città di Huddur per altri quattro mesi. Complessivamente siamo mancati nove mesi dalla nostra città. Quando siamo tornati abbiamo trovato la casa saccheggiata, molta distruzione e la città per metà incendiata.
Dopo essere tornati la vita era molto difficile, si viveva nella paura e ogni giorno sentivo di qualcuno che veniva ucciso. Nel 1999, la pace non tornava, molte delle cose in cui avevo sperato non succedevano e diversi ragazzi mi dicevano che sarebbero partiti per lo Yemen, così ho deciso di andare anche io. Sono partito con un gruppo di ragazzi e dopo circa venti chilometri di viaggio, il camion su cui eravamo si è ribaltato. Era un camion che trasportava bestiame, tre persone sono morte, io, un altro ragazzo e l’autista siamo sopravvissuti. Io non sono tornato indietro e sono andato verso la città di Bosaso. Alla Bbc sentivo ogni giorno di gente che moriva in mare, ma non avevo scelta, se rimanevo o partivo rischiavo in ogni caso di morire. Sono andato verso lo Yemen. Le difficoltà dalle quali scappavo erano peggiori della morte. La morte accade una volta sola, ma vivere in quel modo è una lunga tortura. Ho attraversato il mare verso lo Yemen, sono arrivato nella città di Aden e lì sono rimasto circa un anno.
In quel posto non avevo nessuno, ma c’era un programma per il quale insegnavano un mestiere ai giovani rifugiati, insegnavano il mestiere di fabbro, di meccanico e ogni mese ci davano qualche soldo. Sono rimasto a Aden dalla fine del 1999 a quasi tutto il 2000. Ho cominciato a lavorare come fabbro (forse saldatore) perché lo sapevo già fare e a imparare il mestiere del meccanico. C’era un maestro Yemenita a cui mi sono legato molto e mi aiutava. Vivevo così, mangiavo a credito a una makhaayad (tavola calda) e quando ricevo i soldi pagavo.
Mentre tiravo avanti in questo modo ho cominciato a pensare: non ero riuscito a studiare come desideravo, non avevo un lavoro che mi bastava per vivere, ero in un paese dove non avevo nessuno. Ho pensato per tre giorni di seguito, il primo giorno mi sono svegliato con la febbre, il secondo giorno mi sono svegliato con la febbre, il terzo giorno mi sono svegliato con la febbre e avevo la parte destra della bocca storta e un occhio che lacrimava. [qui dice waan isla hadlaayey, isla hadlaayey… il significato letterale è- parlavo da solo, parlavo da solo- forse rimuginavo, ma parlare da solo è più efficace, ndt). Allora ho deciso di andarmene.
Sono partito e ho camminato 17 giorni. Dopo diciassette giorni mi hanno preso sul confine saudita e mi hanno riportato in Somalia. Da Mogadiscio sono tornato nella mia città. Le cose non erano cambiate. I miei amici non c’erano e nella città erano venute tante persone nuove che giravano armate. Gli amici che ti fai durante il viaggio non rimangono. Ognuno prende la sua direzione. Mentre ero lì mi sono chiesto, F. che farai ora? Era il 2001. sai quando i giovani parlano ognuno parla di un progetto possibile. C’era un ragazzo che lavorava in un piccolo negozio e mi ha detto che il posto dove andare era la Libia e lì si poteva trovare un lavoro. Era un luogo dove c’era pace. Sempre parlando poi mi ha detto che molti somali andavano anche in Sudafrica. Io ero indeciso se andare in Libia o in Sudafrica. Ho soppesato le due opzioni. Mentre riflettevo su come partire nuovamente e per dove, ho conosciuto una ragazza, ci siamo innamorati e abbiamo deciso di sposarci. Ma le cose non erano proprio come le avevo sognate quando ero piccolo e pensavo che mi sarei sposato dopo aver studiato ed essermi costruito un futuro. Ci siamo sposati all’inizio del 2002 e nel 2003 è nato il mio primo bambino.
Nel 2004 una famiglia nostra vicina dello stesso clan di mio padre ha avuto un problema con la casa. In Somalia le case sono contigue, non c’è una divisione netta tra una casa e l’altra. La casa dei nostri vicini apparteneva a delle persone che mancavano da venti anni. I proprietari legittimi non c’erano e avevano mandato una donna per loro responsabile da Mogadiscio per vendere la casa. Nella proprietà secondo questa donna era compresa anche una parte della nostra casa. In Somalia in quel periodo si diceva: ku qabso ku qadimeysid, ‘occupa e non rimarrai a mani vuote’ (non rimarrai digiuno).
Molte cose non andavano, c’erano anche dei problemi familiari che tralascio. Così io e mia moglie abbiamo deciso che io tentassi nuovamente il viaggio. Volevo arrivare in Libia ma i soldi non mi bastavano. Allora ho pensato di andare in Sudafrica. Mia moglie mi ha detto che mi lasciava andar via due anni, ma le dovevo promettere di tornare o di fare in modo che mi raggiungesse. Sono ripartito (safarkii galay– letteralmente sono entrato nel viaggio) nel 2005, mentre lei aveva due bambini ed era incinta del terzo. Sono passato per il Kenya, la Tanzania e poi il Malawi. Sono stato in viaggio per tre mesi. Alla fine sono arrivato in Sudafrica. Lì ci sono piccoli negozi gestiti da somali, dove ho trovato lavoro. Lavoravo in una città che si chiama George, distante 400 km da Cape Town e mi davano 150 dollari. In Sudafrica ti danno un permesso per stare rinnovabile, ma non un documento di viaggio valido. Due anni sono trascorsi così e io non avevo né la possibilità di ritornare da mia moglie, né quella di farmi raggiungere. Le parlavo sempre al telefono e mi chiedeva perché non tornavo, se mi ero dimenticato del nostro patto, tutte domande alle quali non potevo rispondere. Nel contempo in Sudafrica hanno cominciato ad assaltare i negozi dei somali o a ucciderli nelle loro case, mi capitava di sentire storie del genere sempre più spesso.
La mia vita era in pericolo, mia moglie mi aspettava, a quel punto avevo due possibilità: o rimanere in Sudafrica disinteressandomi della mia famiglia e cercare di vivere come avevo fatto fino a quel momento, oppure tenere fede al patto e tornare da mia moglie e dai miei bambini. Sapevo che non potevo vivere nella mia città che avevo lasciato ma pensavo di trascorrere del tempo con loro, una pausa alla nostra separazione.
Sono tornato a BeledWeyne nel 2007, si viveva sempre nella paura, c’erano soldati etiopi e nuove fazioni armate. Quando sono tornato mio padre e mia madre mi hanno chiesto se ero pazzo a tornare, quello era un posto da cui fuggire, non in cui tornare. Io sono rimasto per due mesi e mezzo nella paura. Io ero semplicemente un uomo partito in cerca di un destino migliore e costretto a tornare, ma dall’esterno poteva sembrare che fossi di qualche fazione. Quelli del governo potevano credere che fossi delle corti e quelli delle corti che fossi del governo. Ero tra due fuochi incrociati. Poi sentivo raccontare di molti che erano morti e ho cominciato a non dormire la notte, mi sono ammalato e dovevo andare a Mogadiscio per curarmi, ma non era facile arrivarci.
Tutti poi mi continuavano a chiedere perché ero tornato e non ripartivo. Tra questi non c’era mia moglie, lei aveva apprezzato il fatto che fossi tornato rispettando la promessa. Non sono stati due mesi facili, riposanti. In quel periodo è anche successo che mia madre e altre donne che vendevano delle cose davanti a casa fossero portate alla stazione di polizia. Bisognava pagare una cauzione molto alta per farla rilasciare. Il governo da cui ci aspettavamo pace e ordine si è rivelato per quello che era. Ho preso i soldi che avevo e sono andato alla stazione di polizia. Volevo chiedere perché avevano preso mia madre, ma un vecchio poliziotto che conoscevo da sempre e faceva quel lavoro anche quando il paese era in pace, mi ha consigliato di non fare nessuna domanda e di pagare la cauzione. Mia madre è stata rilasciata. Questa è una delle cose incredibili successe mentre ero lì.
C’è un fatto successo prima, nel 2003 che mi ha fatto pensare di andarmene. C’era un garage vicino a quello in cui io lavoravo. Un uomo è venuto per chiedere che gli fosse fatto un lavoro e con i ragazzi che lavoravano nel garage si sono messi d’accordo per un prezzo. L’uomo ha insistito perché il lavoro fosse fatto subito e hanno cominciato a litigare per questo motivo. I ragazzi gli dicevano di aspettare, che l’avrebbero fatto dopo poco, insieme ad altre cose, e che se non gli andava di aspettare di riprendersi i suoi soldi. No, diceva l’uomo, mi avete fatto perdere tempo e ora mi fate il lavoro subito. I ragazzi si sono rifiutati così quello se ne è andato ed è tornato con un fucile. È cominciata una sparatoria. I ragazzi si difendevano e l’uomo sparava. In questo scontro è morto un uomo e un altro è rimasto ferito. Il mio garage era a dieci minuti di distanza e io vedevo tutto. Una cosa del genere poteva succedere anche a me. Mi sono detto: come posso vivere e lavorare in pace in un paese in cui devo capire dalla faccia del mio cliente se potrebbe uccidermi per un diverbio oppure no? Il tuo impegno è quello di lavorare per mantenere i tuoi bambini, mentre l’impegno di qualcun altro potrebbe essere quella di trovare il modo per ucciderti.
Questo è uno dei motivi per cui ho deciso di andarmene, ma non sono l’unico in questa situazione, ce ne sono altri, partiti prima di me o che sono ancora in Somalia e non hanno la forza di andarsene.
Così ho deciso di ripartire e nel gennaio del 2008 sono arrivato in Kenya. Sono passato per il Sudan e per il deserto e sono arrivato in Libia. Siccome non avevo le risorse per ripartire subito ho lavorato per del tempo a Bengasi in un’officina.
L’accoglienza italiana si può riassumere con una formula, ‘buon appetito’, vedete, mi vengono le lacrime.
Sono arrivato a Tripoli dove sono rimasto fino a luglio quando sono arrivato per mare in Italia. Sognavo di riposarmi, prendermi una pausa da questa enorme stanchezza, di trovare pace e di risollevarmi il morale. Quando mi hanno preso in mare, ero molto felice, mi sono ricordato del legame dell’Italia con la Somalia, del fatto che questi due paesi erano amici, speravo che mi avrebbero aiutato. Da Lampedusa ci hanno portato a Roma. Ora siamo qui da sei mesi e aspettiamo dei documenti, di imparare la lingua, abbiamo perso molto tempo e cerchiamo di recuperarlo ora.
Se guardo la mia vita indietro trovo che il tempo vissuto con difficoltà è più lungo di quello vissuto in pace. Fino a quando avevo 13 anni ero uno studente con un futuro, ma il tempo successivo è stato un susseguirsi di problemi enormi. In questi sei mesi quello che potevo fare l’ho fatto. Sto cercando di imparare la lingua di questo paese in cui sono ospite per parlare con la gente che ci abita. Questo è il primo passo. Il secondo passo è che sto aspettando che mi sia riconosciuto il mio status. Se potessi fare altro lo farei. Ma per ora queste due cose sono le uniche che posso fare.
Ho saputo da altre persone che c’era una scuola in cui lavorava una ragazza somala che si chiama Z. e aiutava i somali a imparare l’italiano e in altre cose. In città non si riusciva a trovare lavoro e invece di trascorrere la giornata senza concludere nulla, abbiamo deciso immediatamente di venire alla scuola. Alla scuola siamo stati accolti a “mani” aperte, ci hanno spiegato diverse cose, abbiamo capito che avremmo imparato delle cose e quelle cose ci avrebbero aperto gli occhi per capirne meglio delle altre. Andiamo ancora alla scuola.
Il nostro mu’allim non solo ci insegna delle cose, ma ci incoraggia (niidda uu noo dhisaa– letteralmente- ‘ci costruisce lo spirito’). Da ottobre fino ad oggi stiamo studiando, purtroppo non ho ancora i documenti, ma aspetto. A me piacerebbe trovare un posto dove vivere, continuare anche a studiare, sì, mi piacerebbe poter studiare ancora. Qui abbiamo un posto dove dormire e da mangiare, ma non sarà sempre così, quando riceverete i documenti non avrete più un posto dove dormire e mangiare, io sono arrivato prima di voi tutti e avete visto dove dormo, all’ambasciata, sto peggio di voi.
Quando mi succederà questo, io andrò dal mu’allim perché lui ha fatto tante cose per noi, e gli dirò mu’allim ho frequentato la tua scuola, mu’allim ora non ho più un posto dove dormire, mu’allim ora non ho più un posto dove mangiare, mu’allim cosa faccio ora? il mu’allim ha fatto molte cose per noi, per cui adesso non riusciremo a vivere in questo modo.
Doolli, anni 25
Volo camminando, cerco una via di uscita, lascio il mio paese
(Db 4) Dulaayo soconaayaa /dhuxuntii aan doonaayaa/ dalkayga aan ka dhoofaayaa/ dirirta aan ka carrarayaa, ‘volo camminando, cerco una via di uscita, lascio il mio paese, fuggo dalla contesa.’
Noi ascoltavamo quelle parole e così dimenticavamo gli scontri, gli stenti, la mancanza di istruzione e di studio. I nostri nonni dicevano che gli italiani erano buoni, che loro li avevano già conosciuti, le nostre orecchie hanno sentito questo e siamo venuti in Italia. Quando siamo arrivati in Italia abbiamo trovato altro. La stanchezza che sentivamo, gli stenti che avevamo patito, quando siamo arrivati qui, non sapevamo la lingua, il giorno in cui siamo arrivati eravamo in 370 persone, ci hanno portati in una sala, i malati e i sani, tutti in una stessa sala. Trecento persone in una sala. Siamo rimasti più di un mese in quella sala. Anche voi siete passati di lì e sapete come si stava stretti. Il malato e il sano stavano insieme. Anche adesso indipendentemente dal vostro stato di salute vi hanno messo in quattro o cinque nella stessa stanza.
Sarebbe stato giusto visitare le persone, dire ai sani che stavano bene e curare i malati. Io stesso mi sono ammalato, sono stato in ospedale, mi hanno curato. Abitavo insieme ad altre persone che stavano bene, che hanno preso i documenti e li hanno lasciati liberi di andare per l’Italia, senza che sapessero la lingua e ora non si sa più niente della loro situazione.
Vado nelle mense dei neri per mangiare, mangio con loro. Sono per la maggior parte neri e rifugiati quelli che mangiano alle mense. Ci sono dormitori dove andiamo e ci dicono che non hanno posto, vado in un posto dove la maggior parte dei somali dorme la sera, senza acqua e luce, conoscerete l’ambasciata somala o la conoscere quando non starete più qui. Anche questo centro è un posto isolato, senza scuola, senza medici, c’è solo una piccola farmacia per quando ti fa male la testa.
Le persone che sono venute prima di noi e sono andate in Svizzera o in Olanda, dicono che hanno avuto una casa e dei documenti, che li mandano a scuola, danno loro dei soldi. Qui in Italia nessuno ti dà un sussidio, ti aiuta, andiamo in una scuola perché ce l’ha indicata una ragazza somala molto brava. Sto cercando di imparare la lingua e di ambientarmi, vado ai centri per l’impiego e negli uffici per gli alloggi. Quando faccio domanda di lavoro mi chiedono qual è il mio diploma, io rispondo che non ho diploma ma solo il mio documento, e mi dicono che per fare un lavoro devo avere un diploma.
Mi hanno dato un titolo di viaggio. Ho pagato 127 euro per il documento. Noi ci aspettavamo, arrivando in Italia, di ricevere aiuto e invece anche il documento andava pagato. Quelli che ottenevano il permesso per cinque anni pagavano 208 euro. Il mio invece è di tre anni. Adesso hanno cambiato però, credo che si debbano pagare 47 euro. I documenti non si possono mangiare, non sono il tuo cibo, né il tuo letto, né la tua istruzione, i documenti non servono a nessuna di queste cose.
Io sono stato in Libia per un anno, per nove mesi sono stato in una prigione vicina a Bengasi. Se confronto i nove mesi in cui sono stato in prigione in Libia a questi otto mesi in cui sono in Italia in cui ho avuto i documenti e hanno accettato la mia domanda, preferisco quell’anno di prigione in Libia. La vita che facevo in prigione era migliore di quella che faccio oggi qui. Perché quando ero in carcere non avevo speranze, aspettative. Ero chiuso in una cella, mi davano il cibo attraverso quella cella e non potevo fare nulla. Ero un detenuto. Invece adesso nessuno mi detiene, mi hanno promesso che si sarebbero occupati della mia situazione, invece mi hanno detto tieni questi documenti, puoi rimanere qui, se vuoi un lavoro cercalo da qualche parte, salaam caleykum, ‘la pace sia con te’. Guardati dalla città. Non c’è casa, non c’è chi ti sostenga, una guida, vogliono solo sapere che tu sei in città. Vivi o muori, sono affari tuoi.
Il governo italiano, i suoi programmi, dovrebbe essere un paese che aiuta e sostiene i rifugiati, ma in questo tempo e nel tipo di vita che io ho visto, tutto questo non lo vedo. È solo un posto in cui la gente viene messa in difficoltà senza senso. Ci hanno preso le impronte e questo significa che il paese in cui le abbiamo lasciate ci deve sostenere, non puoi andare da nessuna altra parte, fino a quando non tornerai nel tuo paese. C’è un motivo per cui ho lasciato il mio paese e non ci posso tornare. Ma se la situazione non cambia, se non posso andare nei paesi in cui ci offrono un’opportunità di vita e se in questo paese non troviamo un’opportunità di vita penso che se nel mio paese ci fosse un periodo di pace, sarebbe meglio tornarci. Per quanto mi riguarda queste leggi non sono rispettate. Ho i documenti da più di tre mesi e mi sono difeso (sono sopravvissuto) in questa città in cui vivo. La mia famiglia mi dice, ma sei arrivato lì, e non hai ancora trovato una sistemazione, un lavoro? Non ci puoi mandare qualcosa? Quando dico che questa situazione è peggiore di quella di quando stavo in carcere in Libia voglio dire anche che quando ero in carcere la mia famiglia non si aspettava niente da me. Ma adesso che sto qui e mi hanno dato i documenti, aspettano me. Mia moglie, i miei figli. Quando ero in prigione, pensavano semplicemente che il loro padre era in prigione, non era libero, invece ora si aspettano qualcosa da me, mentre sono io stesso a non avere nulla.
Il motivo per cui dicevo che era meglio la prigione in Libia della vita attuale è questa. Non mi aspettavo che una volta ottenuti i documenti sarei stato in questa situazione, così disorientato. Anche il fatto che mi abbiano riconosciuto solo tre anni significa che non mi considerano un rifugiato. Io sono venuto dalla Somalia, in tutti i paesi riconoscono l’asilo politico ai somali, i motivi per cui chiediamo asilo sono noti. Persino il fatto che ad alcuni riconoscano tre anni ad altri cinque non ha senso. Io non posso andare in nessun posto per via del trattato di Dublino, da qualsiasi paese mi rimanderebbero indietro.
Avete visto che vita faccio, qualche volta dormo per strada prima di venire a scuola con voi, a volte rimango qui con voi di nascosto, la nostra vita in Italia è così. Possiamo solo sperare che i nostri compaesani somali ci aiutino e se non ci aiutano, possiamo chiedere solo di tornare in Somalia.