Eritrei, cronaca di una diaspora selvaggia

di D. Deloget, C. Allegra

Leggi qui il testo in lingua originale, pubblicato su El País il 5 marzo 2015.
Traduzione dallo spagnolo di Susanna Guerini

 

“Hanno aperto la porta. Sono riuscito a vedere dieci persone incatenate, in piedi, con la faccia al muro. A terra c’era un ragazzo che faticava ad alzarsi. Sulla schiena aveva ferite aperte. Ricordo l’odore di sangue, di escrementi… L’odore di morte”. Era il marzo del 2003 quando rinchiusero Germay Berhane in un centro di tortura al nord del deserto del Sinai. Restò per tre mesi nelle mani di Abu Omar, uno dei tre carnefici più temuti della penisola. Torturato ogni giorno, ininterrottamente.

Germay Berhane è un giovane magro e sorridente. Adesso si nasconde al Cairo, nel quartiere di Fesal. Ci vuole molto coraggio per raccontare la sua storia. Pochissimi rifugiati eritrei nella capitale egiziana accettano di parlare. Le ferite sono troppo recenti. La paura è ancora tanta. “Non è cambiato niente da quando me ne sono andato”, sussurra. Si riferisce all’esodo di massa degli eritrei, alla straziante fuga attraverso il deserto, al sequestro, all’imprigionamento in centri di tortura e ai famigliari delle vittime ricattate con richieste di riscatto esorbitanti.

Germay è nato 23 anni fa in un sobborgo alla periferia di Asmara, la capitale dell’Eritrea, uno dei paesi più poveri e repressivi del mondo. Dalla sua indipendenza nel 1993, il presidente, Isayas Afeworki, ha trasformato il paese in una prigione a cielo aperto, con l’ossessione di reclutare truppe per iniziare una nuova guerra contro l’Etiopia. Ha imposto il servizio militare a tempo indeterminato, che in realtà è più simile a un regime di lavoro forzato.  Germay, che è laureato, si è così arruolato nella Marina e ha imparato ad obbedire senza discutere. Un giorno di gennaio del 2013 sono spariti dei documenti amministrativi nella caserma. Il sospetto è caduto sulla sua unità. Si è subito temuto il peggio. “Ho preso il mio fucile AK e mi sono diretto immediatamente alla frontiera”.

Un vero e proprio esodo. Come Germay, tra le 3000 e le 4000 persone fuggono ogni mese dall’Eritrea in direzione del Sudan. Giovani, per la maggior parte. “È un vero e proprio esodo. Il paese sta restando senza popolazione”, assicura Sheila B. Keetharuth, relatrice speciale delle Nazioni Unite per l’Eritrea. Gli eritrei rappresentano un terzo degli immigrati clandestini che arrivano in Italia. Tuttavia, tra il numero di coloro che escono dall’Eritrea e quello di coloro che arrivano in Europa, Etiopia, Sudan, Gibuti, Libia ed Egitto ci sono da tempo delle inspiegabili discrepanze. Adesso si sa che sono dovute a un mostruoso traffico di esseri umani. Secondo uno studio pubblicato in Belgio (Mirjam van Reisen, Meron Estefanos e Conny Rijken, The Human Trafficking Cycle, Sinai and Beyond, Wolf Publishers, 2013), 50.000 eritrei hanno attraversato il Sinai nel corso degli ultimi cinque anni. Di questi, oltre 10.000 continuano a essere dispersi. Tra il confine eritreo e la prima città sudanese, Kasala, un terzo dei rifugiati viene sequestrato da trafficanti che li trasferiscono, in cambio di denaro, verso il deserto del Sinai, dove li aspettano i torturatori.

All’inizio del 2013, Gemay si trovava nel campo per rifugiati di Kasala. Progettava di arrivare a Khartoum, la capitale del Sudan, dove vive uno dei suoi cugini. Ma nelle vicinanze del campo si aggirano i trafficanti. Due agenti di polizia sudanesi, complici della rete, lo sequestrano e lo vendono alla tribù dei beduini rashaida, nomadi del Nilo che vivono da sempre di contrabbando. A quel punto entra in funzione un sistema perfettamente organizzato. Prima il trasferimento in un punto di ritrovo nel deserto, dove attendono altri dieci prigionieri, scalzi e incatenati. Tra di loro, Halefom, di 17 anni, e sua sorella Wahid di 16. Poi la traversata del mar Rosso nella sentina di una barca, senza acqua né cibo. Il trafficante getta qualcuno in acqua, solo per divertirsi.  E poi il Sinai, l’inizio del viaggio verso la barbarie.

“Nel carcere di Abu Omar c’era sangue ovunque, dal pavimento al tetto. Le pareti erano infestate di mosche e scarafaggi. I vermi strisciavano sul pavimento sporco tra avanzi di carne”. Incatenano Gemay con la faccia al muro e gli proibiscono di muoversi e di parlare. Abu Omar compare poco dopo, accompagnato da tre uomini. “D’ora in poi le vostre vite valgono 50.000 dollari. E io so come incassarli”. Piovono colpi con barre di ferro. La pelle si lacera. Qualcuno sviene. “Ci svegliavano dandoci calci in testa”. Bruciature con ferro rovente o con fosforo che estraevano dai proiettili; plastica fusa versata sulla schiena o sull’ano; ripetuti colpi ai genitali. “Ciò che gli piaceva di più era appenderci per le braccia come agnelli e bruciarci con una fiamma ossidrica”. Un giorno, una delle guardie toglie le catene a Wahid e la trascina in un angolo della prigione dove sei uomini la violentano mentre suo fratello Halefom singhiozza contro il muro. Un prigioniero in catene da molto tempo fa capire loro che il silenzio è la miglior difesa. Guardare per terra. Non urlare. Non irritare i carnefici.

“Papà, sono nel Sinai”. Le sessioni di tortura vengono eseguite con un telefono cellulare attivo. Dall’altra parte della linea, il padre, la madre o la sorella ascoltano distrutti dal dolore. “Ho urlato: ‘Papà, sono nel Sinai!’. Mio padre è svenuto. È ancora ricoverato. Il suo cuore non ha retto…”. Germay non sorride più. Piange.

“Il peggio è ciò che ci obbligano a fare”. Quando i boia si stancano di picchiarli, ordinano ai prigionieri di torturarsi tra loro, di ammazzarsi l’un l’altro. “Un giorno mi hanno chiesto di uccidere Wahid. Mi sono rifiutato. A quel punto mi hanno spezzato le dita delle mani, uno alla volta”. Gli ostaggi che non possono pagare vengono ammazzati con barre di ferro e gettati in fosse comuni piene di scheletri. Germay interrompe un attimo la sua storia e si accende una sigaretta. “Ho pregato Dio di farmi morire presto”.

Restituita da Israele all’Egitto nel 1975 in seguito alla guerra dello Yom Kippur, la penisola del Sinai, una zona cuscinetto ufficialmente demilitarizzata, non si  è mai sviluppata. I beduini, cittadini di seconda classe, non hanno diritto a una carta d’identità. La maggior parte di loro non ha mai lasciato questo triangolo di fuoco, ma hanno fatto del deserto il loro regno. Un regno in guerra. Dal luglio del 2013 l’esercito egiziano tenta di sradicare i gruppi jihadisti, ribellatisi dopo la cacciata del presidente islamista Mohamed Morsi. I militari egiziani assicurano di aver “stabilizzato la zona” con bombardamenti, ma i contrattacchi dei terroristi sono stati letali. Più di 500 soldati e poliziotti sono stati uccisi nel Sinai dall’inizio delle operazioni che hanno ostacolato il lavoro dei trafficanti di esseri umani e dei torturatori: alcuni sono in “sciopero”.

Centri di tortura in Libia e in Yemen
Uno di loro accetta di parlare. Vive in un modesto appartamento nel quartiere di Al Arish, nel Sinai del nord. Si fa chiamare Abu Abdulá. “Ho perso il mio lavoro nel turismo dopo gli attentati del 2005 e allora ho cominciato a lavorare così”, si giustifica l’uomo, il cui turbante bianco ben abbassato lascia appena intravedere gli occhi. “All’inizio gli africani pagavano solo mille dollari e io li trasportavo in Israele senza problemi”. Dal 2008, con l’inasprimento della repressione in Eritrea, il numero dei rifugiati si è decuplicato. Circa 80.000 arrivano in Israele, che nel 2012 ha terminato la costruzione di un muro lungo tutto il confine meridionale. Da quel momento, le reti di traffico di esseri umani conducono gli immigrati fino alla Libia o allo Yemen, dove non molto tempo fa sono stati scoperti centri di detenzione e di tortura. “Gli eritrei sono cominciati ad arrivare nel 2008. Sapevamo che erano disperati. Così ho iniziato a lavorare”.

Un piccolo chiarimento sul vocabolario. Qui tortura e sequestro vengono definiti “lavoro”. La prigione è mazkhan, un casolare. Gli emigranti sono “gli africani”, nonostante siano quasi tutti eritrei. L’abbondanza di vittime e il deterioramento delle condizioni di vita nel Sinai sembrano aver fatto esplodere il traffico di esseri umani. Nessuno, tuttavia, riconosce di aver torturato personalmente. “Io dicevo solo ai miei uomini di spaventarli”, assicura l’uomo con il turbante bianco. Come? “Li bastonavano, li bruciavano e gli infliggevano scosse elettriche”. Ma perché tanta brutalità? Perché sono neri? Perché sono cristiani? O forse perché vogliono andare in Israele, nemico ancestrale? “Se torturi uno davanti agli altri, pagano prima. Io voglio solamente recuperare i miei soldi”.
– Di quanti soldi stiamo parlando?
– Di 700.00 dollari in sei mesi di lavoro. Io guadagnavo una media di 5.000 dollari per africano. Ma poiché questo denaro era frutto di azioni malvage, è evaporato. È scritto nel Corano. Però, sai, qui non c’è niente per noi, non c’è lavoro, non ci sono infrastrutture, niente!
Nella stanza accanto, un suo cugino, con la gamba fatta a pezzi durante un bombardamento egiziano, geme di dolore. Si respira un’aria strana a Al Arish. Alcuni danno ordini, altri li eseguono. Tutti sanno cosa succede. Suona il coprifuoco. È ora di andarsene.

In Eritrea, i familiari di Germay si sono mobilitati. Nell’estate nel 2013 inviano 25.000 dollari, la metà del riscatto chiesto. I suoi sequestratori si innervosiscono. “È troppo poco. Il tempo è scaduto”. Germay sviene. Al risveglio, il miracolo. “Quando ho riaperto gli occhi ero dentro una capanna, sdraiato su una coperta. Sulla parete c’era una scritta in lingua tigrina che diceva: ‘Fratello, il tuo calvario è finito’”. Germay era appena stato liberato dallo sceicco Mohamed, uno dei pochi beduini del Sinai che si oppongono al traffico degli emigranti.

È quasi mezzanotte nella piccola località di Al Mahdia, nel nord-est del Sinai. Sotto un capannone scarsamente illuminato, tredici uomini armati di fiammanti mitragliatrici Uzi bevono il tè. Stanno proteggendo il loro capo. Lo sceicco Mohamed Hassan Awwad, di circa 30 anni, sfoggia una folta barba, nello stile dei religiosi islamici, e offre tè in una stanza adiacente, coperta di tappeti. Nel Sinai lo sceicco è una vera e propria celebrità. Ogni venerdì, durante la preghiera, agita il Corano ed esclama: L’Islam è contro la tortura! Smettete di sequestrare gli africani!

Lo sceicco ha riscattato più di 500 migranti. Mostra le baracche di cemento dove offre ricovero ai migranti liberati. Sul terreno sassoso ci sono coperte e scatole di biscotti vuote. “Sono religioso. È mio dovere aiutarli”, spiega lo sceicco, che appare stanco del suo ruolo di salvatore e della crudeltà dei torturatori. Questi agiscono in un perimetro di 12 chilometri intorno alla città di Al Mahdia. Li conosce? Lo sceicco sorride e sospira. Un beduino non tradisce mai i suoi vicini. “Quelli che torturano hanno perso la fede in Dio”. Da lontano si sente il rumore di un bombardamento.

Proprio in quel momento, Alganesh Fessaha atterra al Cairo. La voce profonda e lo sguardo severo, questa italiana di origine eritrea è presidente dell’ONG Gandhi. Un furgone la aspetta all’aeroporto. Suona il cellulare. “No, sceicco, ancora non mi hanno chiamato” risponde in arabo.

Lo sceicco beduino salafita e l’attivista ostinata. Da sei anni, questa curiosa coppia si incontra regolarmente per organizzare la liberazione dei migranti rapiti. Questa volta Alganesh è particolarmente preoccupata. “Tra gli ostaggi c’è un bambino, Merih, di appena 13 anni. La sua famiglia è molto povera e non ha i soldi per il riscatto. I torturatori lo stanno lasciando morire di fame”. Il ragazzo, rischiando la vita, ha recuperato un cellulare e ha chiamato Alganesh. “In carcere ci sono solo due guardie e accanto c’è una moschea. Dev’essere certamente vicino ad Al Mahdia”.

“Vado a prenderli”
Tre del mattino. Alganesh supera i posti di blocco dell’esercito egiziano tra Suez e Al Arish, ma è ancora lontano da Al Mahdia, roccaforte dello sceicco Mohamed, a soli tre chilometri dal confine con Gaza. Dall’altra parte del telefono, lo sceicco impaziente. “Maledizione, Alga, io sto già andando a prenderli”. I suoi pick-up sono diretti verso le dune. Tre mazkhan, tre carceri, sono allineate nel deserto, illuminate dalla luce della luna. Lo sceicco e i suoi uomini si avvicinano a una di queste, abbattono la porta ed escono con 16 prigionieri, scheletri barcollanti, ancora incatenati l’uno all’altro. Li conducono fino a un nascondiglio in mezzo a un uliveto, a un centinaio di metri dalla casa dello sceicco Mohamed. Sono magrissimi, con lo sguardo assente, pallidi di orrore. “Calmatevi, figli miei, è finita”, sussurra Alganesh, che li ha appena raggiunti.

Improvvisamente, lo sceicco entra nella capanna trascinando per un braccio le guardie e i torturatori, due beduini di 19 e 20 anni. “Sono tutti vostri, castigateli!”. I 16 salvati si nascondono sotto le coperte. Nonostante i suoi 28 chili, solo Merih si alza e risponde, “Sceicco, li abbiamo perdonati”. Poi si gira verso Alganesh con un sorriso. “Vedi le mie ossa? Un giorno saranno coperta da muscoli e io ti difenderò per tutta la mia vita”. Alganesh, la dura attivista, si emoziona.

Per due giorni presta soccorso ai giovani. Nessuna lesione lieve. Spalle slogate, mani rotte, ferite aperte sul petto; neppure un centimetro di pelle che non sia stato tagliato, bruciato, lacerato. “Come si possono permettere queste atrocità nel XXI secolo?” mi chiede. Alganesh fotografa volti e ferite. Ha già informato l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e ha chiesto 16 lasciapassare, indispensabili “apriti sesamo” per superare i controlli sulla strada per Il Cairo. Senza, potrebbero essere arrestati per ingresso illegale in Egitto. L’attivista annota in un quaderno ogni nome, ogni storia. “Un giorno, chiederemo giustizia per questi crimini contro l’umanità”.

Alganesh Fessaha vuole mostrare al mondo che questo traffico atroce esiste e si sta diffondendo in tutto il Corno d’Africa. Finora, lei e lo sceicco Mohamed hanno liberato 750 migranti dai centri di tortura. E per gli altri 3.400, rinchiusi nelle prigioni egiziane, Alganesh ha fatto una buona mossa: ha ottenuto dei documenti presso l’Ambasciata etiope del Cairo. In questo modo, con il sostegno finanziario di varie istituzioni italiane, gli eritrei-etiopi sono potuti tornare ad Addis Abeba e ai campi profughi.

Il meccanismo della tratta
“Niente avrebbe fatto pensare che il traffico di esseri umani sarebbe potuto finire in un massacro”, afferma Alganesh mentre raccoglie le sue trecce in un foulard. Da quando dieci anni fa ha iniziato a perlustrare il delta del Nilo tutto è cambiato. Fino al 2008, il traffico di persone verso Israele era regolare – 500 immigrati al mese – e le tariffe basse, tra i 600 e i 1.000 dollari (circa 525 e 875 euro) per tragitto. Senza torture. In quel periodo, somali, afgani e persino cinesi seguivano lo stesso tragitto. Secondo Alganesh, i sequestri sono iniziati nelle strade al confine tra Eritrea e Sudan, ma anche alle porte dei grandi campi per rifugiati dell’UNHCR di Kasala e Al Shagarab, in Sudan. Con la complicità della polizia sudanese, i rifugiati vengono rivenduti in ogni fase del viaggio, come bestiame, e il loro valore aumenta a seconda delle tangenti pagate. Un poliziotto sudanese vuole 100 dollari e una guardia di frontiera egiziana può arrivare a chiedere fino a 300 dollari. “Quando un rifugiato eritreo arriva nel Sinai, vale già 10.000 dollari”, stima Alganesh.

Alla fine del 2010 è emersa una nuova rete di traffico di persone in Etiopia, l’unico paese che fino a quel momento accoglieva gli eritrei. “Nello stesso campo profughi di May Ayni, molto vicino al confine eritreo, promettevano un lavoro in Sudan ai bambini di 13 e 14 anni. Li facevano salire su un autobus e dopo ventiquattr’ore erano già nelle mani dei trafficanti sudanesi. Ma quelli che organizzavano il trasferimento erano eritrei!” lamenta Alganesh.

Nel 2011 il sospetto viene confermato. Il cervello del traffico illegale è il generale Teklai Kifle Manjus, capo della zona militare nell’ovest dell’Eritrea e uomo di fiducia del dittatore Isayas Afeworki. In un rapporto spietato, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite indica Manjus come responsabile e conclude che “l’esodo di massa dei richiedenti asilo che attraversano la frontiera occidentale dell’Eritrea non sarebbe stato in alcun caso possibile senza l’aiuto delle autorità governative”. Alganesh è convinta che “tutte le reti clandestine, dal Sinai alla Libia, sono guidate da eritrei”. Questo traffico di persone finanzia una dittatura sotto assedio.

Seguendo la pista del riscatto
Ogni mattina, Meron Estefanos collega il microfono sul tavolo della cucina, nel suo piccolo appartamento di Stoccolma. Questa eritrea naturalizzata svedese, madre di due figli, da sei anni ha uno spazio su Radio Erena Libre, punto di riferimento della diaspora eritrea.

Un giorno nel dicembre del 2009 riceve per la prima volta una richiesta di soccorso da un deportato del Sinai. “I suoi rapitori avevano lasciato il telefono acceso e lo stavano torturando in diretta”, ricorda Meron. Da allora, le chiamate si susseguono giorno e notte. Lei conforta gli ostaggi e tenta invano di fermare i carnefici. “Ma è difficile negoziare con un torturatore beduino”, dice Meron con un sorriso amaro.

“In Eritrea nessuna famiglia può pagare il riscatto, che spesso supera i 23.000 euro”, continua. Devono vendere la casa, il bestiame, i gioielli, se li hanno. Restano per strada. L’aiuto degli espatriati è indispensabile. “Quando si raccoglie il denaro necessario, la famiglia lo invia tramite Western Union in Israele, dove i complici dei rapitori lo ritirano. Sono anche spuntati degli intermediari in Europa che trattengono una parte della somma inviata nel Sinai”.

Un sistema ben rodato
Meron si ritrova di fronte a un crudele dilemma: il pagamento dei riscatti incentiva i sequestri? A malincuore, Meron ha scelto di raccogliere fondi per salvare il maggior numero possibile di ostaggi. Da due anni registra telefonate e testimonianze. Insieme a due olandesi, esperte in Diritto Migratorio, ha elaborato una lista con i nomi degli ostaggi liberati e frequenta diverse istituzioni internazionali. Nel 2011, Frontex, l’agenzia responsabile del monitoraggio dei confini europei, dà l’allarme: quell’anno l’Unione europea ha accolto 64.291 immigrati, rispetto ai 4.406 del 2010. Tra questi, un numero crescente di eritrei. Ciò accade nonostante l’Unione europea invii ogni anno all’Eritrea tra i 100 e i 150 milioni di euro come aiuti per lo sviluppo, un gesto che gli oppositori del regime di Isayas Afeworki descrivono come “assegno in bianco” per la dittatura. Alla fine del 2011, l’Unione Europea decreta la fine degli aiuti e richiede un rapporto su questo traffico fino ad allora sconosciuto. Ma nei due grandi campi profughi del Sudan, Al Shagarab e Kassala, dove vivono più di 80.000 eritrei, le sparizioni si moltiplicano.

Secondo le indagini dell’Unione Europea, alle quali prende parte anche Meron, la missione è molto delicata. È necessario raccogliere prove per dimostrare la vastità di questo fenomeno senza offendere Sudan, Egitto e Israele. Il 2012 è un anno fondamentale. La tratta degli esseri umani nel Sinai raggiunge la massima espansione e le torture toccano picchi altissimi di barbarie. Gli eritrei fuggono in massa verso Israele.

Nell’attraversare la frontiera, ad alcuni dei sopravvissuti capita di essere arrestati e rinchiusi in centri di detenzione. Il più grande è Sharonim, la “Guantanamo istraeliana”. Situato a tre chilometri dalla frontiera egiziana, nel deserto del Negev, raccoglie immigrati eritrei che possono restarci per un periodo che va da pochi mesi fino a tre anni. Nessuno è stato riconosciuto come rifugiato.

Meron va sei volte all’anno a Tel Aviv, dove vivono i rifugiati che sono riusciti ad evitare Tsahal, l’esercito di Israele. Lì cerca coloro che conosce solamente dalle grida di dolore dall’altro capo del telefono. Un giorno, dopo una riunione nel quartiere di Petektiva, un ragazzo la avvicina. “Meron, sono io, Filomon!”. Nel vedere le maniche che nascondono le mani, Meron si ricorda. I torturatori di Filomon l’avevano lasciato pendere dal soffitto per così tanto tempo che le sue mani erano andate in cancrena. Gli restano solo due dita a forma di artiglio, ricostruite nel miglior modo possibile dai chirurghi israeliani. Filomon si riprende grazie all’aiuto di Daniel, un compagno d’esilio diventato la sua anima gemella.

Di ritorno in Svezia, Meron ottiene un risultato incredibile. Alla fine del 2012, all’ennesima chiamata dal Sinai, un torturatore le comunica il nome di un intermediario residente a Stoccolma, incaricato di ricevere il denaro. “Era la possibilità che stavo aspettando”, racconta. Invia l’informazione a due giornali svedesi e alla polizia, che pone Meron sotto sorveglianza con delle microspie. Alla prima chiamata che riceve, avverte il suo interlocutore che il denaro che gli darà serve per finanziare la tratta di esseri umani. “Ha riattaccato subito”. Il secondo contatto reagisce nella stessa maniera. Il terzo, un giovane palestinese, sbotta: “Non me ne frega un cavolo di questi miserabili eritrei!”. Mesi dopo, quest’uomo e uno dei suoi complici vengono arrestati in Svezia mentre ricevono il denaro.

“Si credevano al di sopra della legge”
Durante il processo, tenutosi a Stoccolma nel giugno del 2013, i due accusati mostrano la stessa arroganza. “Mi hanno chiamata cagna, stronza, di tutto. Si credevano al di sopra della legge”. I due intermediari si sono dichiarati non colpevoli. “Dicevano di non sapere a cosa serviva il denaro, e siccome non c’erano prove sufficienti, li hanno condannati solamente a quattro mesi di carcere” lamenta Meron. Ma per prima volta, l’Europol ha potuto aprire un’inchiesta sul finanziamento delle reti della tratta di esseri umani nel Sinai. A quel punto i centri di tortura si erano diffusi in Libia, Sudan e Yemen.

Sempre più eritrei arrivati sulle coste italiane raccontano di essere sopravvissuti al Sinai. Il 3 ottobre 2013, 366 immigrati sono morti nel naufragio di Lampedusa. In seguito alle autopsie e agli interrogatori ai sopravvissuti, la polizia di Palermo ha scoperto che 130 eritrei a bordo del barcone erano stati sequestrati e torturati in Libia e in Sudan. Lampedusa rivela al mondo l’orrore del “metodo Sinai” e la sua diffusione in altri paesi. E quel che è peggio, alcuni torturatori riescono a nascondersi tra i rifugiati accolti dalle democrazie occidentali. Con l’aiuto dei sopravvissuti, Meron ha deciso di cercarli in ogni angolo d’Europa.

La nostra shoah
Nella sua piccola cucina, Meron riceve Robel Kelele, appena entrato clandestinamente in Svezia. Robel ha 24 anni e ne ha passati cinque in esilio. Dopo otto mesi di tortura nel Sinai, i suoi carcerieri lo abbandonano in una fossa piena di cadaveri credendolo morto. Si è risvegliato nell’ospedale del carcere egiziano di Al Arish, da dove lo hanno deportato in Etiopia. Allora prende una decisione azzardata: vuole riprovare ad arrivare in Europa, con le sue cicatrici come talismano. “Le mostro al trafficante e gli dico: ‘Mi dispiace, amico, ho già pagato’”, racconta con la serenità di chi “è già morto una volta”. Robel attraversa il Sudan e la Libia, si infila in una barca e sopravvive per miracolo a un naufragio sulla costa siciliana. Attraversa l’Europa e arriva in Svezia, l’unico paese d’Europa che dà priorità ai rifugiati eritrei. E lì, nel centro di Stoccolma, succede qualcosa di incredibile. “Andavo a trovare un’amica. E improvvisamente lo vidi. Camminava tranquillamente per la strada. Era… era l’uomo che mi aveva venduto”. Meron sta raccogliendo le prove per accusarlo. “Il traffico di persone è la shoah degli eritrei”, dice Meron. “Un giorno i carnefici dovranno rispondere davanti al Tribunale Penale dell’Aia”.

Novembre 2013. Meron ha finalmente ottenuto che Daniel e Filomon siano chiamati a testimoniare davanti al Parlamento Europeo. Davanti ad un emiciclo pieno, Meron spiega i dettagli del traffico di esseri umani nel Corno d’Africa. Espone i metodi di tortura. E sottolinea che i trafficanti hanno ottenuto almeno 600 milioni di dollari in riscatti. Gli eurodeputati restano inorriditi. Allora Daniel sale sul podio e interviene a viso aperto. Filomon ascolta in silenzio, nascosto da una tenda dalla quale si intravedono solamente le mani frantumate. Alla fine prende la parola. “Ci hanno perseguitato nel nostro stesso paese. Ci hanno violentato e torturato nel Sinai. Ci hanno incarcerato in Israele. Alcuni dei nostri compaesani sono morti a Lampedusa. Che peccato abbiamo commesso per meritarci questo? Guardate le mie mani! Tutto ciò che vogliamo è essere ascoltati, perché il deserto e il mare cessino di essere la nostra tomba”.