Cerchio narrativo rifugiati somali (Cn/1-9)

Il cerchio narrativo è la prima struttura di auto-narrazione collettiva sperimentata con un gruppo di rifugiati somali all’interno della Scuola Asinitas di Via Ostiense a Roma.
Il cerchio si è svolto in nove incontri da gennaio a giugno 2008 diventando un luogo privilegiato di auto-riflessione, di memoria condivisa, e di riconoscimento di soggettività al nostro interno, come gruppo di volontari e operatori che si ponevano domande sul loro lavoro, e tra gli stessi ragazzi somali i cui racconti svelavano percorsi di vita e di viaggio disomogenei per origini, sorti e motivazioni. Ma tutti interessati a narrare e ascoltare, con uguale impegno, e a scambiare echi e esiti di quell’ansia di muoversi verso confini e pascoli (anche della mente) più freschi che i somali individuano con il termine
buufis, una voglia di partire (ma anche di esplorare, di sognare o di innamorarsi) di cui si è a lungo discusso tra noi.

Al cerchio narrativo hanno partecipato un gruppo di richiedenti asilo somali  arrivati in Italia da poco e allora ospitati presso il Centro di accoglienza di Castelnuovo di Porto; una mediatrice culturale (Zahra Omar) che ci faceva da guida e  da interprete per le sottigliezze della lingua somala, gli operatori della scuola e dell’archivio (Marco Carsetti, Chiara Mammarella, Sandro Triulzi, Dagmawi Yimer, Sintayehu Eshete), e due scrittrici di origine somala (Igiaba Scego  e Cristina Ali Farah) che avevamo invitato ad accompagnare il cerchio narrativo con propri spunti e sollecitazioni. Ne sono risultate nove sessioni di cui riproduciamo qui brevi estratti (CN/1-9), una serie di parole chieste a Cristina per iniziare il cerchio, simboliche pietre di accostamento, e di inciampo, su cui affinare distonie e somiglianze (Pcn/1-5), e un ideale Diario di bordo (Dbo/1-5), riflessioni libere che Igiaba ha scritto sul lavoro, gli intrecci e gli incontri del cerchio.

Sul cerchio narrativo con i ragazzi somali uscì allora un intervento a più mani di Igiaba Scego, Marco Carsetti e Sandro Triulzi su Lo straniero n. 107, 2009 (v. Il cerchio e la scuola, nella sezione Ricerche)

 

CN/1 (Partire)

H.: Io ero uno studente, sono cresciuto in una situazione di guerra in Somalia, quando è uscito Siad Barre avevo tre anni. Quindi non posso ricordare come era la pace. Ho continuato a studiare anche se c’erano le difficoltà della guerra civile. Mi dicevo, mentre continuavo a studiare, che avrebbero fatto pace e si sarebbe ricostituito il governo, avrei avuto un futuro. Il tempo si prolungava, mentre stavo per fare l’ultimo esame della scuola superiore, a Mogadiscio comandavano varie fazioni, mentre stavo facendo l’esame, quelli che controllavano la città hanno costituito un’organizzazione che doveva espellere dalla città, o combattere contro altri gruppi che disturbavano la città, come le corti. In quei giorni sono cominciati scontri tra le fazioni armate e le corti islamiche, mentre facevo gli esami in alcuni quartieri c’era pace, in altri si combatteva continuamente. Quando ho finito gli esami, il conflitto è esploso, durante i tre mesi estivi [in cui] io progettavo e mi preparavo per andare all’università, le corti islamiche hanno preso tutto il sud della Somalia, eliminando tutte le fazioni a loro opposte.
Io ero contento, perché il paese fino a quel momento era stato diviso tra varie fazioni che si combattevano, mentre ora era controllato da un solo gruppo, da Mogadiscio fino al sud, quindi pensavo sarebbe tornata la pace e avrei potuto studiare.
A Baidoa c’era il governo transitorio e aveva annunciato che avrebbe fatto la pace con le corti e tutto si sarebbe ristabilito, poi si sono incontrati in altri paesi (come il Sudan) per riconciliarsi, ma non hanno fatto la pace, non c’è stato nessun risultato. Nel frattempo mi ero iscritto all’università, a scienze informatiche, sono iniziati altri scontri, tra il gruppo governativo e il gruppo delle corti islamiche, gli scontri inizialmente erano fuori dalla città, in altre regioni, ma sono arrivati fino a Mogadiscio, gli scontri si sono conclusi con la cacciata delle corti e la presa del potere del governo transitorio. Ho avuto una nuova speranza, che il governo aveva preso il potere e avrebbe ristabilito la pace e che io avrei potuto continuare i miei studi. Nel frattempo in modo sotterraneo le corti mettevano delle bombe, c’erano delle esplosioni, prima l’università era fuori dalla città, uscivamo la mattina e andavamo all’università, mentre da quel momento l’università è diventata il quartier generale del governo. Alcuni giorni non si andava all’università, oppure si andava e c’erano degli scontri, qualche volte si interrompeva la strada del ritorno. Quando è diventata quartier generale del governo, l’università è stata chiusa e le varie facoltà sono state divise tra varie case. Nonostante questo non siamo riusciti a continuare, è diventato difficile continuare. A me piaceva tanto studiare, quando non ho avuto la possibilità di fare quello che desideravo ho pensato di andare via. Questo è il motivo per cui ho deciso di partire.

A.: eravamo compagni di università io e H. Siamo cresciuti entrambi con l’assenza di un governo, in mezzo alla guerra civile. Noi abbiamo sempre visto militari con i fucili e posti di blocco. I genitori erano sempre preoccupati, si era sicuri di uscire la mattina, ma non di tornare la sera. Molte cose sono successe nella mia famiglia, persino mio padre, una mattina è uscito e non è più tornato. Mio fratello andava all’università, una mattina è uscito e non è più tornato.
Sono stato in questa situazione per tutta la mia vita, per diciotto anni. Molte volte ho pensato di morire e invece ero vivo. Per fare un esempio, un giorno mentre stavo andando a scuola hanno aperto il fuoco sul bus su cui viaggiavo. È morta una persona vicino a me, ho sentito il calore del suo sangue. Pensavo di essere ferito e sono sceso, non si riescono a raccontare tutte le cose che abbiamo passato. Si poteva morire anche senza nessuna ragione. Questa è la ragione per cui ho pensato di andarmene. (…)

F.: quanto io penso alla mia storia, provo paura. Quando è caduto il regime di Siyad Barre io frequentavo la scuola media, stavo a Beletweyne, la guerra, gli attacchi sono iniziati da lì. Dormivamo sempre con la paura per non aver lasciato la città, la mia famiglia era enorme, eravamo più di una decina. Siamo andati a Mogadiscio e a Mogadiscio ci ha raggiunto la guerra con cui è stato cacciato Siyad Barre. Da lì siamo andati nella campagna di Johar, siamo rimasti lì due mesi, siamo tornati a Beletweyne e abbiamo trovato la nostra casa bruciata, poi siamo stati ospiti del vicinato finché mio padre ha ricostruito la casa. Sinceramente era una situazione molto difficile. Poi molti civili hanno iniziato ad armarsi, sono incominciate questioni di clan.
Mio padre aveva un’officina, io lavoravo nell’officina di mio padre. In città c’erano delle persone armate che creavano delle SBARRO/ posti di blocco. Nel 1994 in città hanno ucciso delle persone, queste persone venivano da fuori città, io ero presente, a causa di quell’incidente ci sono stati degli scontri in tutta la città, noi siamo scappati dalla città. (…)

 

CN/2 (Lasciare)

Igiaba: io direi che continuiamo a fare quello che abbiamo fatto la volta scorsa per capire sempre più cose, per capire soprattutto le nostre idee del viaggio e capire che cosa avete messo nella valigia, nella borsa quando siete partiti e mi piacerebbe sapere a chi avete detto che stavate partendo, un po’ F. ci ha spiegato i suoi tre viaggi, H. ci ha detto del suo.

Dag: io quando sono partito… non ho salutato mio padre, perché non l’ho salutato ci sono tanti motivi, lui non avrebbe creduto in quel viaggio che stavo per fare. Mia mamma l’ho chiamata ed è lei che mi ha mandato anche i soldi e una settimana prima mi sono preparato con le cose che dovevo portare con me e tra le cose che mi ricordo sono i vestiti più leggeri per il deserto e delle cose anche inutili, avevo tre libri, immaginate tre libri, a che cosa servono. Però non avevo nessuna idea del viaggio che mi aspetta. Non sapevo neanche che dovevo andare su queste macchine fuori strada. Tra i libri avevo una grammatica e dizionario della lingua inglese e oromo, però passo per la zona amhara, non mi serve, però l’avevo portato perché mi piacerebbe sapere la lingua oromo, gli altri libri erano finzione [romanzi], non me li ricordo, non li ho letti, e c’avevo la bussola e poi c’avevo del cibo, datteri, lo zucchero … ma era pesantissima la mia borsa. Sapete che a Kufra abbiamo buttato tutto e poi siamo rimasti nelle mani dei libici, comunque anche in Sudan ho dovuto buttare molte cose, perché non c’entrava. Quindi la persona che ho salutato quando sono partito è mio fratello piccolo, mia mamma non c’era in Etiopia, mia nonna pure non c’era in quel momento, poi altri amici che conoscevo. La sera sono uscito, ma il giorno dopo che dovevo partire sono andato a dormire da un’altra parte, è così. (…)

Mo.: oggi il viaggio non posso raccontare qua è molto lungo, alcune parti sono molto tristi, sono passato dall’Etiopia, il Sudan e la Libia e il Mediterraneo che sta tra l’Italia e la Libia. Una volta ho provato il viaggio quando vivevo in Etiopia, ho affrontato molti disagi e stenti, ho sofferto per venti giorni e sono tornato indietro. Sono rimasti lì sei mesi e ho riprovato. Comunque il mio viaggio è stato come desideravo, Dio me l’ha facilitato, dal Sudan all’Etiopia ho impiegato 14 giorni. I disagi che ho incontrato è che per più di una settimana ho dormito nella boscaglia e l’altra difficoltà è quando dal Sudan alla Libia e ho attraversato il Sahara. Il Sahara, Dio mi ha facilitato, l’ho attraversato solo in sette giorni fino a Kufra. La difficoltà più grande è stata che sono passato in un periodo molto freddo nel Sahara. I vestiti che avevo e le provviste preso dagli amici, le ho perse, avevo pantaloni e la camicia leggera, la notte avevo freddo. Quando sono arrivato a Kufra sono andato a Tripoli, sono stato dieci giorni, poi quando ho visto la vita che si faceva in Libia ho deciso di entrare presto in mare, dio mi ha facilitato, venerdì notte alle due sono entrato in mare, sono stato in mare per 24 ore, sono arrivato a Lampedusa il 27 dicembre 2008. Vi ringrazio. Sono uscito da Mogadiscio, ad Addis Abeba sono vissuto per un anno. (…)

 

CN/3 (Il dentro e il fuori)

(…)

Mo.: eravamo piccoli avevamo otto anni, alla radio dicevano che avrebbero cacciato il governo e ne avrebbero portato uno migliore. Quando il governo è stato destituito, gli stessi che ci avevano promesso di liberarci hanno cominciato a lottare tra di loro. La città quindi è stata divisa in due, ma di radio ce n’era solo una, “La voce del popolo”. Fino al 1993 quando è intervenuta l’Unisom, la città era divisa e l’Unisom ha tracciato una linea verde, tra i due gruppi. Poi le persone sono state convinte ad opporsi all’Unisom. Da quel momento in poi, Mogadiscio è diventata quartiere e quartiere e anche le regioni erano a sé. Fino al 2006 un gruppo comandava un quartiere, un altro gruppo un villaggio, un altro ancora una città. Fino a quando sono iniziati i conflitti tra le corti islamiche e i suoi oppositori. Questo è stato il succedersi dei fatti.

(…)

[Allora Mogadiscio era divisa in due parti, una veniva chiamata Manifesto, e l’altra Manicomio]
Manifesto si chiamava così per la carta moneta che circolava. Credo che si chiamasse così per questo motivo. Nella parte di Manicomio invece circolavano i vecchi soldi somali. Chiunque dava un nome alla sua parte, quello che c’era era una gara, una disputa per una poltrona. (…)
Quello che succedeva a me direttamente e quello che si sentiva alla radio era diverso. Quando si sentivano le notizie, ognuno diceva di avere la sua ragione e di essersi opposto a quel gruppo per un motivo valido. Ma quando stai dentro casa tua e arriva un razzo, in quel momento pensi che siano tutti uguali e nessuno è migliore dell’altro. (…)
Se posso aggiungere qualcosa, Manifesto erano i soldi, ma anche una parte della fazione che combatteva contro il governo e si chiamava USE. Come ho avuto modo di sentire, erano gli anziani con le camicie a quattro tasche che pensavano di risolvere le cose con la forza.

H.: se posso aggiungere qualcosa, quando iniziavano gli scontri ed ero a casa, il conflitto tra Siad Barre e gli oppositori, io ero piccolo, avevo tre anni, non lo posso ricordare. Però quelli successivi, quando iniziavano gli scontri in una zona, bisognava trasferirsi in un altro quartiere, lì si rimaneva due, tre giorni, in seguito si tornava nella propria zona quando tutto finiva. Io ricordo di una sera, ero con mia sorella piccola, eravamo in un negozio per telefonare, eravamo all’incrocio Tawfiq, in una traversa del mercato di Suuq Bacaad. Mentre ero lì dentro chiamando un’altra regione della Somalia, fuori abbiamo sentito uno scontro a fuoco, tra quelli che controllavano le sbarro e un altro gruppo. Sentivamo gli spari, a noi non è successo niente e poi siamo andati via. (…)
(…) dall’inizio alla fine ti nascondevi sotto il letto. A volte poteva succedere che entrassero degli spari dentro casa e uccidessero le persone… finché duravano gli scontri nessuno poteva uscire. Quando gli scontri finivano si andava all’ospedale, se la persona era morta si andava a seppellirla. Se uscivi sembrava che facessi parte di quelli che combattevano.
Quando non c’era guerra si andava. Noi siamo cresciuti in un periodo in cui il governo era frantumato, quindi c’erano dei singoli venuti dall’estero che aprivano le proprie scuole, o delle associazioni. Quindi poteva andare a scuola solo chi aveva una famiglia che poteva sostenere l’impegno finanziario… io pagavo 14 dollari al mese per la scuola superiore, quella media 12 dollari, quella elementare 10 dollari. L’autobus, la penna, il tuo libro. Spendevi circa cinquanta dollari al mese. Non tutti erano uguali, alcuni genitori non potevano permettersi soldi per il cibo della ricreazione. Mangiavano a casa loro. (…)

H.: c’erano anche delle famiglie che avevano soldi, ma non mandavano i figli a scuola per paura che succedesse loro qualcosa. Altri ancora avevano i soldi, ma non riconoscevano il valore dello studio.
(…) Chi andava a scuola, poteva incontrare molte difficoltà. Mentre l’autobus va verso la scuola può succedere che in un quartiere ci siano scontri e l’autobus sia costretto a fermarsi. La cosa più incredibile che mi è successa, una volta, mentre andavo a scuola al quarto chilometro (io abitavo a Black Sea, Hodan), la macchina è girata intorno alla tribuna, sotto la macchina di fronte a noi è esplosa una mina. La gente era ferita. È successo poco tempo fa, nel 2007 quando c’era la guerra delle corti islamiche. Le difficoltà potevano esserci quando uno andava a studiare.

Dag: la storia nostra non c’entra niente con quella della Somalia, però mi ricordo nel 1990 quando il socialismo è stato vinto dai ribelli che stanno adesso al potere, mi ricordo a casa il coprifuoco (bandow: coprifuoco in somalo. Forse da bando?) C’era una paura tremenda, perché l’Etiopia è conosciuta come un paese che aveva tante armi e quelle armi erano distribuite a tutte le famiglie, nei quartieri, e da noi è arrivato un Kalashnikov, perché mia madre lavorava nell’amministrazione del quartiere, anche se non c’entrava niente con la situazione. Quel kalashnikov nessuno lo poteva usare e c’erano familiari che sono venuti da noi dopo che l’esercito è stato disperso. Da noi questi familiari sono arrivati ad Addis Abeba perché combattevano da un’altra parte e a casa eravamo in tanti per passare quel momento. E loro hanno montato il kalashnikov, era tutto smontato, e noi guardavamo come si montava, eravamo piccoli. Mio padre era molto preoccupato voleva fare una casa sotto, un buco con le traverse di sotto per nasconderci, soltanto noi figli, addirittura ha portato i ferri della ferrovia. E studiava come metterli, quanto può essere pericoloso anche mettere queste traverse. Noi non uscivamo da casa ma si sentivano i fuochi, si diceva sono arrivati, c’era l’ansia, la preoccupazione, perché in una settimana questi ribelli non erano ancora entrati in Addis Abeba. C’era un governo provvisorio che è durato solo una settimana. Era 1991. Comunque, io quando ho sentito che Menghistu era scappato dal paese, sono arrivato da scuola, era mercoledì, lo so bene, il pomeriggio non avevamo le lezioni, abbiamo acceso la radio, e hanno detto Menghistu, senza dire Signor Menghistu, come si faceva prima. Non c’era nessuna informazione perché era proibita la radio, era pericoloso per uno che la sentiva, devi essere nascosto per sentire. E all’improvviso hanno detto che Menghistu era andato via, era in Zimbabwe. Era una paura totale, uno choc, le scuole erano chiuse e così per le strade, nel quartiere, trovavamo delle bombe per terra, l’esercito che si vendeva un kalashnikov per 40 bir, 4 euro così. Questa situazione mi ricorda quando ero dentro casa. Solo una settimana dopo c’è stata un’esplosione ad Addis Abeba, all’arsenale. Mio padre non era ad Addis Abeba stava lavorando a Awash, mia nonna ci ha portato lontanissimi a Entoto, nella periferia di Addis Abeba, in montagna. Noi ci divertivamo. C’erano le madri che si preoccupavano. Padri che correvano di qua e di là e noi… Avevo quattordici anni.

 

CN/4 (Casa, House/Home)

H.: io vivevo con mamma e papà e cinque fratelli più piccoli. Io ero il più grande. Sono nato a Mogadiscio. Se oggi devo raccontare della casa dico innanzitutto che mio padre era una persona istruita nella religione musulmana, aveva una piccola biblioteca dove raccoglieva molti libri che parlavano della storia dell’Islam e parlava l’arabo. Anch’io so l’arabo. Aveva tutti questi libri e quando tornava a casa leggeva. Insegnava nelle moschee. Anch’io a volte leggevo i libri arabi. Abitavo in una casa di questo tipo, andavo a scuola, io non avevo i miei libri, avevo solo quelli di mio padre e quelli della scuola. Quando tornavo a casa studiavo e a volte leggevo i libri arabi. Quando si parla di cambiare casa: cambiare casa in Somalia è diverso da come può essere qui, può succedere che tu sia costretto a cambiare casa e a cambiare quartiere per le difficoltà e gli scontri. Ciò che cambi è la casa, non la home, quando lasci la tua casa vai in un’altra casa di parenti e così ti vai ad aggiungere agli altri e ad aumentarli, quindi è molto difficile trasportare la tua vita, i tuoi libri e tutto il resto. Lasci tutte le tue cose, vieni via solo tu e vai nella casa dei tuoi parenti. Cambi solo tu, la casa rimane al suo posto. Io finisco qui. Prima però ho sentito chiedere se Castelnuovo può essere come una casa. Possiamo dire di no. Perché una casa è il luogo dove hai i tuoi libri, dove riponi il tuo avvenire. Una casa non può essere il luogo dove mangi e dormi. Possiamo chiamare casa il luogo dove siamo oggi, a scuola. Ho finito. (…)

Mu.: come ha detto H. le usanze dei somali si assomigliano. Come si abita nelle case, quello che i bambini imparano, tutto è come l’ha raccontato H. Se io parlo personalmente come Mu., la prima volta che sono stato costretto a sfollare, ci sono stati degli scontri nel mio quartiere, prima piccoli, poi sono continuati per quattro mesi. Siamo stati costretti per quindici giorni a lasciare casa. Noi siamo tutti nati a Mogadiscio, ma mio padre era originario della regione Hiraan, quando iniziavano gli scontri quindi andavamo nella città di Beletweyne. Nel nostro quartiere ci sono stati sei sette scontri. Noi ogni volta andavamo a Beletweyne. La prima volta che ci siamo trasferiti. Prima di tutto mio padre era un maestro che insegnava l’arabo nelle scuole. Mio padre è venuto a Mogadiscio come studente durante il governo di Siad Barre. La prima volta ci siamo trasferiti nella sua regione senza portare nulla. Libri, televisione… non abbiamo portato nulla. Dopo quattro mesi, alla fine degli scontri, lascia perdere i libri, avevano staccato persino le porte e le finestre alla casa. La cosa più impressionante che ho visto è stato lasciare una casa tutta arredata e tornare senza trovare né porte né finestre.  Io avevo sei sette anni e sono state le prime guerre nella città di Mogadiscio. Dopo quel momento quando avevamo bisogno di qualcosa, dei libri, dei vestiti, dovevamo andare al mercato.

I.: se dico una piccola cosa, poiché si parla di home e di house, per quanto riguarda la home, ognuno ha il suo pensiero. Se parlo della mia casa, io abitavo nella capitale di Gibuti, nel quartiere di Balbala dove le case sono di terra e di lamiera, eravamo circa undici persone, undici figli e i miei genitori, io ero il secondogenito. Per me quello che è home dipende da quanto ha vissuto e la persona e quanto ha visto. Mio padre amava i libri, ne raccoglieva molti fuori e li portava a casa e poi li chiudeva in una specie di baule, perché lui non aveva tempo di leggerli, lavorava la mattina e il pomeriggio. Quando ho compiuto tredici anni, mi si è aperta la testa e ho cominciato ad amare i libri e a leggerli, la difficoltà è che assieme ai libri c’erano fogli e documenti e mio padre non voleva che noi li toccassimo (ci entrassimo con le dita), quindi era molto difficile aprire quel baule e tirarne fuori dei libri da leggere, anche a lui sarebbe piaciuto che noi leggessimo e scrivessimo, il problema era che non aveva tempo. Lì provavo una forte oppressione, per questo ho cominciato a cercare i miei libri per avere il mio baule. Molte volte ho provato a prendere i libri di mio padre a sua insaputa, ma mio padre mi ha picchiato, perché aveva nei libri i suoi documenti e temeva che glieli sporcassimo, ci giocassimo, li strappassimo. Quando ho preso il diploma delle superiori, abbiamo tirato fuori tutti i libri che da piccoli non c’erano concessi e uniti ai miei sono diventati millecinquecento. In lingua araba, in francese. I più importanti li abbiamo portati in una scuola molto frequentata in modo che fossero usati. Quindi per me home è ciò che vivi e l’esperienza che prendi dentro la tua casa. Quello che tu prendi dentro casa lo porti fuori e ti fa sempre compagnia, quindi per me home è tutto quello che ho nella mia testa e lo porto con me. Quello che potrò acquisire saranno altre esperienze. Castelnuovo di Porto non può essere una home. Posso considerare come home anche questa scuola che mi aiuta ad aumentare le conoscenze. Concludo qui il mio intervento. (…)

 

CN/5 (Amico/alleato) 

O.: Esiste il vero amico, perché il mio fratello più grande nel 2007, l’8 ottobre, ha fatto un viaggio [partendo] da Mogadiscio, ci ha salutati a tutti, ha detto che voleva fare un viaggio e voleva andare in Italia. Ha detto con chi voleva viaggiare, ha detto che c’erano ragazzi di diversi quartieri quindi vado con quei ragazzi.
Gli ho chiesto se sapeva nuotare così si poteva salvare. E lui ha detto di no.
Gli ho detto non te ne andare, stai qui con noi, e lui ha detto di no.
Ho impiegato quindici giorni per persuaderlo a non partire, e lui non ha voluto.
I ragazzi del nostro quartiere erano entrati in Italia, e tutti volevano partire.
Io devo andare via, ho questa voglia di partire: lo abbiamo salutato e gli ho detto buon viaggio.
È arrivato in Etiopia e poi dall’Etiopia lo hanno rimandato ad Hargheisa.
Ci ha chiamato e ha detto che voleva riprovare ancora.
Per una seconda volta lo hanno riportato ad Hargheisa.
Poi, ci ha richiamato ed ha detto questa volta vado in Eritrea. Gli abbiamo detto di ritornare indietro.
Lui non è voluto ritornare, è andato in Eritrea e non abbiamo avuto sue notizie fino al 5 gennaio 2008.
Poi il 20 gennaio ci hanno telefonato dei ragazzi, ci hanno detto che era morto e che lo avevano seppellito.
Era morto per colpa della sete, e loro erano scappati per salvarsi. Loro lo conoscevano bene ma ognuno doveva salvare la propria vita.
Quando si sta in un momento di difficoltà ognuno deve salvare la propria vita.
Gli abbiamo fatto il funerale e la moglie ha preso il vestito da vedova e abbiamo fatto tutte le esequie.
A marzo, mi è successo anche a me che mi è venuta la voglia di partire.
Io stesso ho detto che me ne andavo in Italia.
Mio padre ha pensato che sarei morto anch’io, perché già aveva avuto il problema del primo che è morto.
La mamma ha detto che potevo partire, allora loro due si sono messi a litigare.
Sono andato dietro mia madre, e tanto il destino….
Papà non voleva che io partivo, alla fine si è deciso.
Io non venivo a casa a dormire perché mio padre non voleva che partivo.
Poi, papà alla fine si è deciso ma mi ha detto di andare con mio cugino dalla parte di mamma, e ha detto voi due partite insieme.
O vivrete insieme o vi salverete insieme.
Da lì siamo partiti insieme e siamo andati in Etiopia, poi in Uganda e poi insieme.
C’era un confine tra la Libia e il Sudan, lì dove i sudanesi e i libici si prendono le persone e fanno lo scambio…
Intanto, quando dovevano fare lo scambio mi sono addormentato.
Allora, quando hanno fatto il cambio tutti hanno preso le macchine, tutti sono andati in macchina e io dormivo perché ero troppo stanco.
Mio cugino non mi trovava dentro la macchina, mi ha cercato e mi ha chiamato.
Poi dopo mi ha trovato che stavo, dormivo sotto una duna, e mi ha svegliato con un calcio, mi ha tirato fuori e io mi sono svegliato spaventato e sono corso sopra il camion.
Poi da lì sono arrivato in Libia e abbiamo fatto anche la traversata insieme.
Fino ad oggi siamo insieme in Italia.
Quindi l’alleato c’è, perché lui è mio amico. Tutti sono andati in macchina lui è l’unico che è sceso a chiamarmi.
Questa è la mia storia ho finito.
(…) 

D.: (…) il mio amico più vicino che io amavo molto è un mio zio, il fratello di papà. Eravamo molto amici.
Lui aveva un piccolo negozio e io lavoravo al negozio.
Io ero molto vivace, i ragazzini che venivano a comprare le cose io litigavo con tutti.
Io quel momento non sapevo che lo zio era un mio amico, l’ho capito dopo.
Dato che ero molto vispo e fastidioso, lui mi diceva la gente che viene qua non la trattare male, non darle fastidio. Mi dava dei consigli. “Anche se ti sputano in faccia non ti preoccupare, tu lavala, pulisci con la mano, digli grazie e fai le [tue] cose”.
Però, ero troppo vispo, una volta lo ascoltavo e tante altre volte no.
Allora, litigavo con le persone e loro andavano da lui.
E dopo quando cenavamo insieme, non mi parlava ma dopo mi chiamava da parte in un angolo e mi ridiceva tutte le cose mi diceva al negozio.
Mi ripeteva “ma come, quello che ti dicevo, ovvero, se ti sputano fai così, e tutti gli altri consigli che ti ho ripetuto anche la sera perché non li hai seguiti”.
Quando ero così vispo e davo così fastidio mi davano tre o quattro bastonate e io andavo via e ricominciavo da capo le cose che non dovevo fare.
Non ero abituato alle parole, poi man mano che crescevo mi rendevo conto di tutte le parole che mi diceva.
Questa era la mia infanzia da quando ero cresciuto, tutti questi consigli dello zio.
Dopo quando sono diventato un po’ più grande sono stato in mezzo a tanti miei amici.
Ho lavorato con gruppo di pescatori, eravamo tutti giovani e non c’erano persone grandi.
Giovani che stavano tutti insieme e poi dopo andavamo uno contro l’altro ci attaccavamo.
E sono stato sette anni a fare questo lavoro, non ho mai fatto a botte con qualcuno e non ho mai discusso con nessuno.
Avevo ancora i detti degli zii, che mi diceva qualunque cosa che ti fanno…
Poi tutte le cose che mi diceva lo zio, ogni tanto me le ritrovo vicino, tutte quelle parole mi vengono dietro e ogni tanto ci ripenso.
All’inizio mi prendevo a botte con chiunque, poi da quando sono andato via dalla casa dello zio penso sempre alle sue parole e non litigo con nessuno.
Quindi, il mio zio è stato il mio grande amico, che mi ha sempre raccomandato questo cose qua, però l’ho capito dopo che era un mio grande amico, l’ho capito dopo. (…)

 

CN/6 (Il nome)

Igiaba: Quando nasci in un paese in cui i tuoi genitori sono stranieri, perdi anche pezzi di nome; il mio nome è Igiaba Alì Omar Scego, però quando mio padre è andato a scrivere il nome per i documenti, Alì Omar è scomparso, quindi per tutti ora sono Igiaba Sciego, un po’ strano. Per tradizione somala io non sono Igiaba Sciego, sono Alì Omar Sciego. Quindi ho scoperto che qui in Italia, oltre al fatto che non si ricorda il nome dello straniero, si perde anche il nome. E poi in Italia tendono anche a cambiarti il nome. Mi ricordo che i miei fratelli non li hanno mai chiamati con i loro nomi: Mohamed l’avevano chiamato Amedeo e (…) l’hanno chiamato Bucatini, come la pasta, non ho mai capito perché ma tutti i vicini di casa lo chiamavano così. Poi in generale il mio nome è un nome strano anche per la Somalia, ho incontrato pochissime persone che si chiamavano come me, soltanto donne molto anziane e non ho mai capito bene da dove viene perché non è un nome coranico, anche se persone di lingua araba mi hanno detto che significa “risposta”. Dunque non lo so, diciamo che è cosi, però immagino che il periodo in cui mi hanno dato questo nome, non è stato un periodo facile per i miei genitori. Erano qui, scappati dalla Somalia quindi volevano forse un nome che ricordasse una loro amica, mi hanno detto che quest’Igiaba era una loro amica; a me piace molto questo nome perché me l’hanno dato con amore e poi suona bene.
Come secondo nome ho Faduma, non so perché ma quando vivevamo in un altro quartiere, da piccola, tutti gli italiani mi chiamavano Fatima, e io mi arrabbiavo, dicevo “No, non è il mio nome, non è così”; poi ho ancora un altro nome Suba, mia mamma mi chiama così. Nella mia famiglia abbiamo tanti soprannomi, mio fratello si chiama Barbaro, Zahra si chiama Johnny e io Mino, non lo so perché.

Sintayehu: Non so se qualcuno qua sa qual è il mio vero nome, Sintayehu, adesso anche a me suona strano, nessuno mi chiamava così… Questo nome me l’ha dato mia madre, lei ha sofferto tanto per farmi nascere, e il mio nome in italiano significa “Quanto ho sentito”. A casa mia madre, le mie sorelle e i miei fratelli mi chiamano Sinti. Fuori casa ho un soprannome, mi chiamano Gobena, è un nome di un eroe, era un generale oromo di Menelik. Ancora non so perché mi hanno dato questo nome. Quando sono arrivato qui, Sintayehu era un po’ difficile per gli italiani, così me ne hanno dato uno più corto, Sinti. Ancora adesso quando qualcuno mi chiama Sintayehu è un po’ strano per me.

F.: Il mio nome è F., me l’ha dato mia mamma quando sono nato.
Questo nome è venuto così: quando mamma si è sposata con papà, lui voleva tanto avere un maschio. La prima figlia è venuta femmina, poi ne è venuta un’altra, e tutti consigliavano papà di sposarsi con un’altra donna, dicendo che così avrebbe avuto un maschio. Poi mamma è rimasta incinta un’altra volta, ed è nata una terza femmina. F. significa “felicità” in somalo. Dopo tre femmine, com’è abitudine, mio papà si è sposato con un’altra donna. Poi mamma è rimasta incinta un’altra volta, di me. E l’altra donna è rimasta incinta anche lei, poi sono nato io. Mamma si è tanto arrabbiata quando sono nato. Era molto spaventata quando sono nato e non ha cercato un altro nome. Sono nato io è ha detto: “questo è F., felicità”.
Dopo qualche giorno l’altra donna ha avuto una femmina.
Poi dopo sono diventato grande e verso i sette anni papà mi chiamava con un altro nome: Abd Aziz, poi con quel nome ho cominciato la scuola, ma quando sono cresciuto per tutti i conoscenti sono stato sempre Farhaan, che tra i due nomi mi piace di più.
Il significato di Abd Aziz è di una persona molto dura, severa. Il contrario di F., che è un nome felice. Può darsi che il mio carattere sia il significato dei due nomi, nonostante io sia dalla parte buona. Mi piace il mio nome.

Y.: Mia mamma dice che quando sono nato mi ha chiamato (…) letteralmente sarebbe “pulito”, sono nato nella città di (…)
Mio zio che abitava a Mogadiscio, ha mandato una lettera, c’era scritto che quel bambino nato si doveva chiamare Y., che questo nome è un nome antico e si usa dappertutto. Poi ora che sono venuto qua è cambiato poco, qua mi chiamano Joseph, sicuramente si usa dappertutto questo nome, non c’è nulla da cambiare, tutti mi chiamano così e sono contento.

A.: Io mi chiamo A. ma questo nome non me l’hanno dato né mio padre né mia madre. Me l’ha dato un signore, un santone amico di mio padre. Lui si consultava con questo santone quando la mamma era incinta e da lì uscivano i nomi: il mio nome è venuto cosi.
Dopo quando sono cresciuto ho saputo che A. era il primo califfo del profeta. Più tardi ho saputo che in realtà non era proprio un nome, era un soprannome: questo modo di dire A. è un nome arabo, significa “figlio di”. Non era una cosa che veniva dalla Somalia, e così gli amici mi dicevano: “questo è un soprannome, tu ti devi dare un nome!”. Poi dopo non mi sono dato tante responsabilità di scegliere un altro nome, e dato che tutti mi conoscevano così, ho lasciato andare.

Mu.: Mamma e papà si sono consultati per darmi il nome, chiedevano anche agli altri: “questo bambino come lo chiamiamo?”. Praticamente mia madre doveva scegliere tra tre nomi dati da mio padre. M. è il nome che ora ho e gli altri due sono O. e M.
La mamma ha scelto di chiamarmi sempre M.. Quando incontravo papà invece, il nome che veniva a lui era O. o M.. Sono contento dato che questo nome me l’hanno dato dietro consiglio dei miei genitori e quando sento il mio nome sento un’abitudine e so che i miei mi hanno dato dei bei nomi e sono felice.

M.: Il mio nome è M. A. I., sono nato nel nord della Somalia nel 1988. Quando sono nato mio papà non lo sapeva, lui era un poliziotto militare e quando siamo nati, sia io che mio fratello più grande, lui non c’era. Mia mamma mi ha chiamato come soprannome “sentito nell’orecchio”, a me “soltanto sentito” e a mio fratello “quello che non ha sentito niente” perché nostro padre non l’abbiamo mai visto.
Lui non c’era mai in casa non sapeva mai quando mamma rimaneva incinta e tanto meno quando partoriva.
Il soprannome di mio padre era ‘Abdi Il Nero’, e mia mamma si chiamava (…) che sarebbe nero. Sia mamma che papà avevano il soprannome “nero”, quindi io non sono chiaro per niente.

I.: Mi ricordo un giorno in cui mamma mi ha parlato del mio nome, mamma ci raccontava le cose, mi ha raccontato del mio nome, praticamente mi ha detto che il mio vero nome è Sahel.
Le ho chiesto qual era il motivo di questo nome. Mi ha detto che quando mi aspettava, era all’ottavo mese, ci fu un litigio con altre donne del vicinato e tutte le altre donne andarono contro mia madre. Lei ha avuto un sanguinamento, così gli altri del vicinato si sono arrabbiati con quelle donne: “come avete potuto andare contro una donna in attesa?”.
Dopo un po’ è andata all’ospedale e, fortunatamente, poi sono nato io.
Pensavano che forse avrebbe portato conseguenze, ma per fortuna non ce n’è stata nessuna e sono nato.
Dopo che sono nato la prima parola che lei ha detto è stata Sahel che significa (…).
Mio nonno invece, il padre di mio padre, mi ha chiamato Idris, lui voleva molto bene a mia madre, seguiva sempre la sua condizione. Mio padre era il più piccolo dei suoi figli, e prima di mia madre aveva avuto altri due matrimoni, così. mio nonno ci teneva molto al nome, e che con questa terza moglie, papà avrebbe fatto famiglia e sarebbe stato tranquillo.
Il nipote, voleva chiamarlo Idris: mia mamma non ha potuto dire niente, ma quando mi vede mi chiama sempre Sahel.
Nessuno conosce questo nome, gli amici, i compagni… Quel nome sta dentro di me e lo conosco solo io, mia mamma mi chiama così.

H.: Mia mamma e mio papà mi hanno chiamato H., questo nome è venuto fuori la notte in cui sono nato: quella notte era la commemorazione della morte di un signore che si chiamava H. (…), era nato nella città di Merka, ed era un santone famoso, molto conosciuto in quella parte della Somalia.
Tutti mi chiamano con questo nome, non ne ho mai avuti altri. Mi piace questo nome perché il suo significato è “bene”, accompagna una persona che indica bene, mi hanno dato lo stesso nome di una persona che faceva solo il bene.
Finché sono venuto qui in Italia questo nome non è mai cambiato. Qui si scrive H. al posto di (…) è cambiata solo l’iniziale, non altro.

Ab.: Mi chiamo Ab., mi hanno chiamato così mamma e papà, ma ho tanti altri soprannomi come Tokjo: mi hanno chiamato così altre persone perché mio padre quando si è sposato con mia madre dopo poco ha divorziato. Significa: “è nato in un istante”. Ho un altro nome, Fantù: perché correvo molto quando andavo a scuola e per questo mi hanno dato questo nome, perché ero uno che correva tanto, sono felice e dico solo questo.

 

CN7 (Il buufis)

H.: A me sembra che quando venivamo qua c’erano tanti ragazzi che sono venuti prima di noi, i ragazzi prima di noi, quando stavano in campo, il campo serviva solo per vivere, non si studiava, non si faceva niente. E dopo che finiscono il campo, chiusa la porta del campo, escono fuori. Non hanno programmato, non hanno pensato dopo l’uscita dal campo dove dovevano andare, la prima cosa da fare è conoscere la lingua, non hanno studiato nel centro e non hanno avuto la possibilità. Noi credevamo che la prima cosa era andare fuori dal centro per cercare di andare fuori per studiare. Siamo usciti dal centro prima che si chiudesse la porta. Oggi sappiamo un po’ l’italiano ed è importante quando si va a cercare un’altra porta perché stiamo in Italia. Ci sono tanti al cui interno c’è ancora il buufis, che non sanno se rimanere o no, il buufis dipende (dal fatto) che quando non troveranno facilmente un’altra porta da bussare, andranno via dal posto dove stanno e andranno in un altro posto. Io credo che la porta è reale e si può trovare, ha bisogno però di tempo, e bisogna imparare anche il modo di aprire le porte. Prima il professore aveva detto che i nomadi non hanno le porte e che hanno una porta interna, però se si vede in modo reale, i somali che hanno questa casa, quando ti viene a trovare qualcuno non bussa ad una porta, non entrano, però c’è una porta che conoscono sia quelli che ti vengono a trovare sia tu che abiti là, la porta c’è ma è astratta. Io credo che bisogna aprire la porta con tenacia e bisogna anche sapere tante cose e bisogna sapere i codici e i regolamenti delle porte, io non ho nessun buufis, io credo che troverò qua una porta sicura. Termino così.

(…): Allora nella società, quando qualcuno perde un lavoro si dice ‘Quando si chiude una porta, Dio apre tante porte’. Per noi come stranieri da aprire ci sono tante porte, ma per aprirle prima dobbiamo imparare la lingua, così una porta apre le altre che sono chiuse.

(…): Per me, se parliamo di porte aperte e chiuse, le porte sono state sempre aperte e chiuse, se cominciamo fin dai tempi della nascita della persona. Sicuramente abbiamo visto tante porte chiuse e tante porte aperte, e quando si chiudevano le porte, si pensava che in qualche modo si sarebbe risolto. La difficoltà ti fa uomo e ti fa pensare alle soluzioni. Noi abbiamo fatto tanti viaggi, abbiamo passato tante difficoltà, (momenti in cui) dovevamo nasconderci dalla polizia (perché) senza documenti, qui è diverso. Io credo che qualche porta si aprirà, che non conosciamo, si dice ‘Chi non attraversa la terra non ha occhi’, chi non viaggia, chi non cammina, non ha occhi, non ha vista.

(…): Si dice anche ‘Chi non viaggia non conosce gli uomini’.

(…): Ciò che ci ha portato qui in Italia era il fatto che una porta si era chiusa e qui siamo venuti per una porta. Quindi è un’abitudine che una porta si apre e un’altra si chiude. Io penso che si supererà. Poi quando parlo del buufis, personalmente oggi non ho più questo buufis, mi basta quanto ho passato, ho imparato tante cose, con questo viaggio ho imparato il valore del paese che ho lasciato. Ho finito.

(…): Tocca a me. Sicuramente penso che qui ci sono persone che hanno tanta esperienza e prima di me hanno detto che la porta si chiude, ma la porta si apre. Secondo me tra il termine buufis e la porta chiusa o aperta c’è una differenza, può essere probabile che stai nel tuo paese e ti si chiude una porta, mentre il buufis è uno che vuole viaggiare, andare via, cercare una vita migliore di quella che stava facendo. Se parliamo di noi somali che stiamo qua, secondo me, quando uno va via dal suo paese e si trova in un paese straniero che si chiude una porta, non esiste un problema più grosso della chiusura di quella porta. Quello sicuramente che abbiamo visto. Siamo passati in tanti paesi, abbiamo passato tanti problemi, non sapevamo se potevamo passare, se potevamo continuare il nostro viaggio, quindi abbiamo già visto questi problemi. Prima di tutto mi vorrei raccomandare prima di iniziare, qui siamo in un paese con documentazione, tutto in regola che può sostituire il paese che abbiamo lasciato, come regolarità. Io penso che le porte che si sono chiuse non sono meno difficili di quelle che ci aspettano, ha bisogno di tempo e di impegno, la lingua è la cosa più importante.

(…): Vorrei aggiungere il mio pensiero, abbiamo sentito prima di me dei termini più importanti. Se parlo prima della porta, il professore ha detto che c’è una porta reale e una porta non reale, che c’è una porta che si può toccare e una che non si può toccare. La porta reale è quella che non si vede, quella porta astratta che bisogna solo capire dentro, la domanda è: come si può aprire questa porta e trovare la chiave di questa porta? Io penso che quella chiave può essere la speranza, la speranza è una cosa in cui tutti credono. Il giorno in cui uno non troverà più la speranza, quella volta dirò che si chiude la porta di quella persona. La speranza può essere buona e non buona, si può passare con impegno e pazienza. Uno quando vuole andare da una parte deve essere una persona che ha grinta, mi ricordo una storia che mi ha raccontato mio padre quando ero piccolo, mi ha raccontato che un ragazzo a cui moriva il padre, mentre stava morendo, il ragazzo gli ha detto ‘Papà lasciami delle parole in eredità, che voglio ricordarmi quando tu non ci sarai’. Il ragazzo ha ripetuto varie volte al padre queste parole. Il ragazzo pensava che il padre gli avrebbe detto tante parole, però il padre gli ha consigliato di avere esperienza, l’esperienza è una cosa molto importante. Anche quella può essere una chiave per aprire le porte, io ho questa idea che in eredità gli ha lasciato questa parola, esperienza, tutto, imparare una lingua, andare avanti con la vita rientra in quella chiave dell’esperienza. L’esperienza non viene stando seduti.

Per quanto riguarda il buufis, il buufis può avere tanti significati, il buufis può anche essere la porta che ti si chiude, che hai perso la speranza, un movimento che nasce dentro anche se non hai nessuna difficoltà, può essere anche una persona a cui vuoi bene che vuole andarsene e vuoi andare con lui. Può avere tanti significati il buufis, però il buufis che sente tutto il nostro popolo somalo è quello che hanno perso la buona speranza in cui vivevano e sono in cerca di una nuova speranza, è una cosa a cui sei costretto dalle circostanze in cui una persona vive. Questo è il buufis.

(…)

 

CN/8 (La madre) 

F.: Questo argomento, sulla mamma, è un argomento molto importante. Sicuramente, di tutti gli argomenti che abbiamo trattato, questo lo trovo molto importante. È molto importante, è una cosa che esprime tanti sentimenti quando si parla della mamma. Sicuramente, la mamma è la prima cosa che una persona percepisce. È una cosa che è sempre esistita, c’è sempre stata. La mamma inizia a prendersi cura di te, da quando nasci. Direi neanche da quando nasci, ma da quando sei nella pancia della mamma. Da lì comincia ad avere cura di lui.  Deve avere cura anche di sé stessa, in modo che il bambino che porta con sé non abbia problemi. Quando nasci, lei pensa alle cose che puoi fare, che puoi prendere, bere, fare. Sicuramente è un argomento che muove la pelle (jir dhaqaajis), il corpo. È una cosa su cui tutto il mondo è d’accordo, in qualunque posto le persone si trovino, come io penso che piaccia loro esistere. Una madre quando ha un figlio, lo cresce, lo tiene in braccio, lo allatta, e le piace che quell’essere che ha partorito faccia tanti progressi. Può essere di qualsiasi colore, può avere qualsiasi credenza, ma lei ama vedere i progressi della persona che ha generato. Alla mamma non piace che si faccia qualcosa che non va bene. Quindi possiamo dire che la mamma è la guida della pace degli esseri umani. Se ci sono dei problemi da qualche parte, la prima persona che ha dei problemi e che si angoscia, è la mamma, invece di pensare a sé stessa, alla sua vita, pensa al figlio. Per il momento basta, magari dopo tornerò sull’argomento. (…)

I.: Io vorrei dire una cosa. L’argomento della mamma è molto importante. Quando si parla della mamma, della situazione della mamma, proviamo compassione (calool jileec, stomaco molle), e forti sentimenti. Tutte le parole che avete detto, mi fanno riaffiorare tanti ricordi dentro. Io ricordo tanti problemi che ho passato con la mia mamma. Quando avevo undici anni, mi ricordo che stavo male e mi portò all’ospedale, quello stesso giorno pioveva tanto, io avevo la febbre molto alta. Eravamo dentro la fila per la visita, lei non si è seduta perché ero in cattive condizioni, allora si è messa a camminare veloce, poi è andata a prendere i medicinali e siamo tornati. Mentre tornavamo a casa, sono caduto in un piccolo torrente in cui si raccoglieva l’acqua piovana, sono caduto dentro, era tutto fango. Tornato a casa, la febbre era aumentata ancora. Poi mia mamma mi ha portata da alcuni parenti per cambiarmi perché in quel momento ero tutto bagnato, lei mi ha praticamente lasciato in questa casa ed è andata a piedi in un posto lontano per andarmi a procurare dei vestiti per potermi cambiare quelli bagnati. Mi ha cambiato, mi ha portato una coperta, mi ha coperto tutto con i vestiti che aveva portato indietro, ma la mia condizione non stava migliorando. Poi mi ha procurato da mangiare, perché non aveva la pazienza di chiedere di portarmi qualcosa da mangiare, lei è uscita di nuovo a prendere qualcosa da mangiare. In quella casa si potevano trovare dei vestiti con cui cambiarmi, però lei è andata a casa nostra a prendere la mia roba, in pratica lei lì non era tranquilla (…)

La mamma è una cosa molto importante, ci sono molti racconti. Possiamo capire che i bambini quando sono piccoli e hanno bisogno di qualcosa, piangono sempre, piangono quando hanno bisogno di mangiare, se hanno bisogno di andare di corpo piangono, se vogliono fare il bagno piangono, piangono sempre. E l’unica persona che può capire di cosa hanno bisogno è la mamma. Il bambino se vuole giocare piange, tutto ciò che vogliono lo esprimono con il pianto, e la mamma è l’unica che può capirlo e che può fare le cose di cui hanno bisogno. È lei che, anche se stanca, la notte si sveglia. Non dorme, lo guarda sempre. Lo allatta al seno. Se ha freddo, lo avvolge con il lenzuolo. Quando perde il lenzuolo, lo ricopre. Sempre gli copre il petto per vedere se sta bene. Gli sorride sempre. In tutto ciò, il padre non fa niente, dorme. Lei non dorme. La mattina si sveglia anche se non ha dormito la notte, e la aspettano tutti i lavori della casa. E continua così finché il figlio non cresce. Vuole sempre insegnargli tutto, la lingua, le parole con cui si capiscono tra di loro, ma gli altri non capiscono, perché il vero maestro dei bambini è la mamma. Sicuramente se il bambino non impara la lingua della madre, cresce come un sordo. La mamma è molto importante, quando tiene in grembo il bambino, o anche quando lo tiene sulle spalle e si allenta la chiusura del marsupio, lo spavento che prova in quel momento, nessun altro lo può capire. E come ha detto F. prima, la mamma ci tiene molto che il figlio faccia dei progressi, a lei piace che il proprio figlio sia più bello e più bravo degli altri bambini, le piace che sia il più bravo della scuola, le piace che abbia qualcosa in più degli altri, le piace che sia l’eroe di tutti, le piace che abbia raggiunto un livello altissimo. Una mamma non accetta mai che al proprio figlio sia detto stupido, anche se lo è, non accetta mai che gli si dica. La mamma è così importante che non si può riassumere in poche parole.

C’è anche un passaggio di cui parla l’Islam, che il Profeta ha detto, quando i suoi sudditi gli chiesero quale dei due genitori fosse per lui più importante, lui ha ripetuto tre volte ‘La mamma, la mamma, la mamma’. E la quarta volta ha detto ‘Il padre’. Uno dei Compagni gli ha detto ‘Io ho portato sulle spalle mia madre, l’ho portata alla Mecca, e l’ho riportata indietro, ho compiuto il mio dovere nei confronti della mamma?’ e lui ha risposto di no. In questo modo ti fa capire che non si può ripagare tutto ciò che fa la mamma, quello che facciamo non è mai abbastanza. Il Profeta ha detto che il paradiso sta sotto i piedi della mamma, quindi lei ha questo valore. Io ho finito, vi ringrazio.

 

CN 9 (Morire/ricordare) 

A.: Nella cultura musulmana, quando qualcuno muore, si deve seppellire subito. Dopo tre giorni, alcuni una settimana, vengono i santoni, recitano il corano, poi il rus, il ricordo, si fa dopo un anno, e poi di anno in anno.
Quando muoiono i genitori, tutti i figli si riuniscono nella casa del primogenito che ha una casa grande, si fa il rus dei genitori, dei nonni, tutti insieme.

(…): Anche per le questioni di eredità si riuniscono tutti.

Zahra: Se uno non ha una tomba, si può fare il rus?

Sandro: Si può fare il rus anche in assenza del corpo? Questo è un punto importante, in molte culture non si può.

(…): Può esplodere un aereo, può succedere di tutto, basta che si sappia con certezza che quella persona è morta. Se c’è il dubbio non si fa, ma se viene detto che quella persona è morta, anche se non si è visto il corpo e non si sa che fine ha fatto, il rus si fa..

Sandro: Quando un somalo muore per esempio in Europa, c’è un modo per far tornare il corpo in Somalia?

Zahra: Alcune persone non vogliono essere seppellite in Italia, perché non vogliono essere messi nelle bare. Una signora, una settimana fa è partita da Brescia, è tornata in Somalia; ha detto “io quando muoio, voglio essere seppellita in Somalia”. Da noi ti mettono solo un sudario di stoffa, ti devono mettere sulla nuda terra, non in una bara. Quella persona voleva essere coperta solo di terra.

Igiaba: Io mi ricordo di quel funerale al Campidoglio, dedicato a tredici somali morti nel mare, Cristina gli ha dedicato una parte del suo libro. Come i morti nel mare, c’è una sorta di triste continuità in questo… non siamo riusciti in qualche modo… C’erano tredici bare senza nome. Era la prima volta che si faceva qualcosa di istituzionale… Abbiamo pianto tutti quel giorno, eravamo tutti somali, io lavoravo in libreria, quelli nella bara erano tutti avvolti nella bandiera somala, non si sapeva chi erano. Piangevano tutti, ho cominciato a piangere anch’io. È stata una cosa molto toccante.

A.: Ci sono cimiteri musulmani qui?

Zahra: Ci sono a Prima Porta, a Lampedusa, a Treviglio, un piccolo paesino… (…)

I.: Io vorrei tornare a parlare della morte… può capitare che una persona viva sia già morta.
Quando le persone muoiono poi, ognuno ha un’usanza diversa, secondo le culture.
Noi, come somali e musulmani, abbiamo la cultura di seppellire subito: questa è un’usanza che hanno le persone di cultura islamica.
A Djibouti, (…)alcuni mettono dei sassolini, mettono la persona in mezzo, fanno una specie di tomba. Poi mettono i sassolini uno sopra l’altro: se guardi tra le fessure vedi il morto che sta lì. Anche in altre parti dell’Africa usano questo modo.
A Djibouti ho visto anche che scavano una fossa e scavano anche una parte laterale interna per mettere il morto. Poi fanno una specie di fango con acqua e argilla e chiudono.
Un altro modo per seppellire: si scava, da un lato si mettono dei sacchi di sabbia alti, poi delle travi, poi si copre di terra.
Ho visto ancora un altro modo: quando scavano, scavano dritto, non obliquo. Il morto è in mezzo e sopra mettono travi, poi coprono tutto.
Non è come in Europa, che si usa di scrivere la data di nascita e di morte.  Si dice una sura del profeta e si pianta una piccola pianta sulla tomba. Queste piantine che crescono intorno alle tombe sono un piccolo segno. Non c’è bisogno di scrivere nome e cognome, la data… tutti conoscono quella tomba.
Alla tomba del mio secondo nonno, senza scritta, senza niente, andavamo sempre a fare il rus.
Ci sono altre usanze a Djibouti: ogni famiglia e conoscenti hanno il loro posto per seppellire i loro morti. Nel testamento alcuni scrivono: “Quando muoio andatemi a seppellire in quel posto dove ci sono i miei cari…”.
In quella tomba dove c’è il mio secondo nonno c’è pure il mio nonno, anche il figlio di mio nonno e sua moglie. Mio padre mi ha detto che quando morirà vuole essere sepolto lì. Anch’io vorrei essere sepolto lì quando morirò.
Queste sono le usanze che noi tramandiamo.

(…)

In quel periodo la gente si spaventava: si moriva poco, la morte era un grosso evento.
In questi ultimi anni invece, si è vista tanta gente morire, tanti sono morti per cose senza senso, senza motivo; [ora] c’è la guerra ma la gente moriva in modo anche naturale. La morte è diventata una cosa normale.
Una volta quando c’era un morto nel quartiere, tutti erano tristi, tutti lo sapevano. Ora sempre meno. Si sente dire: “È morto questo; di là quest’altro”, sembra che la gente si sia un po’ abituata.
Una volta quando si andava alle tombe a seppellire le persone, ci potevano andare soltanto le persone grandi, dai 25-30 anni. Ora al cimitero vedi ragazzi giovani, bambini che seguono i feretri alle tombe. A quei tempi i piccoli non andavano ai cimiteri, era proibito.
Prima c’era la commozione, lo spavento di accompagnare un morto, ora ci vanno tutti, piccoli e grandi; si mangia, tutti partecipano al banchetto, non c’è più quella cosa sentita, la paura della morte… sembra che si sia un po’ persa.
Poi ultimamente ci sono problemi economici. Una volta quando si diceva che era morto qualcuno uno si spaventava, ora sembra che le persone siano contente, perché pensano che ci sarà il banchetto, cucineranno, e si avrà la possibilità di mangiare.
Quando muore qualcuno, bisogna sgozzare tante capre, cucinare tanto, le persone sono contente di sapere che c’è la possibilità di andare a mangiare.
Una volta quando uno moriva, la gente non mangiava il cibo dei morti, cucinato perché era morto qualcuno; ora sembra che si faccia la corsa a mangiare, ed è una cosa che mi spaventa.
Nella società in cui vivevo, nei tempi andati, c’erano tutte queste usanze un po’ differenti. Ho vissuto tutti questi piccoli cambiamenti, e so che ancora altri avverranno. Non so se continueranno a desiderare che qualcuno muoia per poter mangiare. Non sappiamo che cosa accadrà.