AMM Giovani Etiopia n. 6

Intervista a DB

Questa intervista fa parte di una serie di incontri tenuti intorno al tema del viaggio con alcuni ragazzi etiopici provenienti prevalentemente da Addis Abeba, arrivati in Italia come richiedenti asilo a seguito della repressione condotta dalle autorità etiopiche dopo le elezioni politiche del 2005. Gli incontri hanno avuto luogo a Roma.

Data: 2008
Luogo: Roma, edificio occupato nel quartiere Agnanina
Durata: 1h05’49’’
Intervistatore: Sintayehu Eshetu (SE)
Lingua/e: amarico

Supporto d’archiviazione: registrazione audio digitale
Trascrizione: Sintayehu Eshetu
Traduzione/i: Sintayehu Eshetu (amarico-italiano).
Revisione/i: Alessandro Triulzi
Altre informazioni: all’incontro è presente anche Dagmawi Yimer

DB è un rifugiato di 26 anni proveniente dal quartiere di Kirkos, Addis Abeba. In Etiopia faceva il poliziotto. Vive oggi con la famiglia nel nord Italia.

SE è arrivato dall’Etiopia in Italia nel 2007. Vive a Roma.

Abstract:
Dopo le scuole superiori DB entra in polizia, dopo qualche anno, durante i disordini che seguirono le elezioni presidenziali del 2005, gli viene ordinato di sparare sulla folla. DB si rifiuta e decide di abbandonare il paese insieme ad alcuni amici. Vanno in Sudan, a Khartum, e dopo un mese partono per la Libia. Dopo una decina di giorni riescono ad arrivare a Bengasi. Lì però la polizia fa irruzione nell’abitazione dove sono nascosti i migranti, DB riesce a fuggire mentre alcuni suoi amici vengono deportati a Kufra, al confine con il Sudan. DB non se la sente di andare a Tripoli senza aspettare che il suo amico Dag riesca a ritornare da Kufra. Quando un giorno viene a sapere che l’amico è già a Tripoli lo raggiunge. Nel frattempo le voci sul naufragio di una barca partita per l’Italia lo inquietano. Teme che il fratello, che gli aveva comunicato di essere in procinto di partire, fosse uno dei giovani morti in mare. Arrivato a Tripoli scopre che quei timori erano fondati. Pensa di tornare indietro ma poi, dopo diversi tentativi e dopo aver raccolto i soldi necessari, anche con l’aiuto di familiari e amici all’estero, riesce a imbarcarsi per l’Italia. Da Lampedusa viene portato a Gorizia, poi a Udine e, infine, trova una sistemazione a Ravenna.

Estratti della trascrizione:
“Nel 1997 ho iniziato a lavorare nella polizia. Ho frequentato il corso per diventare poliziotto per un anno e sette mesi. Poi per sette anni ho fatto l’investigatore nell’area di Kirkos, kabalè [distretto] 12 e 13. Dopo sette anni, nel 2005, c’è stata un’elezione e il governo ci ha mandato a sedare una manifestazione e ci ha dato l’ordine di sparare sui manifestanti. Prima ci hanno dato l’ordine di sparare alle gambe e poi quando la manifestazione si è allargata ci hanno ordinato di sparare direttamente sulle persone. I risultati delle elezioni ad Addis Abeba davano per vincente il partito dell’opposizione ma quei risultati sono stati cancellati e la gente è uscita fuori per manifestare il proprio dissenso. Quando ci hanno ordinato di sparare per uccidere io e alcuni miei amici abbiamo abbandonato il nostro posto. Lo stesso anno, a giugno, noi abbiamo lasciato il nostro posto di lavoro e Addis Abeba. Alcuni nostri amici sono stati incarcerati e ancora adesso non si sa dove sono”.

“Abbiamo dovuto scavalcare molti muretti. Dopo alcuni muretti abbiamo trovato una collina piena di immondizie, come una piccola discarica. Eravamo sicuri che i poliziotti non ci avrebbero cercato lì. Dopo un po’ sono arrivati altri due habesha. Nella casa dove eravamo nascosti c’era un nostro amico che stava sul tetto, per fortuna quando sono arrivati i poliziotti lui era in bagno ed è riuscito a rompere la lamiera del tetto e ad uscire fuori. In questa piccola discarica dovevamo rimanerci per tre ore, finché non sarebbe arrivato il buio. Avevo tanta fame e volevo tornare nella casa perché almeno c’erano tante cose da mangiare. Ma allo stesso tempo avevo paura di incontrarmi di nuovo con la polizia. Alla fine ci sono tornato con un altro eritreo. La porta era aperta e tutto il cibo, lo zucchero, la pasta e tutti i nostri vestiti erano a terra. Invece si erano presi il piccolo fornelletto con il quale cucinavamo. In tre ore sono riusciti a rompere tutto. Questa casa era circondata da palazzi alti e abbiamo avuto paura che i poliziotti potessero vederci da lì. Così siamo usciti subito ma non sapevamo dove andare. Era notte. L’unica cosa che potevamo fare era raccogliere la pasta e i vestiti che erano a terra. Li abbiamo raccolti e siamo usciti di nuovo per strada, senza sapere dove andare”.

“Quando siamo arrivati a Tripoli non sapevamo come muoverci, portavamo i nostri bagagli ed eravamo tutti sporchi di polvere e sudati. Molte persone quando ci avvicinavamo, si allontanavano per non confondersi con noi. Portavamo anche due tre pantaloni uno sopra l’altro, si vedeva che venivamo dal deserto. Non capivamo perché gli altri si allontanavano, non sapevamo dove andare, né dove era Gurji, il quartiere degli habesha e degli eritrei, né dove fosse Abusalem, dove c’è il mercato. Poi siamo saliti su un autobus e abbiamo fatto la corsa da un capolinea all’altro, senza pagare, cercando per strada un’anima habesha. Ogni volta che vedevamo un habesha scendevamo e andavamo a parlare con lui, ma due volte ci siamo sbagliati, erano sudanesi. Uno di questi sudanesi ci ha detto di scendere a Misri Qahwa, che è un bar. Siamo scesi lì e un habesha ci ha consigliato, da lontano, di togliere tutti i nostri vestiti sporchi di terra, di sabbia e di polvere e di pulirci. Così, dopo esserci un po’ ripuliti, siamo ritornati a Misri Qahwa, ci siamo seduti lì e abbiamo aspettato”.