AMM Giovani Etiopia n. 4

Intervista a DA
Questa intervista fa parte di una serie di incontri tenuti intorno al tema del viaggio con alcuni ragazzi etiopici provenienti prevalentemente da Addis Abeba, arrivati in Italia come richiedenti asilo a seguito della repressione condotta dalle autorità etiopiche dopo le elezioni politiche del 2005. Gli incontri hanno avuto luogo a Roma.

Data: 10 marzo 2008
Luogo: Roma, scuola di italiano per stranieri Asinitas
Durata: 1h14’23’’
Intervistatore: Sintayehu Eshetu (SE)
Lingua: amarico

Supporto d’archiviazione: registrazione audio digitale
Trascrizione: Sintayehu Eshetu
Traduzioni: Sintayehu Eshetu (amarico-inglese; inglese-italiano)
Revisione: Alessandro Triulzi

DA nasce a Dire Dawa, Etiopia, nel 1974. Da bambino è affidato a una zia che vive ad Addis Abeba. Decide di lasciare il suo paese dopo essere stato coinvolto negli scontri durante le elezioni politiche del 2005. Vive a Roma dove esercita la professione di barbiere.

SE è arrivato dall’Etiopia in Italia nel 2007. Vive a Roma.

Abstract:
Alla fine degli anni Settanta, a causa di difficoltà economiche familiari, DA è affidato a una zia di Addis Abeba. Poco dopo il padre viene assassinato dalle guardie rivoluzionarie del Derg. Abbandonati gli studi anche a causa del senso di insicurezza diffuso in tuuto il paese, DA riesce, nel 1997, ad aprire un salone da barbiere. Il suo salone diventa luogo di incontro e discussione politica e i problemi cominciano quando DA è costretto a pagare tasse esorbitanti per la sua attività commerciale e manifesta pacatamente le sue idee politiche vicine al CUD (Coalition for Unity and Democracy), gruppo di opposizione al EPRDF (Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front) al potere. Coinvolto negli scontri e negli arresti a seguito delle elezioni del 2006, decide di lasciare l’Etiopia e intraprende il viaggio per l’Europa attraverso il Sudan e la Libia. Il viaggio è caratterizzato da periodi nelle prigioni di Zalate, Fellah, Kufra, Zuara e Zahawiya. Dopo aver lavorato per un periodo come aiuto-barbiere a Abusalem in Libia e essere riuscito a scampare alle azioni della polizia libica, che deportava alcuni etiopi in Etiopia, parte da Misrah su un barcone con altre 261 persone. Dopo quattro giorni di viaggio, il barcone è intercettato dalla guardia costiera maltese e fatto proseguire verso Lampedusa.

Estratti della trascrizione:
“Nel 1976-77 ci fu un periodo di forte crisi a Dire Dawa in seguito allo scoppio della guerra tra Somalia e Etiopia. Molte famiglie furono separate e mio padre si trovò costretto a mandare me e mio fratello da una mia zia che viveva ad Addis Ababa. Lì vivevo a Nefas Silk (Mesfin Meda) che è vicinissima a Bole Road. Dopo due anni dal nostro arrivo ad Addis, abbiamo scoperto che mio padre era stato assassinato dalle cosiddette guardie rivoluzionarie (abyot tabaqi). Questo uomo ha ucciso mio padre con cinque colpi di kalashnikov e ha ferito a morte anche un amico di mio padre che ha cercato di intervenire. Prima della sua uccisione i miei genitori mandavano dei soldi a mia zia per il nostro sostentamento, ma poi è diventato impossibile per mia madre tirare su quattro figli da sola. C’è stato un momento poi in cui i prezzi si alzarono alle stelle e mia zia fu la prima a dare la disponibilità a mia madre per prendersi cura di me e mio fratello. Ci trattò come se fossimo suoi figli. Io dico sempre una cosa e cioè che ho due madri: una che mi ha messo al mondo e un’altra che mi ha allevato e mi ha permesso di studiare così come ogni brava madre farebbe.”

“A quel tempo – era periodo di elezioni – era difficile per i giovani in Addis scegliere con che essere amico. Il tuo migliore amico, capitava, diventava un informatore del governo. Durante il giorno accusavano il governo al tuo fianco la sera erano in prima fila pronti a puntarti il dito contro. Giorno dopo giorno le informazioni sul mio negozio e su ogni cosa che succedeva al suo interno venivano registrate. Fu così che involontariamente diventai uno dei maggiori attivisti del partito di opposizione. In effetti ero contro le politiche adottate dal governo, avevo le mie ragioni, ma non mi ero mai considerato un attivista e mai mi ero identificato in una fazione politica di opposizione; mai fino allora. Erano tempi in cui la maggioranza e l’opposizione tenevano dibattiti in tv e alla radio in vista delle elezioni. Ogni cittadino (zega) seguiva con vivo interesse gli eventi e discuteva sul futuro politico del Paese. La nostra situazione non era diversa da quella degli altri. L’unica differenza era che noi avevamo un punto d’incontro, il mio negozio. Al tempo si poteva parlare abbastanza liberamente e si poteva addirittura criticare il governo. Ma agli occhi degli ufficiali della Kabalè, assolutamente pro-governo, il mio negozio era un covo (gorè) di oppositori. Tra noi c’era chi faceva appello alle politiche del governo, era un loro diritto. Questo è ciò che si intende con la parola democrazia. Ci accanivamo l’un l’altro con le parole ma poi fuori dal negozio eravamo tutti amici. Fu un esperimento di democrazia veramente riuscito. Non c’era odio tra noi.”

“Ad ogni modo arrivò il giorno delle elezioni e la gente si riversò nelle strade per andare a votare. Io votai per chi ritenevo essere all’altezza del compito di guidare il mio Paese e poco dopo le elezioni tutti reclamavano la loro vittoria. Ma tutti sapevano che almeno ad Addis non c’era dubbio che il CUD avrebbe vinto.
Ma attraverso radio governative fu dichiarato il contrario. Questo provocò la rabbia dei residenti e così il primo giugno (Sane 1) ci furono scontri tra i residenti, polizia e forze speciali Agazi.
Quel giorno molte persone tra cui moltissimi giovani vennero feriti o uccisi. Gli scontri più accesi si ebbero al Mercato (Addis Ketama), io avevo una macchina di proprietà ma tutti i taxi e gli autobus smisero di lavorare per protesta contro il governo. Pietre vennero lanciate contro gli autobus che non rispettavano lo sciopero. Io giravo intorno alla nostra Kabalè con i miei amici nella mia macchina sventolando la bandiera dell’Etiopia. Era martedì.
Il giovedì dopo un’amica di mia sorella stava partendo per lo Yemen. L’abbiamo accompagnata in aeroporto, dopo averla salutata tornando indietro alla macchina vedo che è circondata da quattro persone.
Nella macchina c’erano giornali indipendenti che per lo più parlavano del dopo elezioni. C’erano due Defenders, macchine della polizia, che avevano bloccato il passaggio. Mi chiesero di aprire la macchina e il porta bagagli. Dopo aver rovistato non trovando niente mi chiedono se il giorno degli scontri io ero in giro con la mia macchina. Ho detto di sì così mi hanno chiesto di seguirli e mi hanno portato dietro a ECA (Africa hall) in un garage. Appena sceso dalla macchina hanno iniziato a colpirmi con il manico della pistola, senza alcuna pietà. Mi colpirono ovunque e non mi diedero neanche la possibilità di chiedere il perché di quel pestaggio. Poi lasciarono la mia macchina lì e mi portarono con la loro al sesto commissariato di polizia a Casa Ancis. Lì mi chiesero di testimoniare in mio favore e io dissi che non avevo niente da dire perché non avevo fatto niente. Così scrissero queste mie parole io ho firmato e mi hanno chiuso dentro una cella dove mancava l’aria e era stipata di gente, giovani uomini e donne.”

“Lasciami dire una cosa. Chiunque fa la strada che io ho percorso per arrivare qui non lo farà mai per divertimento. Se lo fai significa che non potevi vivere nel tuo paese. Se qualcuno mi chiede info sul viaggio io sarò sincero e dirò che scappi dalla morte ma vai incontro al pericolo di morte affrontando il viaggio nel sahara e nel mare. Dovresti andare via dal tuo paese con le tue buone ragioni per non rimpiangere qualcosa che potrebbe succedere sulla tua strada verso la libertà. Io non mi lamento, grazie a Dio. Ho un lavoro e uno stipendio decoroso. Spero di poter un giorno aprire un negozio tutto mio.”