AMM Giovani Etiopia n. 2

Intervista a TN

Questa intervista fa parte di una serie di incontri tenuti intorno al tema del viaggio con alcuni ragazzi etiopici provenienti prevalentemente da Addis Abeba, arrivati in Italia come richiedenti asilo a seguito della repressione condotta dalle autorità etiopiche dopo le elezioni politiche del 2005. Gli incontri hanno avuto luogo a Roma.

Data: 16 e 26 febbraio 2008
Luogo: Roma
Durata: 4h16’13’’
Intervistatore: Sintayehu Eshetu (SE)
Lingua/e: amarico

Supporto d’archiviazione: registrazione audio digitale
Trascrizione: Sintayehu Eshetu
Traduzione/i: Sintayehu Eshetu (amarico-inglese); Monica Bandella (inglese-italiano)
Revisione/i: Alessandro Triulzi
Altre informazioni: all’incontro è presente anche Dagmawi Yimer

TN è un ragazzo etiope nato nel quartiere di Kirkos ad Addis Abeba. Lascia il suo paese all’età di vent’anni. Vive a Roma.

SE è arrivato dall’Etiopia in Italia nel 2007. Vive a Roma.

Abstract:
TN, dopo aver tentato di iscriversi all’università senza successo, comincia a lavorare come falegname. Gli affari vanno piuttosto bene fino a che, divenuto sostenitore dell’opposizione Kinjit, TN è coinvolto nelle proteste conseguenti alle elezioni del 2005. Testimone di diversi episodi di violenza estrema, decide di lasciare il paese, sostenuto dalla sua famiglia. Il viaggio, che durerà a lungo e vedrà TN per ben due volte su una barca fatiscente diretta verso l’Italia, si svolge tra tante complicazioni, permanenze nelle prigioni libiche e una brutta caduta dal camion durante il viaggio tra Kufra e Benghazi, che gli provoca una grave ferita alla gamba. Curato sommariamente in un ospedale di Benghazi, TN s’imbarca da Tripoli insieme ad altre 27 persone. L’imbarcazione guidata da un nigeriano rischia il naufragio e poco dopo è speronata da una nave libica che riporta il gruppo di migranti a Tripoli. Lì sono messi in carcere, torturati e derubati. TN finisce nuovamente a Misratah e poi a Kufra, dove riesce finalmente a essere “comprato” da un dallala e a partire ancora una volta verso il nord della Libia. …

Estratto della trascrizione:
“Gli scontri con le forze di polizia erano frequenti e c’erano blocchi stradali. Quel giorno andai nella zona del mercato di Kirkos per vedere se mia madre stava bene. C’era molta agitazione lì; la polizia aveva mandato degli agenti che sparavano ad altezza d’uomo. Io e mia madre stavamo ritornando a casa quando un proiettile colpì al collo un bambino del vicinato. Si chiamava Katcho. Era vicino a me quando fu colpito. Tutti correvano in ogni direzione e noi entrammo in una casa per aspettare che l’agitazione cessasse. Poi portai mia madre a casa e, quando mi sembrò che le cose si fossero calmate, uscii di nuovo, ma la situazione era disastrosa. Due soldati stavano sparando alle persone come in un film western. C’era un ragazzo che si chiamava Hayliye; gli spararono da vicino e lo colpirono alla testa. Un altro bambino di sette anni fu ferito alla natica. Fortunatamente quel giorno fu ucciso solo un uomo safar?, perché il numero delle vittime sarebbe potuto essere molto più grande. I feriti non andarono in ospedale, ma furono curati sul posto”.

“Mentre eravamo lì non c’era ombra e solo al tramonto potemmo trovarne un po’ dietro a una duna. Fu così per nove giorni. Per sette giorni continuammo a protestare e a dire che avremmo dovuto andarcene; il settimo giorno i libici neri tentarono di far salire tutti su una sola macchina, ma non c’era posto per tutti e le persone cadevano giù dalla macchina: in un certo senso dev’essere stato divertente da fuori. Grazie alla sabbia nessuno si fece male davvero, ma le persone che cadevano iniziavano a correre in lacrime dietro alla macchina. Tutti volevano sedersi al centro della macchina e la donna che parlava arabo pregò il conducente di non proseguire il viaggio perché le persone sarebbero cadute e si sarebbero perse, ma lui non ascoltava e non aveva intenzione di farlo. Procedeva deliberatamente a zig zag e la maggior parte delle persone cadeva; penso che lo facesse per mostrarci che non c’era modo di andare via da lì. Dopo di ciò la macchina fu ricondotta al campo e le persone che erano cadute dovettero tornare a piedi. La donna continuava a piangere e penso che insultò il conducente. Poi lui la picchiò”.

“C’era un poliziotto che non dimenticherò mai. Era molto magro e selezionò le persone che indossavano delle t-shirts con delle scritte o simboli in qualche modo connesse all’America. Furono selezionate alcune donne e quel poliziotto teneva in mano un bastone di legno. Quelle selezionate furono costrette a inginocchiarsi e lui gli domandò se stavano andando in Israele per fare la guerra contro i palestinesi. Stava praticando il suo inglese con noi: diceva “siediti” o “dormi” giusto per esercitarsi”.

“Mentre stavamo tornando indietro incontrammo una grande nave libica, e una donna di nome Sarah chiese aiuto in arabo, ma ci ignorarono e la nave se ne andò. Piangevamo e pregavamo allo stesso tempo. Ci lasciarono lì. Sulla nave c’erano nigeriani, sudanesi e habesha (etiopi) e vedemmo un uomo parlare con qualcuno al telefono. Poi vedemmo un oggetto a forma di nave in lontananza. Durante il giorno c’erano dei delfini davanti a noi; erano sei e ci nuotavano davanti, tre da un lato e tre dall’altro, aprendoci la via. Quando il capitano se ne accorse lasciò il timone e li seguì. Poi vedemmo una vera nave che ci veniva incontro e che da lontano sembrava un palazzo, enorme. La nave si avvicinò e tentò tre volte di urtarci ma il capitano riuscì a evitarlo. La nave stava deliberatamente cercando di urtare la nostra imbarcazione. Noi piangevamo e pregavamo. Poi qualcuno dalla nave ci chiese da dove venivamo, portava un’uniforme. Gli dicemmo che venivamo da Khumuz (Khubrus) e lui ci disse di fissare la barca alla nave con una fune che ci lanciarono. Una donna nigeriana cominciò ad arrampicarsi sulla corda e fu data la precedenza alle donne. Una donna etiope disse che non sarebbe andata senza il suo compagno, ma loro risposero che le donne sarebbero dovute salire per prime. Quando le donne furono tutte a bordo ci fu una lotta tra gli uomini per chi doveva salire per primo sulla nave e stavamo per ribaltarci; una volta saliti tutti a bordo gli uomini in uniforme presero il motore dall’imbarcazione e la fissarono alla nave. Poi ci riportarono a Khumuz. Quando arrivammo fummo picchiati dalla polizia mentre ci scortarono verso delle macchine che ci stavano aspettando. Eravamo così stanchi ed esausti che non facemmo neanche caso alle botte”.