Nomi e corpi. Racconti d’oltremare

di Dagmawi Yimer

Traduzione italiana di Emilia Benghi del testo James K. Binder Lectureship in Literature tenuta da Dagmawi Yimer il 6 maggio 2015 presso l’Università di California a San Diego.

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Se oggi sono qui a parlarvi di chi non ce l’ha fatta, dei morti in mare,
è solo perché ho avuto fortuna e sono ancora vivo.
Non c’è vanto nell’aver raggiunto questa sponda.
Il giorno del mio arrivo a Lampedusa mi hanno soprannominato “il sopravvissuto”:
è mio dovere ricordare gli amici che sono affogati.
Per questo ho deciso di raccontare la mia esperienza, il viaggio dei migranti africani
attraverso il deserto e il mare e ciò che sopportiamo
per raggiungere l’altra sponda del Mediterraneo.

  1. La stanzetta

L’ultimo pomeriggio lo trascorsi nella stanzetta priva di finestre di una piccola costruzione di Zwara, sulla costa libica, a sessanta miglia circa da Tripoli, assieme a un gruppo di migranti, tutti provenienti dall’Etiopia e dall’Eritrea. Eravamo in attesa della chiamata, l’ultimo passo prima di salire sulla barca che ci doveva portare al di là del mare. La tensione era alta, ci avevano detto di stare il più possibile in silenzio, se arrivava la polizia non c’era possibilità di fuga. Gli intermediari ci avevano chiuso dentro e se n’erano andati. Sapevo che eravamo vicino al mare, me ne ero reso conto qualche ora prima, quando ci avevano portato lì. I migranti chiusi nella stanza erano in maggioranza giovani del mio paese, venivano tutti dalle mie parti. Se il gruppo è coeso ci si difende meglio, per questo avevamo deciso di stare assieme, almeno per l’ultimo tratto del viaggio. Non era sempre stato così.  Il mese prima avevo viaggiato per lo più assieme a estranei. Anche se in fin dei conti sai di non poter contare su nessuno, viaggiare assieme a persone che conosci rappresenta una sicurezza maggiore in caso di morte, incidente, truffa e così via. In tutte quelle situazioni in qualche modo è meglio far parte di un gruppo.
Ricordo molti particolari di quel giorno; il fumo delle sigarette, l’aria satura del calore dei corpi, tutti seduti a terra con le spalle poggiate al muro per godere del contatto con il fresco del cemento. Cercavo di restare immobile per non aumentare la temperatura corporea. Il più giovane di noi era un bimbo eritreo di dieci anni, accompagnato dallo zio.  C’era anche un eritreo poliomielitico, non so come abbia fatto a percorrere una distanza di 5.600 km, come la tratta New York- San Diego -Seattle, attraverso il deserto nel cassone di un pick up assieme a 25-30 persone. Io avevo 28 anni, ma la maggior parte dei miei compagni di viaggio era poco più che ventenne. So per esperienza che in un gruppo così anomalo c’è sempre qualcuno a cui si riconosce il ruolo di capo. I motivi sono svariati, ma in Africa la persona che ottiene il consenso del gruppo in genere è la più anziana, quella che ha più esperienza, o la più saggia. Comunque il più anziano di noi era diventato il ‘leader’ del gruppo. Prima di fuggire dall’Etiopia faceva il poliziotto per cui gli riuscì naturale badare al gregge, evitare le prepotenze; si assunse anche il compito di portavoce con gli ‘intermediari’, di vivandiere ecc.
L’attesa era snervante. Ogni secondo sembrava eterno perché non accadeva nulla, semplicemente si aspettava. Verso sera udimmo un rumore di passi, tutti trattennero il fiato terrorizzati all’idea di essere sorpresi. Fummo sollevati sentendo la chiave che girava nella toppa. La pesante porta di ferro si aprì stridendo sui cardini e gli intermediari entrarono assieme ad altri tre migranti etiopi. Il gruppo cresceva, quindi qualcuno sarebbe rimasto a terra. Ci avevano promesso una barca per venti persone e ormai eravamo più di trenta. Tentammo di ottenere maggiori informazioni su quella che era la situazione prima che gli intermediari sparissero di nuovo. L’unica cosa che dissero fu ‘’aspettate e fate silenzio”. Non li avevamo ancora pagati e al momento ci sembravano affidabili. I nuovi arrivati venivano dall’Etiopia, uno doveva pilotare la barca, gli altri erano i suoi ‘assistenti’. Il pilota si era offerto di portarci a destinazione, in cambio né lui né i suoi assistenti avrebbero pagato, mentre noi spendevamo 1.200 dollari a testa. Dato che poteva essere il nostro ultimo viaggio non ci importava il prezzo, avendo i soldi.  Se arrivi sano e salvo va bene, se no è come se tu avessi già pagato le spese per il funerale e la tomba. Avevamo la disperata necessità di andar via da quel paese, il resto non contava. A sentirlo parlare il pilota sembrava esperto, ma non ne avevamo alcuna garanzia; lo avremmo scoperto troppo tardi, già in mezzo al mare.
Eravamo prigionieri di un sistema dotato di una strana catena di comando: gli intermediari di grado inferiore erano ex migranti, il livello medio era costituito in maggioranza da sudanesi che vivevano da tempo in Libia, proprietari di alloggi e di macchine, tassisti ecc, mentre al grado superiore appartengono prevalentemente funzionari, autorità governative e agenti di polizia libici. Attorno ai migranti si sviluppa un enorme giro d’affari. L’offerta nasce da una domanda e chi è preso in questa rete non ha alternative.  In quella fase del viaggio l’’ultimo passaggio’, il nostro contatto diretto, era un trafficante sudanese con numerosi agganci libici, per lo più agenti di polizia in borghese. La crudeltà della situazione crea altri mostri lungo la catena di comando: gli intermediari di grado inferiore sono in genere per lo più immigrati ‘falliti’ che hanno finito i soldi, sono stati truffati o derubati lungo il tragitto e si riciclano nel sistema trasformandosi in spietati predatori, perché conoscono la psicologia di chi è in viaggio e sanno come sfruttare i nuovi arrivati. Partono con l’idea di raggranellare quel tanto da pagarsi il viaggio ma poi finiscono per apprezzare i soldi facili. Quando si rendono conto che la metà delle barche che mettono in mare non arriva mai a destinazione rinunciano all’idea di partire perché la morte può attenderli. Ma la loro reputazione cresce quante più barche ce la fanno.
Un metodo per stabilire l’affidabilità degli intermediari sono le telefonate ricevute dall’Italia all’arrivo dei migranti. Se ho un amico in Libia certo lo chiamerò per dargli la buona notizia e lui penserà che il mio intermediario è valido. Se non si hanno notizie dei viaggiatori gli intermediari spargono la voce che la barca è approdata in Spagna. Con quel genere di scafi e le pattuglie attive in mare non è possibile raggiungere la Spagna dalla Libia. Ma siccome nessuno lo sa, tutti credono a queste voci. Alla fine “Spagna” diventa sinonimo di naufragio. Lo sperimentai quando uno dei miei più cari amici, Yonas, fu imbarcato su uno scafo in partenza dalla Libia e non ne avemmo più notizia. Chiedemmo in giro, contattammo l’intermediario, una donna etiope che sostenne che Yonas l’aveva chiamata dalla “Spagna”. Ben presto scoprimmo che era morto in mare assieme a due altri adolescenti delle nostre parti.
Mentre aspettavamo in quella stanza l’ultima tappa del nostro viaggio, tra i ragazzi c’era chi fantasticava su quella che sarebbe stata la sua vita in Europa. Con la mente erano già in Gran Bretagna, Svizzera, Norvegia o in Germania; l’Italia era solo un luogo di transito. Inconsapevolmente ti facevi trascinare e coinvolgere dalle loro fantasie. Nessuno dice mai che in questo genere di viaggi c’è sempre qualche persona che ti tiene viva la mente, che nonostante le sofferenze e gli abusi, i lutti e le torture, riesce a farti ridere fino alle lacrime; ridere è un’ottima terapia per scacciare le preoccupazioni e il dolore. Ricordo moltissimi momenti così, anche nella disperazione più nera. In quella stanza senza finestre, tesi e preoccupati, a volte non potevamo fare a meno di scoppiare a ridere…

  1. Verso Zebtiya

Ricordo quando mi hanno arrestato la prima volta a Bengasi. Da quell’esperienza imparai che non dovevo mai rilassarmi, neppure in una casa privata.  Anche col caldo dormivo sempre vestito, con le scarpe accanto, attento a non dimenticarle prima della fuga: in questo viaggio la cosa più importante è memorizzare determinati numeri di telefono e avere i pantaloni o la camicia giusti con i soldi cuciti dentro. Impari a stare sempre all’erta, come un soldato al fronte.  Vivi una sensazione di persecuzione continua, di totale confusione linguistica e geografica.
Quel giorno ero con sedici altri migranti all’interno di una casa abbandonata. Al nostro arrivo avevamo avuto l’impressione che fosse stata lasciata in fretta e furia, il pavimento era disseminato di oggetti personali, borse vuote, abiti femminili, bibbie ecc. Ci avevano detto che avremmo dovuto aspettare qualche giorno perché gli intermediari potessero organizzare il nostro trasferimento a Tripoli. Dopo un paio di settimane presi a scrivere sul muro: “se non muori nel frattempo…” ma non terminai la frase che doveva essere “questo periodo finirà”, perché qualcuno bussò alla porta; uno di noi andò a aprire senza esitazione.  Sull’uscio comparve un poliziotto disarmato, sorpreso di vedere tante persone e iniziò a battere le mani ‘’Ma sha’ Allah’’ (Dio lo vuole) tutto allegro. Scoprimmo che non era solo, l’intera zona era circondata da poliziotti armati. Era la prima volta che li vedevo in uniforme. Solo pochi dei miei amici riuscirono a nascondersi e a scappare. Vedo i poliziotti armati e una folla di curiosi assiepata mentre ci conducevano via in fila indiana, scalzi, urlando ordini che non capivamo. Ben presto capisci che non devi fare altro che seguire la persona che hai davanti e tutto andrà bene, non devi mai incrociare lo sguardo degli agenti.
Eravamo rimasti in quattordici e ci fecero salire su un cellulare. Alcuni dei miei amici erano riusciti a nascondersi. Perché avrei dovuto scappare? Non avevo commesso alcun reato. Ci portarono al centro di detenzione della polizia locale a sirene spiegate.  Alla polizia diedi il nome Daud Omar (Davide in arabo). Nessuno mi aveva suggerito di fornire false generalità, lo feci d’istinto. Trovai un nome e un cognome in arabo foneticamente somiglianti ai miei in modo da non confondermi se mi chiamavano. La lista dei nostri nominativi corredata dalle impronte digitali sarebbe finita nelle mani delle autorità europee/italiane classificandoci come “migranti clandestini fermati” dalla guardia costiera libica. In cambio l’Europa (in questo caso l’Italia) copre tutti i costi relativi alla detenzione e alla finale espulsione dal territorio libico dei rifugiati eritrei, etiopi e somali… non si provvide ad alcun altro tipo di identificazione né era presente un traduttore che ci informasse sul motivo del nostro arresto. Non fummo perquisiti perché eravamo scalzi; probabilmente dissero che eravamo stati “colti di sorpresa”; io ero scalzo, ma in tasca avevo ancora la mia agenda e il portafoglio.  Il luogo in cui fummo rinchiusi era un carcere per delinquenti comuni, non un centro di detenzione per reati amministrativi come essere sprovvisti di permesso di soggiorno.
La cella era già piena di detenuti, tutti etiopi e eritrei. Avevano la disperata esigenza di essere aggiornati sul mondo che avevano lasciato. La quasi totalità si trovava in carcere da mesi senza processo. Era naturale fare la massima attenzione ogni volta che si sentiva aprire la porta, soprattutto lontano dalle ore dei pasti. Comunque l’apertura della porta del carcere significava nuovi volti, nuovi ordini, qualcosa di inatteso.  È insostenibile, da prigionieri, non sapere cosa avviene fuori dalla cella in termini di politica e attualità. Dentro però non c’era solo curiosità per il mondo esterno, ma anche per chi ti stava attorno, gente pronta a raccontare le sue peripezie, a parlare delle regole interne, di quando e come era arrivata lì, a indicarti il peggiore dei secondini ecc.
Prendemmo possesso del piccolo spazio libero al centro della cella. Raccontammo agli altri come e dove ci avevano arrestato. Alcuni dei detenuti erano feriti, uno, un certo Sami, etiope, era tutto pesto e non aveva pace per il dolore alle gambe. Ci raccontò che aveva cercato di evadere assieme ad altri la notte prima, ma mentre i due suoi amici ce l’avevano fatta, lui era stato preso e massacrato di botte.  C’erano altri gravemente contusi, erano in cella con i fuggitivi e anche se non avevano tentato di scappare, li avevano picchiati, ritenendoli complici. Avevano rinunciato alla fuga per paura o perché non erano riusciti a passare attraverso il buco nel muro. Scoprimmo che due dei fuggiaschi alloggiavano dove eravamo stati presi quella mattina; ecco perché era arrivata la polizia e perché il primo agente aveva battuto le mani soddisfatto: erano venuti per arrestare due fuggitivi e si erano ritrovati davanti quattordici nuovi migranti.
Se è inevitabile che ti arrestino, come in Libia, c’è da sperare che lo facciano d’estate, altrimenti può essere che tu resti a languire in cella per mesi aspettando l’arresto di altri migranti prima che ti espellano verso il confine con il Sudan, nel deserto. Essere “espulso” ha uno strano vantaggio: puoi ritentare il viaggio invece di perdere mesi e mesi in prigione senza processo né condanna. Gli arresti in massa avvengono durante la stagione secca in cui sono in molti a tentare di raggiungere l’Europa sui barconi. È strano essere in prigione e sperare che arrestino molti altri migranti: più arresti fanno, meno spazio c’è in carcere e quindi sono più frequenti le espulsioni nella terra di nessuno, verso i confini meridionali del deserto libico. Ricordo che i detenuti erano paradossalmente felici al momento dell’espulsione. Non era facile per un neofita come me capire perché l’“espulsione” fosse fonte di gioia, invece che motivo di preoccupazione. Ci dissero che eravamo fortunati perché la prigione era già piena: nel giro di qualche giorno ci avrebbero deportato. Fummo arrestati la mattina e quando ci misero in cella era già passata l’ora di pranzo. Avremmo dovuto aspettare la cena per mangiare, ma io non avevo fame, perché stavo vivendo tante situazioni stressanti ma anche interessanti.
Non fu difficile trovare una persona con cui parlare. Ci radunammo attorno a Sami, quello che non era riuscito a scappare. Era amico di Jimmy, che conoscevamo perché assieme a un certo Tamrat, era l’intermediario che avrebbe dovuto farci arrivare da Bengasi a Tripoli.  Erano stati loro due a portarci nella casa in cui ci avevano arrestato. Gli intermediari erano identificati e soprannominati in base al quartiere di Addis Abeba da cui provenivano: Jimmy era di Piazza, Tamrat di Megenagna, Ermias di Kirkos. Jimmy (buonanima) era straordinario, uno che andava avanti lottando contro tutto e tutti… Era andato via di casa senza che nessuno lo sostenesse economicamente. Il coraggio gli veniva dal puro istinto di sopravvivenza sviluppato vivendo a Addis Abeba e nel corso delle sue peregrinazioni. A differenza di molti intermediari voleva guadagnare abbastanza per proseguire il viaggio e arrivare in Europa. Ricordo che una sera venne a trovarci per aggiornarci sulla nostra partenza per Tripoli. Vedendo che c’era anche un altro intermediario, Ermias di Kirkos, prese a fare a botte con lui, nonostante gli fosse inferiore fisicamente, perché pensava che lo stesse fregando e volesse portarci via lui. Una volta chiarita la questione e rimasti soli, ci raccontò che era stanco della Libia e voleva mettere assieme un po’ di denaro per procurarsi una barca per andare in Europa. Mentre ci spiegava le sue ragioni scoppiò in lacrime.  Purtroppo fummo arrestati prima che riuscisse a organizzare il nostro viaggio e a fare un po’ di soldi. Scoprii in seguito che era morto in mare nel 2008, il che significa che ce l’aveva fatta, ma la natura lo aveva tradito.
Nel tardo pomeriggio eravamo ancora tutti attorno a Sami, a informarci su quello che sarebbe stato il nostro destino, quando i secondini aprirono la porta della cella. Presero a urlare ordini in arabo; i prigionieri si alzarono in piedi e io li imitai.  Ci fecero mettere in fila e uscire dalla cella. Notai che davanti alla porta di ogni cella c’era una specie di spazio libero a forma di pentagono. Vidi un libico con la barba lunga, con indosso una ‘Jalabia’ immacolata, seduto su un bel tappeto persiano e circondato da libri sacri, il Corano, frutta e alcuni effetti personali. Ci dissero che era considerato un estremista ed era stato arrestato perché si rifiutava di radersi. Ci salutò con un sorriso mentre uscivamo. Il sole era accecante, il ghiaietto scottava e io ero ancora scalzo. I secondini ci fecero sedere a terra in mezzo al cortile e presero a contarci, informandoci che saremmo stati espulsi.  Ricordo il vociare proveniente da un altro blocco, voci maschili, probabilmente di nigeriani, ghanesi. La Libia è il secondo maggior finanziatore dell’Unione Africana, ma paradossalmente è prima nell’arresto, detenzione e espulsione dal suo territorio dei migranti africani. A differenza di noi provenienti dal Corno d’Africa, i nigeriani e i ghanesi vengono espulsi e rimpatriati in aereo direttamente nei paesi d’origine, operazione che richiede tempi lunghi.
Da dietro il muro che separava il cortile dalle celle proveniva un gran vocio. Non si sapeva quanti di noi sarebbero stati presi e quanti lasciati lì.  Dopo un po’ fecero entrare nel cortile le donne, chiedendo loro di indicare i mariti, che dovevano alzarsi in piedi o alzare la mano per essere identificati. Alcuni erano i veri mariti, altri no. È una delle cose più strane che abbiamo scoperto stando in prigione. Anche lì le donne hanno precedenza. Nelle espulsioni prima vengono le donne e con esse i loro mariti. Non vedo una logica in questa prassi, se non il rispetto di tradizioni culturali o religiose. Le donne erano otto, tutte “sposate”. Tramite i prigionieri incaricati di servire i pasti avevano mandato messaggi segreti per procurarsi un finto marito, perché le donne non possono essere messe in libertà o espulse in assenza di un marito o di un fratello. La donna è un oggetto che deve appartenere a qualcuno e non può essere al sicuro da sola. Passammo una mezz’ora circa seduti a osservare la strana scena che avvenne prima della partenza.

  1. Il ferro

Noi del Corno d’Africa stavamo tutti assieme. Circa cinquanta metri separavano il cortile dal cancello e vedevamo il retro di un camion parcheggiato di fronte. Era il nostro container. Ci fu una certa confusione e davanti al cancello si allinearono altri poliziotti armati. Prima accompagnarono le donne. Poi i secondini presero a contarci.  Non eravamo più di settanta-ottanta, ma loro erano talmente idioti che bastava un movimento o una voce a distrarli, costringendoli a ricominciare la conta.  Pareva facessero apposta per stremarci sotto il sole cocente. Certi addirittura si facevano beffe dei colleghi che sbagliavano a contare.
Le donne furono le prime a entrare nel container, erano 8, per lo più eritree, molto giovani; una aveva con sé un bambino di quattro anni, di nome Adam. Poi fu la volta dei loro rispettivi ‘mariti’. Una volta saliti sul camion usando la scaletta, i componenti del primo gruppo si disposero nello spazio anteriore, apparentemente isolati dalle altre tre lunghe file di panche che occupavano quasi l’intero container.  Tutto era in ferro. Andai sul lato sinistro, preferivo non stare al centro. Le panche erano in pessime condizioni, scassate e inclinate, tanto che era difficile starvi seduti. Dentro era buio e faceva già caldo, mi chiesi cosa sarebbe stato una volta chiuso il portellone. Presto iniziò il caos per aggiudicarsi i posti migliori, si gridava in quattro lingue, tigrino, amarico, somalo e arabo. Quando fummo tutti a bordo il poliziotto prese a battere contro il portello di metallo e a gridare di fare silenzio. Parlava arabo, tutti lo guardammo. Erano ordini, non spiegazioni sulla nostra destinazione o sul motivo per cui eravamo così ammassati e indifesi.   Qualcuno ci tradusse quello che diceva, capimmo così che ci stava presentando l’autista del camion; questi minacciò di farci passare guai peggiori se avessimo creato problemi, protestato o fatto rumore durante il viaggio: ‘’w’alahi’’, giurò su Allah che non stava scherzando. Non capivo cosa intendesse con quelle minacce. Era sull’ultimo gradino della scaletta e si proteggeva gli occhi dalla luce, come se avesse difficoltà a distinguere qualcosa nel buio del container.
Dall’interno, in mezzo a tutte quelle teste, non vedevo altro che la sagoma del poliziotto e dell’autista in un contorno di luce accecante. Non osavano entrare, sembravano anche loro spaventati da quell’enorme caverna di ferro. Era terra di nessuno, dove non c’erano regole e si lottava per lo spazio vitale. La caverna si riempì subito e fatta eccezione per le donne e i loro rispettivi “mariti” che provenivano dall’Eritrea e dalla Somalia, il resto degli uomini venne raggruppato per nazionalità. Il container era occupato per metà da adolescenti eriteri e etiopi, al centro i somali, sul retro, vicino al portellone, altri migranti che venivano dal Sudan e dal Ciad.
Il camion si mosse verso le quattro del pomeriggio, con il suo carico di un centinaio di esseri umani, stipati nel container. Tutti giovani, tuti neri, chiusi dentro quel cassone rumoroso a soffocare. L’aria esterna entrava solo da due minuscole feritoie sopra il lato riservato alle donne. Istintivamente ci alzammo in piedi per beneficiare di quel minimo di ventilazione, ma dal retro del container protestarono che così gli toglievamo l’aria. Non tutti quelli che si erano alzati erano disposti a tornare a sedere, ma gli altri ci costrinsero a farlo. In una situazione del genere quello che distingue gli esseri umani e frena il loro istinto animale di sopravvivenza è possedere un linguaggio, il controllo sociale e la disperazione. Anche se parlare la stessa lingua non è di grande aiuto e non tutti gli esseri umani sanno mantenere la lucidità in momenti tanto difficili. Dentro quel container e in molte situazioni analoghe del viaggio la mia filosofia era che potevo reggere qualunque peso se non ero l’unico a portarlo. Se altri condividono il tuo destino lo sopporti meglio, soprattutto vedendo un bimbo di quattro anni esposto allo stesso rumore assordante, al dolore e al caldo torrido.
Quando ormai ero in Italia e scrivevo del mio viaggio in Libia incontrai casualmente una delle ragazze che erano state con me sul container e, appena la riconobbi, le chiesi se aveva notizie del bambino, Adam, e di sua madre. Fui lietissimo di sapere che erano riusciti a raggiungere Malta e vivevano negli Stati Uniti.
Ad un certo punto del viaggio mi resi conto che si stava facendo notte perché la lama di luce che passava dalla crepa nel portellone era sparita. Il container sobbalzava sul fondo stradale sconnesso, facendoci cozzare gli uni contro gli altri. Non avevo fame, anche se ci avevano ammassati senza darci neppure un tozzo di pane. Quando ci aveva parlato, l’autista aveva in mano una borsa piena di pane ma la lasciò fuori della porta dopo aver chiuso il container per impedirci di prenderla.  Ti prostrano fisicamente per spezzare le tue difese e averti in pugno.
Quel viaggio di africani neri ammassati è carico di riminiscenze. Non dimenticherò mai il fragore del container di ferro sull’asfalto sconnesso, un rumore incessante e terribile cui non riuscivo ad abituarmi. Non vedi nulla perché gli occhi non si abituano all’oscurità, non puoi dormire perché riesci a malapena a star seduto, e i lamenti continui dei compagni ti ricordano il tuo amaro destino. Cercai di infilarmi sotto la panca per stendere le gambe, per un po’ funzionò e provai sollievo. Poi però il camion rallentò e si fermò.  Udimmo voci dall’esterno e pensammo di essere finalmente arrivati a Kufra, la nostra destinazione. Invece il portellone si aprì rumorosamente e vedemmo delle luci al neon. Qualche minuto dopo entrarono altri migranti prigionieri, una dozzina. Non eravamo a Kufra, bensì a Ajdabia, la città più vicina a Bengasi. I nuovi arrivati restarono bloccati accanto al portello, all’interno del container la tensione e l’irritazione erano palpabili. Proseguimmo il viaggio nelle stesse condizioni, da caldo si fece freddo col sopraggiungere della notte.
Cercai di immaginare la reazione di mio padre se avesse potuto vedere che fine avevo fatto. Ero sempre stato la pecora nera della famiglia, ma quella situazione andava oltre la mia immaginazione. Chi sono questi sconosciuti? Cosa abbiamo in comune? Dentro il container ciascuno probabilmente si sentiva speciale, diverso dagli altri e nessuno riusciva a credere di essere finito così in basso. In realtà l’unico speciale, quello che non meritava di trovarsi in quel container, era il piccolo Adam. La sua non era stata una scelta. Mentre altri bambini dormivano tranquilli al riparo di un tetto, lui era rannicchiato nelle braccia esauste di sua madre. Mi chiedevo quanti di quegli adulti avessero vissuto un’infanzia così drammatica. Forse sbagliavo, perché Adam era ancora molto piccolo e se ce l’avesse fatta (come poi è stato) sarebbe stato risparmiato e si sarebbe costruito un futuro.
Eravamo un gruppo di esseri umani presi come pesci in una rete in cui si mescolavano ogni genere di storie, culture, origini, nazionalità, credo, forze, debolezze. Tante volte ho desiderato di non rivedermi in quel “film”, ma è quello che sto facendo ora, mentre racconto di quei mesi passati in Libia. Con gli anni ho preso le distanze dalle emozioni e sono finalmente in grado di entrare nei dettagli dei miei viaggi, sforzandomi di ricordare e ricollegare momenti del passato.
Era l’alba quando il camion tornò a fermarsi e il rumore infernale del container si interruppe. All’improvviso le anime dannate ripresero vita, come all’inizio del nostro viaggio. Mi arrivò voce che non eravamo ancora a destinazione ma l’autista doveva fare una pausa, mangiare, fare i suoi bisogni e pregare. Lo immaginavo sgranchirsi le gambe e poi sedersi sulla sabbia soffice del deserto, guardando verso il sole nascente, fare le abluzioni rituali con l’acqua che era negata a noi, centodieci persone tra cui il piccolo Adam. L’autista si sarebbe lavato le mani tre volte fino al polso, poi le braccia per altre tre volte, si sarebbe sciacquato la bocca e poi avrebbe sputato via l’acqua per  tre volte, l’avrebbe inspirata dalle  narici tre volte e si sarebbe lavato il viso tre volte prima di inchinarsi e rendere gloria al suo dio. Allah ascolta e risponde alle lodi. In ginocchio l’autista avrebbe chiesto perdono al signore e concluso la preghiera chiedendo a dio grazia e onore per i  veri seguaci di Maometto… metà del container era pieno di veri seguaci di Maometto…
Attendemmo finché non ebbe finito, nel frattempo quasi tutti si erano alzati in piedi per sgranchirsi, alcuni avevano perso il posto e ci fu una corsa ai posti liberi. Mi ritrovai seduto accanto a un ragazzo del Camerun. Aveva in mano una bibbia tascabile. Gli rivolsi la parola e mi guardò stupito e lieto di trovare qualcuno che parlasse francese. In quel momento quasi dimenticai di essere chiuso in quel container di ferro.  Parlammo di un sacco di cose; mi meravigliai che fosse l’unico camerunense e pensai che doveva essere stata durissima per lui arrivare in Libia. Era convinto che la sua bibbia tascabile lo proteggesse: non l’aveva mai lasciata da quando era partito.
Aveva attraversato il Ciad assieme a migranti locali; nel Sahel occidentale l’unica cosa comune è la lingua francese, parlata in alcune parti del Ciad. Oltre che l’unico straniero era anche l’unico cristiano in mezzo a musulmani e animisti, il che gli rese difficoltoso il viaggio. In ogni possibile occasione lo spingevano verso la sponda del pick up. Una volta il mezzo si cappottò e tutti i passeggeri finirono tra i sassi della strada. Il ragazzo fu l’unico che riuscì a saltar giù in tempo e il fatto che fosse rimasto illeso mentre quasi tuti gli altri si erano fatti male gli mise contro i suoi compagni di viaggio. Dicevano che il loro viaggio non sarebbe mai stato sicuro con a bordo lui e la sua Bibbia e cercarono di abbandonarlo nel deserto. Ma non accadde e riuscì ad arrivare a destinazione. Era fiero e convinto della sua fede e mi raccontava le sue peripezie sorridendo, talvolta addirittura ridendo al pensiero di quello che aveva passato. A differenza della maggior parte degli etiopi, degli eritrei e dei somali non aveva mai avuto l’intenzione di attraversare il mare per raggiungere l’Europa, voleva solo trovarsi un lavoro in Libia, ma lo avevano arrestato lo stesso. Incontrarlo mi fu di grande aiuto, passammo ore e ore a parlare.
Sono cresciuto in uno dei quartieri più poveri di Addis Abeba ma ho frequentato l’unica scuola francese della città, assieme ai figli di ministri e alte autorità del regime, élites, diplomatici africani, la classe superiore. Ho trascorso l’infanzia tra questi due estremi, la povertà del mio quartiere e la scuola per ricchi. Mio padre credeva nell’istruzione che non aveva potuto ricevere, era un semplice ferroviere, con un reddito modesto. Spese tutto il suo denaro per mandare me e mia sorella a una costosa scuola francese. Vivere tra due ambienti totalmente diversi mi è stato molto utile per capire la società e per tutta l’infanzia non ho fatto altro che la spola tra contesti sociali differenti. Il ragazzo mi ricordava certi miei compagni di scuola delle elementari, figli di diplomatici del Camerun. Quanti di noi sono consapevoli che il nostro benessere dipende dallo sfruttamento di altri? Un ragazzo come lui, per quanto sveglio, determinato e intelligente possa essere, non basta a infrangere il cerchio di nepotismo e corruzione che colonizza l’Africa. Il container di ferro conteneva storie e corpi che sono il risultato di una soggezione economica, sociale, morale e spirituale che risale a ben prima  della nascita di tutti noi rinchiusi là dentro.  Non eravamo altro che tessere di un puzzle.
Man mano che il container proseguiva il suo viaggio il sole del deserto si faceva sempre più forte e, dentro, il calore era soffocante, mancava l’aria. Non avevamo idea di quanto tempo fosse passato, forse 19-20 ore, quando il camion tornò a fermarsi per consentire all’autista la solita pausa. Stavolta però eravamo esausti e ci mettemmo a gridare tanto da farci sentire. Fu un sollievo respirare un po’ d’aria quando il mezzo si rimise in moto. Non mi spiego come abbiamo fatto a sopravvivere se non grazie alla risorsa della lingua, che ci ha consentito di comunicare tra noi; se degli animali fossero stati ammassati là dentro come noi, non tutti sarebbero sopravvissuti. Ci dissero che i camion erano stati regalati dal governo italiano alla Libia come strumento per controllare la migrazione clandestina. Sono camion costruiti in Italia, marca IVECO (Industrial Vehicles Corporation). Ad essi i libici assemblavano i container in cui viaggiavamo.

Corpi senza nome

Il 3 ottobre 2013 molti giovani dai nomi come Selam (pace) o Tesfaye (mia speranza) ci hanno lasciato contemporaneamente.
I nomi che diamo a nostri figli sono un modo di raccontare al mondo le nostre speranze, i nostri sogni, ciò in cui crediamo, o di ricordare le cose e le persone verso cui nutriamo rispetto. Scegliamo per i nostri figli nomi che abbiano un significato, proprio come i nostri genitori hanno fatto per noi.
Per anni questi nomi e il loro carico di carne e sangue hanno lasciato i loro luoghi di nascita per andare lontano da casa, componendo una sorta di messaggio scritto, un messaggio giunto sulla soglia del mondo occidentale. Questi nomi hanno sfidato i confini e le leggi opera dell’uomo, hanno turbato e sfidato i governi africani e europei.
Se riusciamo a capire il motivo e il modo in cui questi nomi sono caduti così lontano dal loro significato, potremmo forse trasmettere un messaggio infinito ai nostri figli e, per il loro tramite, ai loro figli, nipoti e bisnipoti.
Benché i corpi cui appartenevano non ci siano più, quei nomi continuano a esistere, perché sono stati pronunciati e vivono pur rimossi dalla loro servitù umana. Assordati da un caos di parole velenose non riusciamo a sentirli. Ma quelle sillabe sono vive, perché sono state inscritte nell’universo.
Le immagini del film danno spazio a questi nomi senza corpo. Sono nomi che hanno un significato, anche se è difficile per noi capire quale.
Dobbiamo contarli tutti, dare a tutti un nome, per esser certi di quanti nomi hanno perso il proprio corpo in un solo giorno nel mar Mediterraneo.