Landscape is a space of action and thought

di Costanza Meli

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The sea unites the Countries it separates. (Alexander Pope)

Il paesaggio è uno spazio “contenitore” e “contenuto”, uno spazio “immagine” e una “rappresentazione” dello spazio. Con il paesaggio e dentro di esso le comunità interagiscono senza sosta. In questo articolo tenteremo di individuare una traiettoria all’interno di uno dei paesaggi che maggiormente hanno posto interrogativi sulla relazione tra natura e cultura nelle diverse epoche: Il Mediterraneo. Lo faremo attraverso una prospettiva non lineare; tracceremo un percorso che possa condurci ad una lettura di questo spazio mediante l’accostamento di sguardi ed esperienze diverse come quelle dell’arte contemporanea e della museologia sperimentale, per affermare l’impermanenza che caratterizza da sempre l’idea di Mediterraneo e la necessità di riformularne continuamente i significati. La prima idea a vacillare quando ci si accosta a questo paesaggio è che esso sia l’espressione di uno spazio coerente. Secondo alcuni autori, al contrario, in questa accezione si cela una contraddizione sostanziale riscontrabile nella realtà geopolitica e sociale, nonché nelle attuali dinamiche di gestione dei processi migratori. Il geografo Farinelli interpreta tale contraddizione in termini radicali sostenendo che, nonostante lo spazio sia un’invenzione mediterranea (è qui che Tolomeo ha introdotto il mondo alla metrica spaziale), in realtà, tra queste coste, essa non ha mai attecchito. Il Mediterraneo rappresenta, infatti, l’esatto contrario dello spazio isotropico, razionale e centralizzato su cui gli Stati hanno costruito la propria immagine e la mappa delle relazioni tra i popoli. Vi esistono da sempre zone franche, Città Stato, zone di continuità, regole e statuti speciali, unità politiche piccole, economie “immateriali”. Il Mediterraneo smentisce programmaticamente una visione politica fondata sulle identità nazionali, in quanto costituisce un “diaframma” tra l’interno e l’esterno, tra ciò che separa i popoli e ciò che invece li accomuna, ovvero lo scambio. Per questo motivo, conclude Farinelli, questo orizzonte chiuso ed “eccezionale” può essere individuato come il modello originario della globalizzazione. 

La presente proposta di lettura suggerisce, quindi, il Mediterraneo come uno spazio di interazione e sperimentazione all’interno del quale è possibile scorgere, sia in termini storici, sia confrontandosi con l’attualità, la molteplicità semantica di un luogo in divenire, la cui natura è ridefinita costantemente da proiezioni e desideri individuali e collettivi, nonché da programmi e strategie politiche. Un paesaggio che si costruisce oggi anche attraverso la dimensione estetica, la “prassi poetica” e il sentire comune degli artisti che scelgono di intervenire sul suo immaginario, entrando in relazione con le esperienze di chi lo vive e lo attraversa…

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Un museo delle migrazioni a Lampedusa

 

Nel luglio del 2019 si è inaugurato a Lampedusa il Museo della fiducia e del dialogo per il Mediterraneo, presentato come «uno spazio di conoscenza e riflessione, uno strumento per costruire ponti e abbattere muri»[1]. Dopo una pausa di quasi un anno dalla sua prima formulazione istituzionale in cui prevaleva il carattere retorico e pietistico dell’impianto espositivo, il Comitato 3 ottobre[2] ha riaperto il museo al pubblico con un nuovo allestimento della collezione permanente realizzato in collaborazione con l’Archivio delle memorie migranti di Roma e il progetto Dimmi – Diari Multimediali Migranti. L’esposizione si articola in quattro sezioni che interpretano il tema della migrazione attraverso il confronto tra la storia passata e quella presente, per raccontare l’umanità in movimento e affermare l’identità delle persone migranti al di là delle cifre anonime e delle aride statistiche.

La prima sezione è costituita dalla raccolta “Oggetti migranti”, una collezione di reperti (fotografie, lettere, diari, testi sacri ed effetti personali), appartenuti alle persone migranti arrivate sull’isola dal 2008 al 2011 e ritrovati dal collettivo lampedusano Askavusa all’interno dei relitti abbandonati presso il cosiddetto Cimitero delle barche (la discarica pubblica di Imbriacola), nell’entroterra dell’isola. La sezione è un omaggio alla memoria del professore Giuseppe Basile, uno dei maggiori esperti di restauro a livello internazionale che ha dato vita, nel 2012, al primo progetto di costituzione di un Museo e Centro di documentazione sulle migrazioni a Lampedusa, con il patrocinio del Comune. Il museo intendeva elaborare un criterio di trasmissione della memoria valido e significativo per la costruzione di una narrazione del presente portando all’attenzione della comunità scientifica e civile un «fenomeno tutt’altro che esaurito, anzi in sempre maggiore sviluppo nell’intero pianeta, qual è appunto lo spostamento spesso caotico e a rischio di morte di intere popolazioni sotto l’incalzare di inaccettabili o inumane condizioni di vita» [Basile 2013][3]. La collezione esposta oggi presso il Museo della fiducia e del dialogo per il Mediterraneo è quindi una testimonianza di quell’ipotesi museale innovativa e sperimentale alla cui realizzazione ha contribuito, dal 2011 al 2013, un’equipe di ricercatori e studiosi intervenuti per salvaguardare e valorizzare questo patrimonio: l’associazione Isole di Palermo, che ha curato la catalogazione dei reperti restaurati e l’Archivio delle memorie migranti che ne ha consentito la traduzione e lo studio[4]. L’approccio che aveva caratterizzato il progetto era la considerazione degli oggetti come dispositivi attivi, capaci di narrare e incentivare nuove narrazioni nell’incontro con il pubblico; per questo, nel nuovo percorso espositivo ideato per il museo di Lampedusa sono presenti anche alcune tracce sonore (ascoltabili in cuffia) che contengono le traduzioni dei documenti, le ricostruzioni dei tragitti o la lettura dei testi in lingua originale. 

 

Articolo pubblicato  sulla rivista PAD#17

in versione pdf o epub.

Landscape is a space of action and thought


[1] Tratto dal comunicato stampa dell’inaugurazione a cura dell’associazione Archivio delle memorie migranti di Roma.

[3] Estratto del testo di presentazione del Museo e Centro di Documentazione sulle migrazioni di Lampedusa e Linosa, luglio 2013.

[4] La collezione Oggetti migranti è stata precedentemente esposta in due occasioni: la mostra del 2013 a Lampedusa, dal titolo “Con gli oggetti dei migranti” e la mostra-progetto Oggetti migranti. Dalla traccia alla voce, curata dall’associazione Isole presso il MLAC, Museo Laboratorio d’arte contemporanea dell’Università La Sapienza di Roma.

Listening to Migrants’ Narratives: An Introduction

by Robert Lawrence McKenzie and Alessandro Triulzi

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At the third European Conference on African Studies in 2009 (ECAS 2009) held in Leipzig, Germany, the co-editors of this volume convened a daylong panel under the rubric of “African Migration to Europe.” The idea for the panel was conceived roughly a year earlier in June 2008, at the AEGIS Summer School held at Cortona, Italy, which gathered scholars from different disciplines to examine and discuss the broad theme of “Borders and Border-Crossings in Africa.” It was there that we first met and presented papers on what could be broadly detained as “irregular” African migration to Europe. Despite the growing and considerable political salience about irregular migration, we were concerned about a deep discordance between European public imaginings and the experiences and lives of irregular migrants. Five years later, things have not changed much.
While it has been argued that scholarship should distinguish between dominant discourses and policies (cf. Czaika and de Haas 2011), it is also self-evident that academic discourses are not without social and political consequences. In the case of irregular migration, a set of tropes echoing alarmist rhetoric has increased public disquiet—and shaped ideas and ideologies—about the nature and consequences of new forms of transnational mobility. By and large these tropes have helped fashion and usher in anti-immigration movements, led to xenophobic fears of immigrants, increased racial, ethnic and religious tensions, and isolated new immigrant communities and long standing diasporas alike. What’s more, compassion for the plight of migrants, including exiles and refugees, particularly those coming from Muslim lands, has given way to near fever pitch concerns about security in a post 9/11 environment. That these circumstances have coincided with an increasingly turbulent global economy has only strengthened the resolve of the far-right, fuelled intolerance, and led to a public backlash against nearly all immigrant communities in Europe.
Within this political topography, European states have used instruments of national power to develop a set of comprehensive strategies to restrict immigration through “non-arrival regimes” (Castles 2003: 14). To this end, European states have worked with foreign partners south of the Mediterranean to construct “architectures of exclusion” that have shifted immigration controls and entrance decisions “away from state borders to a range of new places (the high seas, consular o ices, and foreign airports)” (Gibney 2005: 4). These policies have not only been shortsighted and counterproductive, but they have also put countless migrants directly in harm’s way. Restrictive immigration policies have eviscerated old routes and networks and forged new and troubling pathways to (il)legality. Unable to find what once were legal means of travelling to Europe, an increasing number of migrants are drawing on their own capabilities and agency, creating new networks, and embarking on extraordinary and dangerous journeys to reach European shores. But these new routes, networks, and methods do not guarantee success—far from it. In the last decade alone, some twelve thousand people have perished in what some African migrants aptly call the “Cemetery of the Mediterranean.”1 (1 See http://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/mamadou-va-morire-la-strage-dei.html.) And these numbers reflect only the casualties that are known.
Worse yet, as the result of misleading nomenclature and criminalising labels—such as, illegal, irregular, undocumented, overstayer, sans papiers, clandestino—European states have become unable or unwilling to imagine irregular migrants as ordinary human beings, who, under the weight of highly complex circumstances, are compelled to use irregular routes and irregular methods. What’s lost in the deafening din about the dangers of irregular migrants are the complex and multifaceted reasons why a growing number of Africans make these perilous journeys. As researchers who are troubled by serious human rights abuses against migrants, we were and remain convinced of the urgency to contest and dislodge pervasive misinformation and misconceptions about irregular migration in the European public sphere.
It was against this backdrop that we proposed a one-day panel on the issue of irregular migration for ECAS 2009. The panel offered a rare opportunity to generate dialogue and debate among scholars from diverse disciplinary backgrounds on questions related to irregular African migration to Europe. We received thirty-six paper proposals on a wide range of thematic issues, spanning broad geographic regions of Africa. And we were certainly pleased to see well over one hundred scholars attend our three sessions of twelve papers, each representing fresh research by new or recent doctoral students. Though the panel a forded a platform for a much-needed discussion, it was clear that there was far more to learn about the lives of Africans before, during, and after their “migratory projects” to Europe.
Building on the ECAS 2009 panel, this volume subjects to critical inquiry transnational mobility and explores the different phases and contours of African irregular migration to Europe. Through a wideranging probing of the topic, we investigate the direct and indirect relationship of macro-power forces on ordinary African lives, examining how these forces at once enable and constrain human agency and action. The central animating theme of this volume is the exploration of the local-to-global context of migration, namely the inextricable links between the so-called drivers of migration, its governance and management, and the various patterns, experiences and forms of agency it leads to. If there is but one fundamental and object lesson it is that one-size-fits all policies for governing and regulating migration have dangerous consequences on both sides of Mediterranean. This is true not only for African migrants, but also for sending, receiving, and transit states and their societies.

Framing Irregular Migration

The concept of irregular migration is problematic, unclear, and, at times, contradictory (cf. Düvell 2009; Vollmer 2008). As a result of inadequate data and confused nomenclature, the concept of irregular migration is a source of political and analytical uncertainty that impedes our understanding of this highly complex process (cf. Black 2003; Koser 2005). Therefore, as a starting point, we must ask how is irregular migration conceptualized? In other words, how is it de ined, by whom, and with what consequences? Does this bedrock designation accurately de ine African migration or does it obfuscate and obstruct—analytically and politically—our understanding of new forms of transnational mobility? As we begin to complicate our understanding of these issues, we must also ask what is the nexus between patterns and experiences of migration, and forms of governance, management and control? These are but a few of the questions that inform and frame this volume.
It is our contention that western publics have been habituated to think of irregular migrants in binary and reductionist terms. Any casual survey of a wide range of European genres immediately reveals that the public is saturated with myopic depictions of real versus bogus refugees, involuntary versus voluntary migratory fluxes, legal versus illegal entry, regular versus irregular migration, among a growing list of categories (cf. Zetter 2007). Pundits and politicians alike routinely leverage and magnify these easy-to-grasp notions as a lightning rod to garner support for their own political enterprises.
In this context, it is small wonder that one hears incessantly of irregular African migrants as being part of an “African exodus” or impending catastrophic “invasion” (de Haas 2007). By overstating the threat posed by migration, Canada was, as far back as 1997, spending one billion dollars a year on its internal refugee determination system or about ten times more than it spends on aid assistance to refugee camps (cf. Stoffman 1997). In an attempt to mitigate irregular migration, Canada, the United States, along with Germany, the United Kingdom and the Netherlands, spent no less than seventeen billion dollars in 2002 alone (Martin 2003 quoted in Khoser 2005: 4). Yet the fact remains that the vast majority of people in the South, including those who have the means and opportunities to migrate, do not do so (Horst 2006).
That western states are spending so much on migration controls and management systems illustrates the extent to which uncompromising interpretations of irregular migration have shaped global opinion and imprinted themselves on immigration legislation and policies. In short, irregular migrants have been discursively reduced and crudely rendered in convenient images of victims and villains. Bridget Anderson (2007, 2008) aptly recognised that this discourse bifurcates “foreigners” into monolithic and moralising categories of “good” and “bad” migrants. The former have been designated as victims of trafficking and rightly deserve institutional and state assistance, while the latter are framed as cunning queue jumpers and welfare frauds, who, among other things, are responsible for the loss of jobs, rise in crime, social decay, and blight in the poorest areas of European countries.
For the purpose of this collection, we would like to suspend these dominant notions of irregular migration, widen our myopic gaze, and instead ask how are these categories and labels fashioned and reified in the corridors of power in the North and what are the resulting consequences for Africans on the move? Though we engage with these categories, our aim is not to work from a set of rigidly detained designations but rather to dislodge them through rich empirical, evidence-based analysis. Therefore this volume situates the concept of irregular migration within a global and historical context, a context that has allowed for shifting notions of criteria for those who can or cannot enter Europe, with an emphasis on those who cannot.

Towards a New Narrative of Irregular Migration

To move beyond binary and easy-to-grasp notions of irregular migrants, it is well to ask: What should we make of the untold numbers of migrants whose complex, heterogeneous lives and experiences do not it easily within these monolithically consistent categories? What should we make of those, who, as neither refugee nor homo economicus, flee grinding marginalisation, injustice, pestilence, and crippling adversity, which has been created from “extreme, even life-threatening, postcolonial poverty” (Malkki 2007: 341)? And how should states, institutions, and international humanitarian regimes label and respond to these nebulous categories of persons? What would these “speechless emissaries” (Malkki 1996) have to say to us if their candour did not prevent their entry or ensure their deportation from Europe?
Clearly we do not mean to suggest that there are no victims. In fact, quite the opposite. The evidence is overwhelming that millions have fled mass human rights abuses, armed conflicts, and brutally oppressive regimes. Worldwide there were no less than ten and a half million refugees in 2011, twenty six million internally displaced persons as of 2007, and twelve million stateless persons as of 2009.2 (2 For a detailed breakdown of the statistics see the United Nations Refugee Agency’s Website: http://www.unhcr.org/pages/49c3646c11.html.) Therefore our contention is not to turn a blind eye to victims, but rather to highlight that a paradigm of factually ill-informed nomenclature and political charged rhetoric has fashioned an increasingly xenophobic ethos, inflated the threat of an invasion, and conflated different categories of migrants. The cumulative effect has forged a European environment that is increasingly inhospitable to migrants, regardless of how one labels them. Far too many European states have been unable or unwilling to grasp the basic human nature of transnational mobility and the variety of experiences that animate such a world-wide phenomenon.
Accordingly, we feel that there is a strong need for a new narrative from which to contextualize and grapple with the complex issues of irregular migration. To gain a deeper and more nuanced understanding of the issues—and to disabuse or undeceive ourselves from easy-to-grasp notions—the starting and end analysis must be with migrants themselves and their multiform agency grounded in and shaped by local contexts. By listening to their stories and documenting their often rich experiences—as they understand them—our research and analysis may begin to offer alternative readings and interpretations of irregular migration. In other words, it will only be through engaging irregular migrants in open and meaningful dialogue that we will be able to expand our own considerations of “irregular” migration.
Therefore an important point of departure for this publication is the focus of migrants’ narratives within each individual chapter and research experience. These heterogeneous narratives, when juxtaposed to empirical findings, offer creative ways of thinking about and representing African migration, an approach we believe is too often underrepresented in scholarly works and public discourse. The integration of these diverse narratives demonstrates that one of the most vexing aspects of new forms of African migration is the extent to which migrants’ narratives are ignored, muted, or elided in the public sphere.
While we are attempting to include migrants’ narratives, we are well aware of the methodological and ethical complexities of the very reaching out and “listening” to migrants’ voices. The link between migration and the colonial past, for instance, appears to be poorly perceived among the new generation of African migrants, mostly unemployed urbanized youth who appear to be escaping from the present “regimes of violence” (Mbembe 2001: 102), rather than from their nebulous colonial past. What these youths are interested in is not the colonial past per se, but whether their present life in poverty has any viable future.
Therefore, this volume demonstrates that the lives of irregular migrants offer many insights into the making and unmaking of today’s transnational mobility. But they also offer a window into the migratory ecology of survival, whereby a morally ambiguous “gray zone” (Levi 1998) allows for the victim to become the victimiser and where, in fact, any clear-cut distinction between perpetrator and victim is often blurred and indiscernible. For this reason migrants’ narratives are sometimes perceived at best as flawed, and at worst as mere rhetorical constructions riddled with secrets and lies. To be sure, the narratives which are presented in this volume were not aimed at providing asylum or refugee status evidence in front of a State commission, but are merely offered as fragments of lives and voices emerging from migrants’ communities in the field or in the country of transit or arrival. In a way, these voices and silences describe the very hubris of today’s abused humanity currently displayed everywhere towards irregular migrants. Accordingly, these voices and silences are a useful reminder to a forgetful Europe of what migrants’ conditions meant to its own, often irregular, migrants of the past.

Manuscript Structure

The volume offers thirteen contributions from a variety of different local actors and situations, and it privileges the immediacy of firsthand accounts and self-representations. Through rich empirical chapters, the volume attempts to dislodge easy-grasp labels of irregular migrants as either “victims” or “villains.” Moving beyond simplistic terms of how migrants attempt perilous journeys out of visible poverty, chapters demonstrate the complex set of ecological and human factors that help shape migrants’ ideas and inform their decisions on the move. To this end, the volume aims to explore the constant conflict between the externally-imposed and internally-moulded laws of migration, examine its mixed and contradictory governance, and present live experiences and actual cases of individual migrants.
As a coda to the volume, we have included a narrative by an Ethiopian forced migrant living in Rome, who works as a filmmaker-cum-activist. The narrative speaks volumes about the long journeys that some Africans must make to escape suffocating structural violence in the South. Yet the narrative demonstrates that migrants’ journeys, trials and tribulations, rarely end upon reaching European shores. In fact, it is often upon arrival that the painful remembering of the long journey surfaces and the urge to speak out is confronted with the silences and pain of one’s abused dignity. As an Ethiopian female refugee stated in Dagmawi’s film “Like a man on earth” (2008):

I don’t want to remember all this, I know what I went through all along. I can’t tell anymore, but I want it to be exposed . . . I say this not because I seek pity . . . but in the hope that a solution can be found for everyone who’s . . . going through this ordeal.

It would be disingenuous or naïve to suggest that this volume provides comprehensive and sustainable solutions to the intractable problems leading to and resulting from irregular migration. But in a similar vein to the Ethiopian woman just quoted, it is our hope that the narratives and empirical analyses found in this volume provide the rightful opening and exposure, not merely to public awareness and meaningful dialogue, but to the direct voicing of African migrants and refugees and of their struggles and painful journeys.

Bibliography

Anderson, B. (2007) Motherhood, apple pie and slavery: reflections on trafficking debates. University of Oxford, Centre on Migration, Policy and Society, Working Paper No. 48.
Anderson, B. (2008) ‘Illegal immigrant’: Victim or Villain?. University of Oxford, Centre on Migration, Policy and Society, Working Paper No. 64.
Black, R. (2003) “Breaking the Convention: Researching the ‘Illegal’ Migration of Refugees to Europe,” Antipode 35: 34–54.
Castles, S. (2003) “Towards a sociology of forced migration and social transformation”, Sociology 1 (35): 13–34.
Czaika, M. and de Haas, H. (2011) The effectiveness of immigration policies: A conceptual review of empirical evidence. Oxford: IMI Research Report: University of Oxford.
de Haas, H. (2007) The Myth of Invasion: Irregular Migration from West Africa to the Maghreb and the European Union. Oxford: IMI Research Report: University of Oxford.
Düvell, F. (2009) Irregular Migration in Northern Europe: Overview and Comparison. University of Oxford, Clandestino Project Conference, Centre on Migration, Policy and Society.
Gibney, M. (2005) Beyond the bounds of responsibility: western states and measures to prevent the arrival of refugees, Global Commission on International Migration.
Horst, C. (2006) Transnational Nomads: How Somalis Cope with Refugee Life in the Dadaab Camps of Kenya, Oxford: Berghahn.
Koser, K. (2005) Irregular migration, state security and human security, Global Commission on International Migration Policy Analysis and Research Programme.
Levi, P. (1998) The drowned and the saved, London: Joseph.
Malkki, L. (2007) “Commentary: The Politics of Trauma and Asylum: Universals and Their Effects.” Ethos 35(3): 336–343.
Malkki, L. (1996) “Speechless Emissaries: Refugees, Humanitarianism, and Dehistoricization”. Cultural Anthropology 11(3): 377–404.
Mbembe, A. (2001) On the Pstcolony. Berkeley: University of California Press.
Stoffman, D. (1997) “Making room for real refugees.” International Journal 52(4): 575–580.
Vollmer, B. (2008) Undocumented Migration: Counting the Uncountable. Data and Trends across Europe.
Yimer, D. and Segre, A. (2008) Like a Man on Earth, Italian film, 60 minutes.
Zetter, R. (2007) “More Labels, Fewer Refugees: Remaking the Refugee Label in an Era of Globalisation,” Journal of Refugee Studies, 20 (2): 172–192.

Una nuova voce nel cinema italiano?

L’emergenza di forme di cinema migrante in Italia.

di Alessandro Jedlowski

In Camera Africa: Classici, noir, Nollywood e la nuova generazione del cinema delle Afriche, a cura di Vanessa Lanari, Fabrizio Colombo e Stefano Gaiga, Cierre Edizioni, Verona 2011 (pp. 69 – 76).

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Così com’è successo nel campo della letteratura, negli ultimi anni la cinematografia italiana ha visto emergere e consolidarsi il lavoro di una serie di registi di origine africana, la cui voce, le cui modalità espressive, le cui storie ed esperienze sono lo specchio di una nazione che, anche se stenta ad ammetterlo, sta cambiando a grande velocità. Se in paesi come la Francia ed il Regno Unito un simile fenomeno è emerso ormai da diversi anni, ed ha visto il progressivo consolidamento di definizioni come quelle di Black British Cinema in Inghilterra o di Cinéma Beur in Francia, in Italia si tratta di un fenomeno relativamente recente e sommerso, cui ancora si stenta a dare un nome ed una posizione nel panorama della produzione cinematografica italiana. Cinema migrante, Black Italian Cinema o forse più semplicemente nuovo cinema italiano, comunque lo si voglia chiamare questo fenomeno propone allo spettatore inedite prospettive per analizzare l’Italia e la sua società in trasformazione.
I film finora prodotti, anche se non particolarmente numerosi, mostrano una grande diversificazione stilistica e narrativa, che permette di ipotizzare a mio avviso lo sviluppo di tre linee guida: una di natura più sperimentale, che esplora codici estetici e narrativi ibridi; una seconda di natura documentaria, nella quale si rileva un forte impegno politico; ed infine una terza di natura più popolare e commerciale, orientata soprattutto verso il pubblico della diaspora, fondata su forme narrative ed estetiche direttamente imparentate con quelle sviluppatesi all’interno del fenomeno video nigeriano, conosciuto come Nollywood[1]. Questa schematizzazione non pretende certo di essere esaustiva, ed inevitabilmente fra i registi che a breve segnalerò diversi si sono spostati trasversalmente fra queste categorie. Tuttavia essa può a mio avviso essere utile per mettere a fuoco le diverse anime di questa nascente cinematografia.
Prima di discutere alcuni esempi è, però, importante sottolineare che la definizione di cinema migrante non è meramente una questione di biografia. Ciò che permette di discutere e mettere a confronto opere così diverse non è soltanto il fatto che esse sono il risultato del lavoro di registi che hanno, come parte integrante del loro percorso, vissuto l’esperienza dell’esilio, della migrazione, del distacco. Esistono, infatti, altri registi del panorama cinematografico italiano, come Ferzan Özpetek e Rachid Benhadij, il cui lavoro non verrà preso qui in considerazione, che hanno vissuto l’esperienza della migrazione e mantengono un legame importante con la loro patria di origine, ma che tuttavia in molti casi non vengono considerati “registi migranti” poiché il loro lavoro si lega a strutture di produzione ed a codici narrativi ed estetici che fanno parte della produzione cinematografica italiana mainstream [2]. La definizione di cinema migrante è dunque legata, come discusso fra gli altri nei lavori di Hamid Naficy (2001) e di Laura Marks (2000), ad almeno tre fattori principali: l’utilizzo, imposto o voluto, di strategie di produzione interstiziali, che fanno della precarietà e dell’improvvisazione importanti quanto inevitabili elementi di connotazione; la pratica di linguaggi cinematografici nella maggior parte dei casi ibridi che, per contingenza o per scelta esplicita, mettono in discussione codici narrativi dominanti ed esprimono in modo più ravvicinato l’esperienza di rottura e di frammentazione generata dal processo migratorio; ed infine, la definizione da parte dei registi stessi della propria opera come marginale, delocalizzata, in posizione di opposizione rispetto al canone cinematografico su cui si fonda l’immaginario identitario nazionale.
Fatte queste dovute premesse, iniziamo questo percorso con l’opera di Theo Eshetu, video-artista e documentarista di origine etiope, cresciuto fra l’Inghilterra, l’Olanda, il Senegal e l’Etiopia, la cui esperienza simbolicamente segna un utile punto di partenza. Il lavoro di Eshetu, infatti, non solo è quello che, fra quelli analizzati in questa sede, si è sviluppato per primo, ma è anche quello che più di tutti si pone alla frontiera fra generi e stili differenti. Eshetu si è trasferito in Italia nel 1982 ed ha lavorato inizialmente soprattutto come video-artista, interessandosi a temi estremamente vari. Nel 1987 ha fondato la casa di produzione White Light con la quale ha realizzato una serie di documentari per la televisione, fra i quali è importante segnalare Il sangue non è acqua fresca (1997), film nel quale il regista compie un percorso autobiografico per esplorare la propria identità, mescolando così frammenti della propria esperienza personale ad un’analisi della storia politica e culturale del suo paese d’origine. Come video-artista Eshetu ha, fra le altre cose, realizzato nel 2009 un’installazione sulla vicenda della restituzione da parte del governo italiano dell’obelisco di Aksum alle autorità etiopi (Il ritorno dell’obelisco di Aksum, 2009). L’istallazione, un gigantesco collage visuale formato da 15 schermi, ripercorre attraverso la combinazione di immagini d’archivio, foto e video girati dal regista l’itinerario dell’obelisco, riallacciando la memoria dell’esperienza coloniale italiana al momento storico presente ed alle motivazioni dell’attuale restituzione di questo oggetto dall’alto potere simbolico. Del 2010 è, infine, la produzione del film Roma, nel quale ancora una volta Eshetu si dedica all’esplorazione di soluzioni estetiche ibride, che lo conducono a creare un linguaggio che si situa fra il poetico ed il documentario, compiendo un’interessante fusione fra le preoccupazioni di natura politica che attraversano la sua opera e le questioni legate alla sua ricerca artistica ed estetica. “Fellini – racconta Eshetu in una recente intervista – diceva che nonostante la natura imperiale, papale e fascista, Roma è in realtà una città Africana. Questo è lo spunto per la mia Roma che vuole essere la visione dello straniero che vive le contraddizioni della città nella quale dialogano il sacro e il profano, il volgare e il poetico, l’eterno e l’effimero in uno scenario di fantasmi e memorie inafferrabili” [3].
Se nel panorama della produzione migrante, il lavoro di Eshetu è senza dubbio quello che dedica maggiore attenzione alla ricerca artistica, è interessante notare come il lavoro di un altro giovane regista etiope, Dagmawi Yimer, la cui esperienza artistica si è sviluppata all’interno del progetto di video partecipativo promosso dall’Archivio delle Memorie Migranti di Roma, si stia progressivamente muovendo da un’iniziale interesse principalmente politico e documentaristico verso una più accentuata attenzione al linguaggio cinematografico ed alla ricerca di un posizionamento artistico netto. La successione dei tre documentari firmati da Yimer, Come un uomo sulla terra (2008, realizzato insieme ad Andrea Segre e Riccardo Biadene), C.A.R.A. Italia (2009) e Soltanto il mare (2010, realizzato insieme a Giulio Cederna e Fabrizio Barracco), mostra bene questo percorso. Se in Come un uomo sulla terra, infatti, la denuncia delle politiche italiane e libiche sulla migrazione è il tema centrale, in Soltanto il mare l’attenzione si sposta su una più astratta questione relativa alle politiche della rappresentazione e dello sguardo. Chi ed in che termini ha il potere di guardare e di definire? Sembrano questi gli interrogativi che guidano lo sviluppo di questo film che, nato dal desiderio di Yimer di ritornare a Lampedusa, luogo del suo primo arrivo in Italia, si trasforma da documentario autobiografico sul tema degli sbarchi a strumento di incontro con la popolazione dell’isola. Attuando una specie di anthropologie renversée del tipo spesso auspicato da Jean Rouch, Yimer finisce per rivolgere la telecamera verso la società nella quale si è trovato proiettato, mettendo in discussione la gerarchia di sguardi implicita a molta della produzione cinematografica sul tema della migrazione.
Di natura differente è il lavoro di Fred Kudjo Kuwornu, regista italo ghanese che ha realizzato la sua prima opera di livello internazionale nel 2009 con il film Inside Buffalo. Questo film, un documentario che interseca un’approfondita ricerca d’archivio con numerose interviste ed immagini raccolte direttamente dal regista, racconta l’esperienza della 92esima divisione “Buffalo” dell’esercito statunitense durante le fasi finali della seconda guerra mondiale. La storia di questo battaglione, l’unico ad essere interamente composto da afroamericani, è particolarmente affascinate poiché permette di riflettere sull’antirazzismo ante-litteram del movimento partigiano italiano in relazione alla complessa struttura di gerarchie razziste interna all’esercito statunitense dell’epoca. Il lavoro svolto per l’attuazione di questo progetto, inoltre, ha spinto Kuwornu a dedicarsi in modo approfondito al confronto con i materiali d’archivio, dando inizio ad una dinamica di interrogazione della memoria visuale italiana su tematiche legate al razzismo ed all’immigrazione che sembra offrire molteplici linee di sviluppo.
Altri registi da tenere in considerazione tra quelli che oscillano fra documentario e finzione nel tentativo di portare alla luce la condizione specifica del soggetto migrante sono Hedi Krissane, Abdulaye Gaye e Malik Ba. Il primo, attore di origine tunisina che ha lavorato per diversi anni nella televisione italiana, ha finora firmato tre film come regista, Lebess (Non c’è male) (2003), Colpevole fino a prova contraria (2005) e Ali di cera (2008), nei quali si tematizza in modo particolare il peso della discriminazione sulla vita quotidiana dei migranti. Abdulaye Gaye ha diretto invece il suo primo film, Life in the city, nel 2009 documentando la vita quotidiana dei migranti senegalesi a Bologna e dando voce alla frustrazione dovuta alle difficoltà di ambientamento nella società italiana. Infine, Malik Ba, regista anche lui di origine senegalese, ha realizzato nel 2001 il film Foreign Office: Xmas 2001, mettendo insieme gli spunti raccolti durante la sua pluriennale esperienza di lavoro nell’ufficio di assistenza per i migranti del comune di Bologna [4].
A completare questo sintetico quadro della produzione cinematografica migrante in Italia, ci sono due case di produzione nigeriane, la IGB Film and Music Industry creata da Prince Frank Abieyuwa Osharhenoguwu a Brescia nel 2001 e la GVK (Giving Vividly with Kindness) creata da Rose Okoh e Vincent Andrew a Torino nel 2005. Rispetto agli esempi presentati finora, l’esperienza di queste due case di produzione risulta profondamente differente, poiché come accennato in precedenza, essa si rifà allo stile estetico e narrativo che caratterizza il dilagante fenomeno video nigeriano. Non mi soffermerò qui sui dettagli legati alla storia della loro evoluzione né sulla totalità dei film che esse hanno finora prodotto. Basti sottolineare per il momento che l’impostazione delle due case di produzione è piuttosto differente. La IGB, da un lato, può essere definita come una casa di produzione tipicamente nollywoodiana, che orienta le sue produzioni principalmente verso il mercato nigeriano, sia in Nigeria che nella diaspora, e che fa uso di una narrativa in stile melodrammatico tipica della maggior parte dei video prodotti in Nigeria. Dall’altro lato, invece, la GVK sta tentando un lavoro più sperimentale, producendo film co-diretti da un regista nigeriano, Vincent Andrew, ed uno italiano, Simone Sandretti, nell’obiettivo di creare un prodotto capace di funzionare sia sul mercato nigeriano che su quello italiano.
La differenza di orientamento commerciale delle due case di produzione si riflette nel modo in cui il tema della migrazione viene affrontato. In un recente film della IGB, The only way after home but it’s risky (2008), la questione della migrazione non è tematizzata direttamente ma fa invece da cornice allo sviluppo della storia. Come avviene in diversi film nollywoodiani ambientati in Europa (si vedano Haynes 2003 e 2009), in questo film l’azione si svolge all’interno di un contesto che mostra un percorso migratorio di successo. Il protagonista del film, Biney, passa con facilità da una storia d’amore all’altra, offre ricchi regali alle sue amanti, le porta a fare shopping nei negozi di lusso delle vie centrali di Milano, Brescia e Verona. La durezza della realtà cui la maggior parte degli immigrati africani è costretta a sottoporsi è esclusa dalla narrazione. Assistiamo in questo caso ad una rappresentazione profondamente legata alla narrativa classica del melodramma nollywoodiano, simile per certi aspetti a quella delle telenovelas latino americane. In questo genere narrativo il contesto all’interno del quale si svolgono gli intrighi sentimentali dei protagonisti tende a confermare un immaginario collettivo dell’Europa come eldorado, luogo di ricchezza e prosperità.
Nel lavoro di Vincent Andrew e Simone Sandretti, invece, il quadro offerto è differente. Nei film finora prodotti dalla GVK, Efe-Obomwan (2006), Akpegi Boyz (2008), Uwado (2008) e Blinded Devil (2010), Andrew, sceneggiatore di tutte le produzioni della GVK, prende spunto dalla realtà della comunità di nigeriani fra i quali vive a Torino, tentando di mettere a fuoco alcune delle problematiche che la attraversano. I temi trattati, dunque, si orientano sia verso una critica interna alla comunità nigeriana stessa che verso una denuncia del trattamento ricevuto dai nigeriani da parte delle istituzioni italiane, spaziando dai conflitti esistenti fra immigrati appena arrivati in Italia ed immigrati presenti sul territorio da lungo tempo (Efe- Obomwan) al rifiuto manifestato da molte giovani coppie di migranti a mettere su famiglia in Italia, paese in molti casi vissuto dai migranti come luogo inadatto a sviluppare una famiglia (Uwado), dal tema dello sfruttamento della prostituzione da parte di alcuni membri della comunità nigeriana (Akpegi Boys), a quello della corruzione della polizia italiana (Akpegi Boys), a quello, infine, delle infinite difficoltà vissute da molti migranti a causa dell’impossibilità di ottenere un permesso di soggiorno regolare (Blinded Devil).
Prendendo spunto dal modello produttivo e distributivo dell’industria video nigeriana, queste due case di produzione puntano verso una distribuzione direttamente in DVD, ed eventualmente via web (come nel caso di Blinded Devil per la GVK), principalmente orientata verso il mercato costituito dai migranti stessi. In questo modo, IGB e GVK partecipano nel creare un sorta di cinema parallelo, di natura profondamente popolare, che difficilmente entra in contatto con una produzione cinematografica d’autore come quella rappresentata invece dagli esempi citati precedentemente e destinata in primo luogo alla circolazione in festival e rassegne tematiche. L’attività di queste due case di produzione è probabilmente solo la punta di un iceberg di dimensioni ben più grandi, quello rappresentato dalla produzione e circolazione di materiale digitale prodotto da migranti in Italia ed altrove in Europa ed orientato al consumo da parte dei migranti stessi. Una breve passeggiata nei mercati africani di Napoli, Roma, Milano o Torino può svelare con facilità quello che a mio avviso rappresenta un ramo importante, ed ancora poco sviluppato in Italia, della ricerca relativa alla produzione ed al consumo cinematografico fra i migranti.
Nella varietà e nella profonda diversità delle esperienze che ho tentato di sintetizzare in queste pagine si esprime a mio avviso uno scenario di grande creatività, che offre spunti di riflessione utili a ripensare secondo prospettive originali ed inedite le trasformazioni sociali che l’Italia sta attraversando. Il confronto con questa produzione, con le scelte estetiche e narrative che propone così come con le strategie di produzione e distribuzione che sperimenta, ha il potenziale di contribuire in modo determinante ad attivare un processo di presa di coscienza collettiva della ricchezza di opportunità di incontro ed di innovazione creativa generata dai processi di migrazione di massa.

Bibliografia

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Naficy, Hamid. 2001. An Accented Cinema. Exilic and Diasporic Filmmaking. Princeton: Princeton University Press.

Note

[1] Secondo il rapporto stilato dall’UNESCO nell’aprile 2009 Nollywood risulta essere oggi la seconda industria cinematografica più produttiva del pianeta. Per mancanza di spazio non mi è possibile presentare qui in modo approfondito l’affascinante storia dello sviluppo di questa industria, a questo riguardo rimando quindi alle raccolte di saggi curate da Haynes (2000) e da Barrot (2005).

[2] Come sottolinea Maria Giulia Grassilli riferendosi alla teoria dell’accented cinema proposta da Naficy, questi sono registi che hanno “italianizzato il loro accento”. Si vedano a proposito gli articoli di Giuseppe Guarizzo (2000) ed Elisabetta Girelli (2007).

[3] Dall’articolo “Theo Eshetu al festival internazionale del film di Roma”, sul sito www.artapartofculture.net, consultato il 03/11/10.

[4] Per i dati contenuti in questo paragrafo si ringrazia in modo particolare la collaborazione di Maria Giulia Grassilli.

Futura memoria

di Susanna Guerini

Articolo pubblicato nella rivista AM-Antropologia Museale, n. 37/39, 2015-2016.
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Quando sono arrivato in Italia, pensavo che avrei dimenticato tutto ciò,
ma poi insieme abbiamo capito che bisognava raccontare.
Dagmawi Yimer, dal documentario Come un uomo sulla terra (2008)

Per una storia del presente
È possibile parlare oggi in Italia di “comunità patrimoniali migranti”[1]? In riferimento a quali eredità culturali? Se vi fosse un processo di patrimonializzazione delle esperienze che accompagnano i processi migratori nell’Italia del presente, oggetto della presente riflessione, chi sono i suoi ‘promotori’? Sotto quali forme le tracce salvaguardate assumono un valore collettivo? Le convenzioni sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (in particolare Faro 2005; UNESCO 2003) e il Codice dei Beni Culturali sembrano descrivere un concetto di cultural heritage proveniente dal passato[2], ma è possibile costituire un patrimonio culturale a partire dal presente?
L’anno zero della trasformazione dell’Italia in paese di immigrazione è generalmente fatto risalire al 1991, quando navi come la Vlora riversarono sul territorio italiano un’alterità culturale e corporea che creò uno shock e un cambiamento radicale nella percezione e nella rappresentazione socio-culturale dei migranti. Tuttavia l’immigrazione assume rilevanza fin dai primi anni Settanta[3], si tratta perciò di un fenomeno datato già oggi etichettabile come “eredità culturale”, il quale rende la società italiana, parafrasando Anderson (2003), una “comunità immaginata multiculturale”. Una presa di coscienza collettiva che tuttavia comincia a percepirsi solo negli ultimi anni, e che forse i primi processi di patrimonializzazione qui descritti potrebbero prefigurare[4]. Consapevolezza che però necessita comprensione, dunque conoscenza e riflessione a partire da un possibile patrimonio culturale che rappresenti i processi migratori, in una prospettiva di superamento della rappresentazione del migrante “per difetto” o “per eccesso” (Sayad 1999).
Fenomeno costantemente rappresentato come straordinario, la migrazione in Italia sembra non trovare spazio in una memoria storica e culturale pubblica, luogo di riflessione in cui “fermare” lo scorrere del tempo. È interessante la considerazione del presidente dell’associazione Kel ‘Lam onlus di Roma Ndjock Ngana, che ha collaborato con il Museo Pigorini in diversi progetti di mediazione museale, quando definisce il contesto italiano “speciale” a causa della condizione di perpetua emergenza in cui vivono i migranti che vi risiedono, costretti ad abbandonare la “capacità di sviluppo di un lavoro culturale e identitario”[5] (Munapé 2012: 51).
La costruzione di una memoria sottoforma di patrimonio culturale da salvaguardare è un processo, lo sanno bene gli antropologi del patrimonio, tutt’altro che neutrale (Palumbo 2011); le implicazioni politiche, economiche, sociali e culturali sono molteplici, complesse ed imprevedibili, e forse diventano ancora più complicate quando gli elementi da salvaguardare hanno a che fare con un tema attuale ‘caldo’, ricco di retoriche estremizzate e oggetto di ferventi dibattiti.
Il presente contributo vuole essere una breve, e non esaustiva, rassegna di cosa sta avvenendo oggi in Italia nel campo della patrimonializzazione dei processi migratori. Verranno considerati alcuni casi in cui è esplicita la volontà di conservare un patrimonio culturale originato nell’immediato presente da tramandare alle generazioni future. “Patrimoni migranti” costituiti da “voci” e storie che diventano fonti orali archiviabili (Simonicca 2013). Un patrimonio da formare e dal quale partire per costruire nuove comunità, in una prospettiva di antropologia dialogica che vede i soggetti coinvolti come testimoni ma innanzitutto come soggetti interpretanti con i quali lo studioso dovrebbe, appunto, dialogare.
L’analisi dei casi verrà affrontata a partire da un particolare posizionamento rispetto alla tematica, legato alla mia esperienza diretta nel campo della conservazione delle memorie migranti all’interno dell’associazione culturale Archivio delle memorie migranti (AMM).

Archiviare memorie migranti
Da tre anni faccio parte del gruppo di lavoro di AMM, che dal 2012 si adopera nel territorio italiano, in particolare a Roma dove ha la sua sede, ma anche internazionale, per raccontare la migrazione attraverso il punto di vista delle persone che l’hanno vissuta, in un percorso difficile ma condiviso di ricerca e di azione critica sui processi di rappresentazione e di narrazione di questa esperienza, che vede attivi sia italiani sia migranti. In questa prospettiva narrazioni audiovisive, scritte o dialogiche sono raccolte e conservate come elementi di una “archiviazione dinamica di questo pezzo di storia del presente”, che aiutano a costituire “nuove griglie interpretative, strumenti di comprensione per una realtà di attraversamenti” (Triulzi 2012). Tracce che raccontano il presente e che vengono registrate nel momento stesso in cui vengono agite[6], per divenire oggetto di riflessione teorica e di condivisione. Cosicché, il processo di archiviazione di tracce del presente esperite attraverso film, interviste, immagini o testi, si trasforma in un’attività funzionale alla loro salvaguardia e trasmissione.
La nascita dell’associazione risale all’esperienza maturata nella scuola di italiano per migranti, richiedenti asilo e rifugiati Asinitas, nella quale un gruppo di lavoro composto da volontari e studenti ha cominciato a raccogliere alcune storie di viaggio e di vita, in particolare attraverso video-interviste e laboratori di video partecipativo[7]. Gli esperimenti di autonarrazione e i laboratori audiovisivi sono divenuti occasioni importanti per ripensare l’esperienza migratoria e le condizioni di vita dei migranti in Italia; dal 2012 il gruppo ha deciso così di proseguire autonomamente questo percorso. Fu con un laboratorio di video partecipativo che nacque il primo film di AMM Benvenuti in Italia (2012), un documentario composto da cinque cortometraggi, in cui i protagonisti, migranti dislocati in cinque città italiane, vengono seguiti dai registi, anch’essi di origine migrante, in alcuni momenti delle loro giornate e in situazioni particolari della loro esistenza[8].
Tra i mezzi di narrazione privilegiati dall’associazione vi è innanzitutto il cinema documentario, inteso come linguaggio multivocale e alla ‘portata di tutti’, mezzo efficace di narrazione autoriale e di autorappresentazione capace di trasmettere idee, desideri e visioni del mondo dei suoi autori, in questo caso persone che hanno vissuto l’esperienza della migrazione. I documentari sono concepiti come “costrutti autoriali” (Faeta 2003) e spazi in cui l’esperienza viene raccontata dall’autore/regista a qualcuno (Jedlowski 2009).
Il gruppo si costituisce così come “comunità di pratica” (Wenger 2006) che persegue obiettivi comuni da punti di vista differenti. Inizialmente si volevano sostenere e valorizzare le forti esigenze di raccontare[9] e di condividere[10] il vissuto dei richiedenti asilo in Italia e le esperienze di viaggio dei rifugiati politici, ma questa esigenza si è poi trasformata nella voglia di raccontare altro: contro-storie dissonanti in opposizione alla violenza delle politiche e delle retoriche nazionaliste e razziste, storie di incontri tra persone dislocate. La patrimonializzazione stessa di queste memorie diventa un preciso atto e posizionamento politico.
Questa stessa volontà politica è alla base del progetto RAMM – Rete di Archivi Memorie e Migrazioni, di cui AMM è promotrice insieme al Circolo Gianni Bosio, l’Università di Napoli “L’Orientale” e l’Istituto Centrale dei Beni Sonori e Audiovisivi (ICBSA). Da una parte due associazioni impegnate nella raccolta di “tracce migranti”[11]; dall’altra due istituzioni nazionali di ricerca scientifica e di tutela dei beni culturali. Le quattro realtà si propongono come punto di riferimento per chiunque voglia condividere e rendere accessibile al pubblico testi, film, storie di vita legati all’esperienza della migrazione[12]. Obiettivo principale della collaborazione è quello di promuovere un’attività di rete per “la raccolta, la produzione e l’archiviazione di fonti sulle nuove culture della società italiana contemporanea, con adeguato supporto tecnico-scientifico ai fini di tutela e valorizzazione del patrimonio di memorie ‘altre’ come parte della memoria multiculturale del Paese” (Accordo di collaborazione RAMM 2015).
Il significato di questa operazione è principalmente quello di inserire nella memoria dello Stato contronarrazioni, storie di subalternità oscurate dalla comunicazione massmediatica, racconti di persone che si muovono anche contro le politiche e la violenza degli Stati. È l’inserimento di uno spazio critico fatto di memorie storiche discrepanti e trans-nazionali all’interno del discorso nazionalistico che tradizionalmente vede il patrimonio culturale come un segno identitario omogeneo.
Un altro caso interessante di archiviazione di memorie e racconti dei processi migratori è il sito web storiemigranti.org coordinato da Federica Sossi. Il gruppo promotore di questo tipo di salvaguardia è la comunità scientifica, composta da docenti universitari, ricercatori e dottorandi di varie discipline che vogliono rivolgersi in particolare al mondo scientifico. Si tratta di un archivio digitale che parte anche in questo caso dal racconto autobiografico o partecipativo della migrazione. “Una storia delle migrazioni attraverso i racconti dei migranti”. Così viene descritto il progetto nella homepage del sito di archiviazione: “Storie Migranti è un archivio di storie di migrazione, una storia del nostro presente attraverso i racconti dei/delle migranti. Non un sito di dibattito sulle migrazioni ma un luogo in cui depositare esperienze dirette di migrazione. La redazione è impegnata nella raccolta di questi racconti e nella loro diffusione”. Un archivio digitale che raccoglie interviste, immagini e video, racconti narrati in prima persona o attraverso la voce dei redattori, e raggruppati in base al continente in cui le storie sono state raccolte[13].
Anche l’Archivio Diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano negli ultimi anni ha cominciato ad aggiungere alle sue autobiografie alcuni “diari migranti”. In particolare con i progetti Culture in movimento. Storia e memoria dei nativi e dei migranti, nato nel 2000 da occasioni di confronto sui temi della memoria, della storia, della scrittura e della parola; e Voci migranti, un percorso avviato nel 2009 che aveva l’obiettivo di aprire lo storico archivio a nuovi linguaggi, intesi sia come voci provenienti da contesti storici e culturali altri rispetto all’Italia, sia come mezzi di espressione e di narrazione alternativi alla scrittura, nel rispetto degli obiettivi fondativi dell’archivio, ovvero l’auto-narrazione e la biografia. È da questi due percorsi paralleli che nel 2014 è nata l’idea di un fondo speciale dedicato esclusivamente ai racconti autobiografici di persone di origine “non italiana” sottoforma di video, immagini, audio, cartoline, perfino Power Point. Si tratta del progetto DIMMI – Diari Multimediali Migranti, finanziato dalla Regione Toscana, che attualmente è in corso di rielaborazione e che in futuro vorrebbe allargarsi a tutto il territorio nazionale.

Esperienze museali
A Camigliatello Silano in provincia di Cosenza è stato inaugurato nel 2005 il museo La Nave della Sila. Un “Museo Narrante” dedicato all’emigrazione calabrese, che attra- verso l’allestimento ha voluto creare un legame con l’immigrazione di oggi. Con l’apertura della sezione “Mare Madre”, allestita in un container esterno alla struttura museale, il pubblico può “immergersi” in un racconto audiovisivo fatto di voci ed immagini che presentano alcuni aspetti storici dell’immigrazione in Italia, attraverso il punto di vista dei migranti. La storia inizia l’8 agosto 1991, quando la nave Vlora approda al porto di Bari, e prosegue con alcuni estratti del film Come un uomo sulla terra (Biadene – Segre – Yimer 2008), immagini girate dalla Guardia Costiera e alcuni video della RAI, uniti in un’unica installazione audiovisiva guidata dalla voce dello scrittore Erri De Luca, da voci mescolate di migranti, dal racconto di Dagmawi Yimer. Un’installazione immersiva che si concentra sull’aspetto tragico della migrazione, quella dei viaggi attraverso il deserto e il mare, dei CIE e dei campi di Rosarno.
Un’altra realtà museale che ha affrontato il tema, anche in questo caso collegando l’emigrazione italiana all’immigrazione odierna in una continuità storica apparentemente unica ed universale, à il Galata Museo del Mare di Genova. La migrazione di cittadini di origine straniera, in una sezione aperta nel giugno del 2016 intitolata “Italiano sono anch’io”, viene raccontata attraverso dati, interviste e testimonianze, con l’intento di sfatare e superare alcuni luoghi comuni che si coagulano intorno al tema a partire da definizioni teoriche e temi chiave[14]. Lo staff del museo ha inoltre raccolto alcune video-interviste fatte a cittadini immigrati residenti a Genova, e conservate in un archivio intitolato “Memoria Migrante”. Seppure il tentativo dichiarato sia quello di “avere racconti in prima persona”, emerge prevalentemente il punto di vista dei ‘non migranti’, uno sguardo esterno al fenomeno nel quale gli intervistati rispondono a domande standardizzate con risposte altrettanto convenzionali[15].

Lampedusa
L’idea di creare uno spazio museale/espositivo dove radunare gli “oggetti dei migranti” arrivati dal mare o finiti nella discarica di Lampedusa è nata dalle sperimentazioni dell’artista locale Giacomo Sferlazzo nel 2005[16]. Il progetto si rafforza con la formazione del collettivo Askavusa, nato nel 2009 per opporsi all’apertura di un CIE e contro la militarizzazione dell’isola, con l’iniziale collaborazione del Comune di Lampedusa e Linosa e altre realtà nazionali ed europee attive nel campo della migrazione. Una prima esposizione dei materiali si è avuta nel 2013 con la mostra Con gli oggetti dei migranti, nell’ambito del progetto “Museo e centro di documentazione sulle migrazioni a Lampedusa” avviato in collaborazione con altre realtà, tra cui l’Associazione Isole, l’Archivio delle memorie migranti e il Comune di Lampedusa (Mosca Mondadori – Cacciatore – Triulzi 2014; Gatta – Muzzopappa 2013). Oggi, in seguito a una riflessione interna al gruppo che ha portato all’interruzione di quel progetto[17], gli oggetti sono raccolti in PortoM, uno spazio espositivo gestito autonomamente dal collettivo Askavusa, il quale si è dichiarato contrario a qualsiasi genere di allestimento museale ufficiale che preveda catalogazione, restauro e conservazione degli “oggetti dei migranti”. Unico obiettivo del gruppo è quello di esporre gli oggetti, affidandoli ad una lettura filtrata dallo sguardo e dall’esperienza artistica. Infatti una parte di PortoM è dedicata ed aperta ad artisti, che possono intervenire su alcuni “oggetti dei migranti” raccolti per creare, riassemblandoli in nuove forme, opere d’arte. Fotografie, legni delle barche, documenti, pagine di bibbie e corani sono trasformati in opere autoriali che finiscono per parlare molto dell’artista che le ha create e meno delle persone che un tempo possedevano quegli oggetti.
In un percorso diametralmente opposto rispetto al progetto dell’associazione Askavusa, la recente esposizione intitolata Museo della Fiducia e del Dialogo per il Mediterraneo[18] è stata sostenuta da MiBACT, Regione Sicilia e Comune di Lampedusa e Linosa da una parte, e da Comitato 3 ottobre[19], associazione First Social Life e Fondazione Falcone dall’altra. La mostra, inaugurata in pompa magna dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha esposto un patrimonio culturale di beni storico artistici ed archeologici, prestati da istituzioni museali quali gli Uffizi, il Museo del Bardo di Tunisi e il Museo delle civiltà dell’Europa e del Mediterraneo di Marsiglia, affiancato ad alcuni oggetti dei migranti recuperati dalle forze dell’ordine. Il progetto espositivo descrive la “Cultura”, intesa nella sua accezione di Belle Arti, come un “elemento essenziale per diffondere i valori della tolleranza, del dialogo e della comprensione reciproca”[20], finendo per riproporre la stessa ideologia e rappresentazione mainstream che guarda ai processi migratori come percorsi desoggettivati.

Riflessioni
Se è vero che il patrimonio culturale è uno spazio politico (Palumbo 2009; 2011) e una sfida per la formazione delle identità (Skounti 2011), il riconoscimento e la salvaguardia di un ‘patrimonio culturale migrante’, che parla di spaesamento, di migrazione come “fatto sociale totale” (Sayad 1999), di controstorie transnazionali, rappresenta una sfida sia culturale sia politica; vuol dire riconoscere finalmente l’esistenza di comunità migranti, anche diasporiche, attive e con obiettivi eterogenei, prospettive e proiezioni verso il futuro, che vivono entro specifici spazi locali, ma allo stesso tempo li superano grazie a panorami immaginativi globali (Appadurai 2012). Si tratta di un patrimonio culturale che sembra creare un cortocircuito epistemologico all’interno della memoria storica e culturale nazionale e nelle politiche di salvaguardia ufficiali, che desoggettivizzano e appiattiscono i soggetti ‘altri’ in identità omogenee.
Tuttavia i rischi di essenzializzazione nei processi di patrimonializzazione sono ineludibili (Palumbo 2009). Inoltre, ci si può chiedere quanto sia alto il rischio di spegnere, metaforicamente, la ‘scintilla illuminante’ che accompagna storie alternative e contro-narrazioni quando vengono fissate in un riconosciuto e pubblico patrimonio culturale. Certamente è un rischio da non sottovalutare, che richiede un posizionamento teorico, metodologico e d’azione chiaro dal quale partire. L’auspicio è che si cominci da uno spazio dialogico in cui persone che hanno vissuto in prima persona la migrazione possano autorappresentarsi ridando senso alle proprie esperienze[21].
Dovrebbe essere chiaro che lo scopo di questi processi di patrimonializzazione non è solamente quello di ricordare e di trasmettere ricordi alle future generazioni. Nel caso di AMM lo scopo della raccolta è anche e soprattutto quello di riflettere e comprendere il presente e l’effetto che la migrazione ha sulla vita delle persone, in uno spazio di dialogo condiviso e partecipato.
Le esperienze qui presentate parlano soprattutto di collaborazioni. Non solo comunità di migranti ma anche gruppi di persone, con un alto livello di preparazione teorica, che ‘accompagnano’ e ‘traducono’ questi nuovi percorsi. Prevalentemente antropologi, storici, sociologi e psicologi impegnati in metodi innovativi, sia dal punto di vista tecnico sia metodologico, per conservare tracce del presente da trasformare in una Storia per i posteri. Metodi che possano restituire tracce di esperienze, posizionamenti soggettivi e di ricerca di senso nei luoghi di oggi. Storie di persone, di punti di vista “altri”, nati da esperienze dirette o dalla creazione di nuovi spazi di incontro, riuniti in ar- chivi multimediali o in esposizioni museali[22].
Ci sono spinte di patrimonializzazione “dal basso”, di migranti che vogliono raccontar(si), con la consapevolezza del peso e della responsabilità che l’atto stesso della testimonianza incorpora in sé; oppure di associazioni di volontariato e di indagine sociale e culturale, composte da ricercatori, studiosi e operatori sociali che cercano di creare spazi di condivisione. Ci sono poi spinte “dall’alto”, percorsi forzati legati a élite e gruppi influenti, che si chiudono in monologhi distaccati dalle comunità interessate, rafforzando in tal modo luoghi comuni e stereotipi sul tema. Discorsi che troppo spesso vengono supportati dalle istituzioni, trasformandosi nella rappresentazione mainstream dell’immigrazione in Italia. Forse un percorso di mediazione percorribile potrebbe essere quello intrapreso con il progetto RAMM.
Si tratta di percorsi in cui è oramai riconosciuta l’esistenza di comunità di persone che si muovono non solo come corpi e “forza lavoro”, ma con nomi, storie, pensieri, progetti, “oggetti d’affezione”; un patrimonio che si sente l’esigenza di tramandare alle “comunità d’eredità” future.

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Sitografia
www.archiviomemoriemigranti.net
archiviodiari.org
askavusa.wordpress.com
www.storiemigranti.org
vocimigranti.blogspot.it
www.memoriaemigrazioni.it

Note
[1] Il presente contributo prenderà in considerazione solamente casi di patrimonializzazione che riguardano i processi di immigrazione in Italia, tuttavia si utilizzerà prevalentemente il termine “migrazione” al fine di svincolarla da riferimenti spaziali precisi.

[2] “L’eredità culturale (cultural heritage) è un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano […] come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel tempo tra popolazioni e luoghi” art. 2 comma a (Faro 2005); il Codice dei Beni Culturali e paesaggistici (2008) inserisce tra le “cose” oggetto di specifica tutela “le fotografie […] gli esemplari di opere cinematografiche, audiovisive o di sequenze di immagini in movimento, […], la cui produzione risalga ad oltre venticinque anni”, Art. 11 comma f. [corsivo mio].

[3] Per una storia della migrazione in Italia si veda Corti – Sanfilippo 2009; Pugliese 2006.

[4] Nel 2010 la rivista “Nuova Museologia” ha dedicato un numero al tema “Musei dell’immigrazione e dell’emigrazione”, nel quale si evidenzia come in Italia vi sia una “confusione fra musei veri e propri e centri di documentazione dotati di collezioni”. I musei italiani dedicati alla storia delle migrazioni sono descritti come “una tipologia recente ancora fortemente dinamica, perciò esistono molte iniziative annunciate ma non del tutto operative” (Maggi 2010: 1).

[5] Nello stesso contributo, Ngana riflette sul significato che in Italia assumono i concetti di “diaspora” e di “comunità migrante”, proponendo una differenziazione che vede la prima comunità costituita da gruppi organizzati in prospettive comuni, l’altra frammentata in uno “sparpagliamento di persone-individui privi di forza” e “in cerca di sistemazione” (cfr Munapé 2012: 51).

[6] Un esempio di questo tipo di azione è stato realizzato con il progetto Cantiere Lampedusa, il ritorno sull’isola dopo qualche anno dallo sbarco di alcuni membri di AMM viene filmato e fotografato per essere consapevolmente fissato nel momento stesso in cui avviene. Dal progetto sono nati due documentari, un foto-racconto e una mappa interattiva (cfr http:// archiviomemoriemigranti.net/ focus).

[7] Il video partecipativo, che vede tra i suoi pionieri il collaborative video di Robert Flaherty e soprattutto il cinéma vérité di Jean Rouch, è una pratica oggi sempre più diffusa da associazioni che operano nel settore della promozione sociale e culturale. Strumento di empowerment sociale e di auto-narrazione, il video partecipativo ha come scopo principale il cambiamento sociale e l’auto- rappresentazione di comunità periferiche e marginalizzate. Per un approfondimento sulla storia e la metodologia del video partecipativo si vedano in particolare Worth – Adair 1972; Balma Tivola 2014; Marano 2007; Collizzolli 2009.

[8] Per la storia e le attività svolte dall’associazione si veda Triulzi 2012; 2014.

[9] Durante una mia intervista a Dagmawi Yimer, egli sostiene di voler “usare la telecamera per poter raccontare”. Il suo percorso di avvicinamento al cinema, con qualche sporadico episodio di videoriprese in Etiopia ma giunto a compimento in Italia, è nato da un’esigenza che egli racconta così: “Prima della passione [per il cinema], c’era l’esigenza di usare quello strumento [la telecamera]. L’esigenza di raccontare. L’esigenza di dire le cose nostre, no? Dell’immigrazione” (Verona, 12.10.2013 in Guerini 2013).

[10] In un’intervista in cui domando a Zakaria Mohamed Ali qual è il significato che attribuisce al racconto egli spiega: “Per me raccontare significa rendere visibile. Rendere visibile e dire a tutti. […] rendere visibili le motivazioni per cui scappiamo, la realtà […] Quando hai delle cose che tieni nel buio, dentro di te, non hai niente. Quando invece le tiri fuori… fa bene parlare no? Dire quello che si pensa. Come se ti stai togliendo qualcosa che hai dentro, sulla tua pelle… qualcosa che ti rimarrà per sempre, ma che cerchi di condividere”. (Roma, 20.12.2013 in Guerini 2013).

[11] Il Circolo Gianni Bosio in particolare con il progetto “Roma Forestiera”, sulle musiche dei migranti in Italia.

[12] I materiali saranno depositati presso l’ICBSA, secondo una convenzione tra i partner, nella quale sono stabiliti criteri di accessibilità che hanno l’obiettivo di tutelare i testimoni delle narrazioni, in certi casi richiedenti asilo o migranti privi di documenti.

[13] Il sito raccoglie storie a partire dal 2007; attualmente risulta essere fermo al 2015 (www.storiemigranti.org).

[14] Il percorso è scandito da: “Storie di popoli in fuga”, “I nuovi italiani a scuola”, “Genova, in un giorno”, “La casa e la famiglia”, “Cucina e la migrazione del gusto”.

[15] Una sperimentazione innovativa nelle sue premesse e obiettivi, che si avvicina ai casi qui analizzati, è quella avviata dal Museo Pigorini con il progetto europeo READ-ME. Il museo ha coinvolto alcune associazioni romane di cittadini di origine migrante per ripensare le proprie collezioni in chiave dialogica e in una prospettiva di audience development. I migranti, pensati come “comunità della diaspora”, hanno “filtrato” gli oggetti del museo attraverso il loro sguardo soggettivo e la loro esperienza biografica, all’interno di un museo pensato come “zona di contatto” in cui “le diaspore possono trovare aggregazione ed espressione” (cfr. Munapé 2012). Parte di questa esperienza è poi confluita nel progetto “Al museo con… Patrimoni narrati per musei accoglienti”. Similarmente, la Pinacoteca di Brera ha cercato nuovi modi di comunicare le proprie collezioni in una prospettiva interculturale.

[16] Sul blog del collettivo Askavusa, Giacomo Sferlazzo ha tracciato un resoconto delle tappe che hanno portato allo spazio espositivo attuale. Si veda https:// askavusa.wordpress.com/con- gli-oggetti/

[17] Il percorso che ha portato il collettivo a rinunciare a qualsiasi tipo di collaborazione è legato all’interpretazione che il gruppo attribuisce all’istituzione museale. Il museo e le sue pratiche sono viste unicamente come “trappola” per gli oggetti, il quale li sottrae alla trasformazione che è loro connaturata. Per Askavusa il semplice gesto di “salvare” questi oggetti dalla distruzione coincide con una forma di conservazione e di memoria. Per un’analisi critica in chiave antropologica e dall’interno di questa frattura (cfr. Gatta 2016).

[18] Al centro dell’attenzione mediatica “l’Amorino dormiente” dipinto a Malta da Caravaggio, a ricordare le morti in mare di bambini “come Aylan”.

[19] Il Comitato del 3 ottobre è nato in seguito al naufragio del 2013 nel quale morirono 368 persone, prevalentemente eritrei; mirava all’istituzione di una “Giornata della Memoria e dell’Accoglienza”, poi riconosciuta in Senato nel marzo del 2016, come momento di commemorazione e di riflessione sul fenomeno della migrazione.

[20] Il progetto è descritto sul sito della Direzione generale Musei del MiBACT http://musei.beniculturali.it/ attivita/progetti.

[21] Spazi di auto- rappresentazione sono nati nella letteratura cosiddetta migrante, e negli ultimi anni anche nel cinema, nella fotografia e nell’arte più in generale. In questa stessa prospettiva la creazione di un patrimonio culturale migrante potrebbe forse diventare un nuovo spazio di posizionamento politico e culturale.

[22] Recentemente, e come conseguenza degli imponenti arrivi di richiedenti asilo che giungono in Europa passando per l’Italia, sembra che qualcosa si stia muovendo negli interstizi delle istituzioni nazionali verso azioni di informazione e sensibilizzazione sul tema. In questo senso sono nati alcuni bandi come il “MigrArti” per il cinema e lo spettacolo dal vivo del MiBACT e diversi progetti del MIUR per favorire percorsi di educazione interculturale nelle scuole.

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Africani in Italia: la memoria e l’archivio

di Alessandro Triulzi
(in Meridione, n. 2, aprile-giugno 2010, p. 30-50)

Alla fine raccontò M [Menghistu], un giovane amarico, da molti anni in Italia e già studente d’ingegneria a Roma: La mattina dopo il mio arrivo nel carcere di Palermo bussai alla porta perché volevo il sottocapo. Una guardia si affacciò allo sportello e appena mi vide: ‘O Santa Rosalia’ esclamò? Mandarmi pure chiste cà, ora! … Nu negro…’ ‘Ho bisogno urgente’ gli spiegai ‘di parlare col sottocapo. Me lo chiami per favore’. Ma quello mi guardava scuotendo la testa: ‘Ecchi  o’ capisci iddu?’ ‘Ma io parlo bene l’italiano’, insistei ‘desidero parlar subito col sottocapo’. Macché! Allora si era messo in testa che dovevo parlare moresco, e a tutte le mie spiegazioni non sapeva replicare altro che: ‘Ecchi o’ capisci iddu? Oh Bedda Madre! O Santa Rosalia! Ecchi o’ capisci iddu?’ E alla fine si decise a chiamare un’altra guardia: ‘Vieni a’ccà. Vidi tu siddu poi capire a chisti cristianu.’ Quello era più sveglio. Si affacciò allo sportello: ‘Cosa volere? Dire pure […]’ ‘Avrei bisogno urgente di parlare al sottocapo’, ripetei. ‘Fesso’ fece allora quello rivolto al collega ‘Ma non senti che parla italiano meglio di te?’, ‘Davvero? Oh Santa Rosalia! […]’ E solo da quel momento, come se gli si fossero sturati gli orecchi, riuscì a riconoscere nella mia voce delle parole corrispondenti alla lingua sentita tutti i giorni.

(Da una lettera di Ernesto Rossi a sua madre, 14 settembre 1940, Miserie e splendori del confino di polizia. Lettere da Ventotene 1939/1943, Milano 1981, p. 78)

Tra Africa e Mediterraneo molte sono state le frequentazioni e gli attraversamenti. Uomini, donne, idee, correnti di pensiero, forme di  dominio e di sudditanza si sono incrociate nel tempo costruendo reti di rapporti e di appartenenze,  e lasciando strascichi di memorie e violenze che oggi si innestano in nuovi razzismi, nostalgie, respingimenti. Da Sant’Agostino a Leone l’Africano, alias Hassan al-Wazzan, l’erudito musulmano fatto schiavo da pirati cristiani e ‘convertito’ al cattolicesimo da papa Leone X nel 1520 [1], le presenze africane in terra europea, e più in particolare nella nostra penisola,  hanno una loro storia di permanenze e interazioni  che sono state lette, fino a tempi recenti, come temporanee e occasionali. La storia di queste presenze africane in Italia, in particolare nel suo meridione, non è stata ancora studiata con continuità e determinazione in una società, come la nostra, che continua a ritenersi, e a rappresentarsi, più luogo di espatri che di accoglienze, senza conservazione o memoria di fatti e presenze al di là della cronaca immediata.
I recenti flussi migratori e la presenza in Italia di gruppi di  lavoratori, rifugiati e richiedenti asilo provenienti dal continente africano, figli di africani e di coppie miste, nonché di ex-sudditi coloniali in cerca di una via di fuga dalla postcolonia, hanno riaperto la strada di antichi percorsi e collegamenti, ma anche di memorie e immaginari che vanno ben oltre le odierne paure e insicurezze, accompagnate come sono dall’eredità non piccola dei passati rapporti di dominazione coloniale. In questo intervento vorrei brevemente ricordare alcuni passaggi e presenze africane significative nel nostro paese in età contemporanea, per sottolineare l’importanza di questi lasciti di umanità a contatto, se non condivisa, sul suolo patrio e stimolare, spero, una  più meditata considerazione dei reciproci riconoscimenti necessari ad alimentare il nostro vissuto quotidiano nell’era della c.d ‘mondializzazione’.

Dall’Africa al Mediterraneo: viaggi, voci, memorie        

Vorrei cominciare da Loransiyos Walda Iyasus, un anziano e sconosciuto informatore etiopico, trasportato insieme ad altri ascari dalla Libia all’ospedale militare di  Napoli durante il primo conflitto mondiale. Fu Loransiyos ad affidare le sue straordinarie conoscenze di storia delle popolazioni oromo dell’Etiopia occidentale a Enrico Cerulli,  allora studente di lingue semitiche all’Istituto Orientale di Napoli che si rivelerà presto, anche in seguito a questa pubblicazione, tra i più grandi etiopisti italiani del secolo scorso. Cerulli ebbe una folgorante carriera pubblica e di studi, e nel 1937, a soli trentanove anni, fu nominato Vice-Governatore Generale dell’Africa Orientale Italiana. Fu a causa del ruolo di governo avuto nell’occupazione fascista dell’Etiopia che lo studioso non ottenne mai la cattedra di lingue semitiche cui aspirava presso l’Università di Roma. Ciò non gli impedì tuttavia di avere nel dopoguerra una illustre carriera di diplomatico e di studioso di fama internazionale, coronata dalla sua nomina a  Vice-Presidente dell’Accademia dei Lincei, carica che tenne fino alla scomparsa avvenuta nel 1988 [2].
Sappiamo poco invece di Loransiyos, l’ascaro eritreo ‘d’oltre confine’ che fu principale informatore dei testi di Cerulli. Loransiyos aveva combattuto tutta la sua vita nelle lotte interne del suo paese prima di venire arruolato dagli italiani tra i battaglioni eritrei stanziati allora in Tripolitania e Cirenaica. Fu Loransiyos, da un letto di ospedale, a rivelare a Enrico Cerulli, allora appena diciottenne, i canti, le cronache e i testi orali in lingua oromo che il giovane studioso tradusse e commentò con il suo aiuto, e anni dopo editò nella prestigiosa serie africana dell’Università di Harvard con il titolo Folk-Literature of the Galla of Southern Abyssinia (Harvard 1922) [3]. Loransiyos era uno dei tanti ascari non eritrei  arruolati in colonia che provenivano dalle terre ‘d’oltre confine’, cioè dalla vicina Etiopia, per far fronte alle crescenti esigenze di reclute indigene di cui  l’Italia necessitava per il controllo dei suoi possedimenti coloniali [4]. Originario dello Shoa, Loransiyos aveva percorso in lungo e largo le province del sudovest etiopico al servizio di vari capi locali prima di arruolarsi tra le truppe anglo-egiziane del vicino Sudan e poi in quelle del governo italiano di Asmara.  Inviato a combattere in Libia, Loransiyos viene ferito o si ammala gravemente (nulla sappiamo a riguardo) ed è trasportato all’ospedale militare di Napoli per venirvi curato.
Qui incontra lo studioso napoletano, allora giovane studente dell’Orientale. Enrico Cerulli,  ricorderà l’orientalista Giorgio Levi della Vida, “aveva già studiato a fondo, col valente Prof. Francesco Gallina, lingue semitiche di Etiopia e aveva imparato da sé quelle cuscitiche”. Nel ricordare  “quel sedicenne fanciullo prodigio dallo sguardo pensoso e dalla capigliatura folta (forse non mi crederete, ma era così…)”,  continua Levi Della Vida, “[egli] frequentava assiduamente l’Ospedale militare di Napoli per intervistarvi gli ascari eritrei e somali convalescenti di ferite toccate in Libia, e si faceva dettare da loro, in quattro o cinque idiomi diversi, testi di ogni sorta: poetici, storici, giuridici” [5]. Da quel fortuito incontro in un ospedale di Napoli, è nata la prima raccolta sistematica di testi oromo raccolti dalla viva voce di un ‘peasant intellectual’ del tempo [6]. Scrive Cerulli nella sua Introduzione alla Folk-Literature: “Da lui [Loransiyos] ho raccolto quasi tutti i testi di questo volume. E’ un uomo in là negli anni, fidato, di valore, fonte unica di informazione sui paesi Galla [Oromo]. Conosce de visu posti e personaggi;  e durante la sua vita avventurosa ha partecipato ai principali eventi storici di quei paesi negli ultimi trent’anni” [7]. Affidandosi alla prodigiosa memoria di Loransiyos  (il refrain “Loransiyos tells me” accompagna quasi ogni pagina della Folk-Literature), Cerulli trascrive e compone a Napoli il primo corpus sistematico di fonti oromo raccolte da informanti e testimoni degli eventi del tempo.
È questo il primo punctum [8] che vorrei qui sottolineare: le memorie ‘migrano’ insieme ai corpi che le custodiscono, e a volte solo il caso o la grande determinazione ci permette di intercettarle o di registrarle come è stato l’incontro fortuito tra Cerulli e Loransiyos. Nelle corsie dell’ospedale militare di Napoli, nel corso della prima guerra mondiale, avviene una curiosa inversione del consueto paradigma di indagine etnografica: qui lo studioso occidentale non si reca in un lontano ‘terreno’, tra genti altre, per compiere ‘osservazione partecipante’, ma è il sapere storico di un gruppo, quello degli Abichu oromo dell’Etiopia occidentale, che si incarna in un informatore indigeno accidentalmente trasportato in Italia a causa del servizio militare in Libia e viene intercettato dal ricercatore in una corsia di ospedale, un ambiente inaspettato ed estraneo alla ricerca etnografica.
Torneremo più tardi su questa aporia e sulle sue conseguenze per l’Italia di oggi, il ‘paese che non c’è’ per l’accoglienza ai migranti. Vorrei prima ricordare che è ancora a Napoli, sotto il patrocinio di Francesco Gallina, che va registrato un altro passaggio importante nel graduale iter storico di formazione dell’Italia  multiculturale: la nascita a Napoli a inizio secolo, presso il lettorato di lingua amarica dell’Orientale, della  letteratura etiopica moderna attraverso la composizione e stampa del primo romanzo etiopico, Lebb wallad tarik. La ‘storia che viene dal cuore’ viene pubblicata a Roma nel 1908 dall’erudito etiopico, Afä-Wärq Gäbrä-Iyasus (1868-1947), allora assistente di lingua amarica presso l’Istituto Orientale di Napoli [9]. Il titolo stesso del romanzo, ‘storia immaginaria’, da allora è diventato il termine amarico comunemente impiegato per designare il ‘romanzo di finzione’ in Etiopia. Il nuovo genere letterario, che Afä-Wärq inaugura agli inizi del secolo scorso innovando la lunga tradizione scritta del suo paese [10], si sarebbe innestato più tardi nella tradizione orale dell’Etiopia trovando a Napoli un fluido terreno di contatto e di incontro tra studiosi italiani ed etiopici che si sarebbe presto interrotto. È nel clima culturale dell’Italia liberale, forse paternalista ma non ancora totalitaria, che si snodano i primi rapporti, sia pure individuali, di conoscenza e di ibridità interculturale da cui entrambi i portatori di differenze traggono linfa per imparare e beneficiare gli uni dagli altri senza paure e ossessioni per la propria identità o sicurezza.
E qui abbiamo un secondo punctum su cui riflettere: l’apertura a incroci e attraversamenti culturali e al mutuo riconoscimento dell’altro derivano dal contesto politico-culturale non meno che dalle reali occasioni di incontro. Se è in Italia che viene scritto agli inizi del secolo scorso il primo romanzo etiopico moderno in lingua amarica, è ancora in Italia, cento anni dopo, che attraverso la penna di scrittori africani figli di matrimoni misti e di italiani c.d. di ‘seconda generazione’, nasce la prima letteratura italofona scritta da non italiani, spesso figli di quei sudditi e di quelle ibridità respinte su cui l’Italia ha costruito il suo impero e che oggi ha difficoltà a riconoscere come compartecipi dell’universo nazionale di creatività e di conoscenze [11]. Regina di fiori e di perle di Gabriella Ghermandi (2007), figlia di un italiano e di una donna etiope, è il romanzo che più di ogni altro inaugura ai giorni nostri la nuova stagione dei necessari reciproci riconoscimenti e memorie.
A differenza di Francia e Inghilterra, dove letterature di riconoscimento dell’altro coloniale nascono all’interno e durante la costruzione dell’impero d’oltremare alimentando in quei paesi un vigoroso dibattito politico-letterario sulla condizione postcoloniale [12], in Italia la prima letteratura italofona scritta da non italiani nasce e si afferma sessanta anni dopo la fine delle colonie, nelle pieghe del rimosso italiano sulla questione coloniale e delle nostalgie e silenzi sulla sua ambigua eredità [13]. “Allora prometti davanti alla Madonna dell’icona – dice il vecchio Yacob abbracciando la nipotina Mahlet prima che cresca e parta per l’Italia –  Quando sarai grande scriverai la mia storia, la storia di quegli anni e la porterai nel paese degli italiani, per non dare loro la possibilità di scordare” [14]. Così la giovane scrittrice italo-etiope Gabriella Ghermandi, nata a Addis Abeba e residente a Bologna, a sessanta anni dal Trattato di Pace con cui l’Italia rinuncia alle sue colonie, riannoda l’esile trama di memoria che lega il passato comune dei due paesi e ne rivela la mappa delle ‘incrinature’.
Tra queste primeggia, come è ovvio, l’occupazione italiana dell’Etiopia (1935-1941) voluta dal regime fascista. In quegli anni, cambiano non solo i rapporti di potere, ma gli animi, i valori, le aspettative di comportamento nei confronti dell’Africa e degli africani. A metà degli anni Trenta, il Fascismo è al massimo del suo potere. L’Italia ha il suo impero. A partire dal 1937, vengono emanate ed entrano in vigore le leggi razziali. Il sovrano al Quirinale ha il titolo di re d’Italia e imperatore d’Etiopia. In questo periodo le presenze africane nel nostro paese si fanno più rare, ridotte come sono a pura valenza di manovalanza. Un primo ‘censimento delle genti di colore residenti in Italia’ redatto nel 1938 include solo 29 soggetti provenienti dall’Africa orientale perlopiù impiegati con mansioni di basso livello, autisti, facchini, o come domestici in case benestanti [15]. Anche la presenza di truppe indigene sul suolo metropolitano si fa ora più rarefatta e discreta, e viene per lo più usata in occasioni di rappresentanza o rituali militari. Ascari piumati vengono portati in Italia per cerimonie e cambi di guardia, ma solo per ricordare ai suoi cittadini che l’impero c’è e dà prestigio alla nazione. A causa delle leggi razziali, studenti e intellettuali africani non vengono più come in passato. Gli africani più vicini a noi si chiamano ascari e sono stanziati in Libia, un paese presidiato da truppe indigene eritree e da dubat somali; vengono in Italia solo raramente, e solo in visita o in congedo. In Italia si vedono molte camicie, ma poche facce nere.
Anzi, il soggiorno in Italia è vietato alle truppe indigene di stanza fuori dal loro paese se non per ragioni di servizio, e i contatti di parità, di confidenza o di intimità tra razze diverse che pure si erano avuti individualmente in passato sono ora proibiti per ragioni di ‘prestigio’ e ‘difesa’ della razza bianca. Già nel 1923 il Governatore dell’Eritrea, Gasparini, rileva a proposito del ‘congedamento’ in Libia di due ascari eritrei di non approvare tale procedura ‘come ogni altra forma di emigrazione dei sudditi eritrei’ verso altre colonie o in Italia. Il Governatore si mostra assai preoccupato di favorire qualsiasi forma di fuoriuscita dalla colonia sostenendo che fuori di questo ambiente, l’eritreo perde rapidamente quelle buone qualità di indole e di morale, che sono generalmente la sua caratteristica, mentre a contatto di altri popoli tende ad acquistarne altrettanto rapidamente le qualità negative che costituiscono poi fermenti pericolosi, quando un giorno o l’altro tornasse qui. (…) Gli indigeni eritrei sono già per se stessi animati da naturale irrequietezza e spirito di avventura che li spinge ad allontanarsi da questa colonia anche clandestinamente (…) Non è pertanto il caso di favorire questa naturale tendenza emigratoria nei sudditi eritrei che si risolve in un danno economico sociale e politico [16].
Ma c’è un altro motivo, più politico, che sconsiglia la ‘tendenza emigratoria’ verso nord dei sudditi neri dell’AOI. Più volte il Comando delle Truppe Indigene di Asmara ha rilevato i pericoli di una lunga permanenza degli ascari eritrei in Libia “a contatto d’altra gente di colore cui viene elargita la qualifica di cittadini italiani” attivando “germi di scontento e quindi di indisciplina e di disamore dal servizio” negli indigeni che spesso “ritornano vanitosi, spenderecci e cominciano ad essere imbevuti di ‘idee moderne’ circa i diritti civili e politici, come quelli riconosciuti agli indigeni della Cirenaica e della Tripolitania” [17].
È bene ricordare questi squarci inediti sulla ‘irrequietezza e spirito di avventura’ dei giovani eritrei arruolati nelle truppe coloniali, e sulla disparità di trattamento tra i vari possedimenti  coloniali dell’Italia. Inviando truppe indigene con minori diritti e maggiore capacità di dissuasione in Libia, una terra di forte resistenza all’occupazione italiana, gli ascari eritrei, così come quelli ‘d’oltre confine’, erano di fatto chiamati ad assicurare il controllo e la repressione della dissidenza armata di gruppi e popolazioni considerate a loro superiori, creando così potenziali ‘germi di scontento’ e lasciti di diffidenza e rancore negli uni e negli altri. Questi lasciti di diffidenza e rancore coloniale nei confronti dei sudditi sub-sahariani a sud del deserto libico si incrociano con altri lasciti di più lunga durata lungo le rotte dell’antico traffico degli schiavi attraverso il Sahara. Questo commercio ha lasciato negli animi e negli immaginari collettivi impronte non facilmente cancellabili, impronte e incrinature che si ritrovano oggi negli stereotipi e pregiudizi anti-neri riscontrati dai migranti sub-sahariani che ripercorrono le stesse rotte forzate del passato [18].
È nel clima di guerra che accompagna l’occupazione dell’Etiopia, mentre in colonia vengono applicate le leggi razziali [19] e in Italia vengono internati i notabili amhara  arrestati a Addis Abeba dopo l’attentato a Rodolfo Graziani del 19 febbraio 1937 [20], che incontriamo due anomale presenze africane nel nostro paese. Esse esemplificano il cambiamento dei tempi e delle nuove rappresentazioni sull’alterità coloniale che si vanno delineando nell’Italia fascista. I protagonisti sono due giovani sudditi eritrei,  Menghistu Isahac e Zeray Deres; a metà degli anni Trenta, entrambi si trovano in Italia per motivi di studio e di lavoro. Menghistu è uno studente di religione protestante erede di una famiglia cosmopolita di tendenze colte e liberali. Suo nonno, Tewolde Medhin, è stato il primo traduttore del Nuovo Testamento in lingua tigré e tigrinya presso la Missione protestante svedese in Eritrea e ha collaborato alle ricerche del grande etiopista italiano Carlo Conti Rossini. Figlio di un agiato coltivatore di caffè, Menghistu viene inviato in Italia a terminare i suoi studi nel 1928, e si iscrive l’anno seguente alla Facoltà di Ingegneria di Roma [21].  Zeray Deres è un giovane convertito cattolico che ha studiato nelle scuole italiane della colonia, parla correntemente l’italiano, ed è assegnato dal Ministero delle Colonie a fare da interprete per i notabili etiopici internati in Italia. Zeray arriva a Roma nell’estate del 1937 al loro seguito [22].
È in questo clima condito da slogan razzisti e da forme di esasperato nazionalismo che accompagnano e seguono la conquista dell’Etiopia, che occorre inquadrare gli eventi che portano all’arresto dei due giovani sudditi coloniali, Menghistu e Zeray, ora residenti nella metropoli. Questi seguono gli eventi che si svolgono nella loro terra con crescente coinvolgimento e reagiscono con rabbia e senso di impotenza nei confronti delle vicende etiopiche e delle aspettative di comportamento che dovevano guidare la loro condotta di nuovi sudditi dell’ impero italiano in Africa orientale. Menghistu verrà arrestato nel febbraio 1937 per aver ‘manifestato apertamente sentimenti antitaliani’ e per essersi ‘rammarica[to] delle perdite abissine’ durante l’avanzata delle truppe italiane verso Addis Abeba. A causa di ciò, egli verrà inviato al confino per cinque anni, poi rinnovati di anno in anno fino alla liberazione, nel 1945 perché, come si legge nelle carte dell’epoca, si rifiutava  ‘reiteratamente … ad effettuare il saluto romano’ nei diversi luoghi di detenzione in cui si trovava (Palermo, Tremiti, Ustica, Ventotene), adducendo di non riconoscere “ciò che rappresenta tale saluto e di conseguenza non gli si può fare tale imposizione, in quanto limiterebbe la sua libertà morale, ove non esiste nessuna legge a limitare tale libertà” [23]. Quanto a Zeray, egli viene arrestato a Roma in Piazza dei Cinquecento nel giugno 1938, alla vigilia del suo rientro in patria, per aver  pronunciato “parole ingiuriose indirizzo Italia e Duce inneggiando negus” e per aver ferito alcuni passanti in un improvviso scatto d’ira avuto di fronte al monumento in marmo del Leone di Giuda, simbolo della monarchia etiopica. Il monumento era stato  trafugato dal regime di occupazione nella capitale etiopica appena conquistata ed era stato significativamente reinstallato a Piazza dei Cinquecento, a  Roma, la piazza che doveva ricordare agli italiani i caduti di Dogali nella prima guerra d’Africa[24]. Il gesto e le incandescenze dell’interprete etiopico furono attribuite alla mente malata di un folle, e Zeray verrà inviato in un reparto psichiatrico di un penitenziario in Sicilia dove sconterà la pena fino alla morte sopravvenuta nel luglio 1945 [25].
Ciò che colpisce di queste due ‘normali’ reazioni di cittadini africani residenti in Italia nei confronti dell’aggressione armata contro la loro terra allora indipendente, è che esse vengono trasformate dalle autorità del tempo in eventi di pubblica sicurezza e di difesa della politica coloniale del paese non disgiunta dal conclamato consenso al regime e alle sue scelte di politica estera. Gli exploit romani di Zeray e Deres accelereranno le pratiche di espulsione dal territorio patrio di presenze straniere considerate sensibili o nemiche, ivi inclusi meticci e coppie miste, gli esiti di ogni rapporto ‘di indole coniugale’ di cittadini italiani con sudditi africani residenti in Italia, e perfino gli esiliati, i deportati e i confinati di razza non bianca [26]. Rispetto a una omologazione di consensi estorti o conquistati dal governo fascista, il ‘no’ fermo di Menghistu e Zeray all’aggressione militare contro la loro terra non può non farci riflettere sull’eredità di questi gesti esemplari e l’importanza del loro lascito nella costruzione dell’Italia multiculturale di oggi.
È interessante notare inoltre che, delle due figure brevemente ricordate, una, quella di Menghistu Isahac, è caduta nell’oblio generale fino a tempi recenti pur essendo ‘il Moro’ – come veniva chiamato dai suoi compagni di confino – spesso ricordato nella memorialistica dei confinati antifascisti [27]. Menghistu rientrerà in Eritrea solo nel 1945 e non avrà migliore fortuna in patria, il suo spirito di libertà essendo in contrasto con gli eventi e i nuovi occupanti del suo paese negli anni dell’annessione etiopica (1962) e della successiva guerra di indipendenza da Addis Abeba. Rientrerà in Italia solo una volta, nel 1980, invitato dal suo vecchio compagno di confino Sandro Pertini, divenuto nel frattempo Presidente della Repubblica,  con cui ebbe un rapporto di fraterna amicizia durante i cinque anni di confino a Ventotene [28]. Intervistato anonimamente qualche anno più tardi dalla storica Irma Taddia, Menghistu ricorda di essere stato in Italia ‘un confinato politico’  e aggiunge sobriamente: “Mi ricordo bene gli italiani, ho diversi ricordi della loro presenza qui, buoni e cattivi al tempo stesso.  Anche i ricordi rispecchiano i tempi che noi passiamo” [29]. Diversa l’epopea di Zeray Deres la cui istintiva ribellione romana e  la lunga prigionia in un penitenziario criminale, ignote ai più in Italia, alimenteranno in Etiopia, alla fine della guerra, la leggenda di un eroe che, da solo, aveva sparso il terrore nella capitale resistendo al nemico invasore negli anni bui della sconfitta. Eritreo di nascita, di lingua tigrina, cattolico osservante, il mito di Zeray Deres diventa, nell’Etiopia del dopoguerra, il simbolo dell’unione della ex-colonia con la madre patria e il riscatto della provincia ribelle già italiana. Nel ricalcare l’immagine del figliol prodigo che torna alla casa del padre, Zeray è l’immagine simbolo in Etiopia di colui che si oppone da sempre all’oppressore esterno entrando di pieno diritto nel pantheon della resistenza patriottica del paese [30]. In realtà sia Menghistu che Zeray sono due giovani uomini tutto sommato pacifici che verranno travolti da eventi più grandi di loro dopo aver cercato fortuna e possibilità di crescita nell’Italia coloniale e  aver confidato nella generosità e protezione del popolo italiano e del suo governo. Alla vigilia del varo delle leggi razziali in Italia e della loro applicazione in colonia, in risposta al Corriere eritreo che auspicava l’abolizione di ogni promiscuità con gli ‘indigeni’, Zeray, firmandosi “Un indigeno” scriveva al direttore del giornale di Asmara ricordandogli che : “Gli indigeni di cui tanto schifi la presenza, molte volte si gloriarono di essere sudditi d’Italia. In Libia in Somalia e nella recente guerra contro la loro Patria, in estranei cimenti, vi fecero scudo del loro petto, e talvolta perdettero anche la vita. Io vi posso assicurare, senza incorrere in nessuna esagerazione, che gli indigeni costituirono per Voi, un mezzo di conquista. La misconoscenza a tanti meriti ed eroismi a pro dell’Italia, non può essere che di un Governo prettamente straniero ed imperiale” [31]. Internato dopo l’arresto nel manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia, Zeray protesterà a lungo ma invano la sua sanità mentale e morirà da internato nel 1945. La sua lucidità traspare dalle poche lettere ritrovate. In una lettera conservata dai familiari, del 3 dicembre 1938, scrive amaramente al fratello Tesfazien chiedendogli di rinunciare al titolo onorifico concessogli dagli italiani, e aggiunge sobriamente: “Io sto bene. Sempre sono stato e sono tuttora nelle mie facoltà mentali. Mi trovo nel Manicomio, perché così vuole la politica del governo” [32]
Menghistu e Zeray, uomini simbolo di una generazione di eritrei che avevano dato fiducia agli inizi al mandato italiano e alle sue promesse di civiltà e progresso, presto si dovranno ricredere e rimarranno ‘insabbiati’ nella melma vischiosa e burocratico-legale dell’apartheid di regime che li terrà in prigione, nel corso di otto anni Menghistu e, fino alla morte avvenuta in carcere, Zeray. Ma il processo di ‘insabbiamento’ è più ampio, e non comprende solo i due giovani eritrei imprigionati in Italia, o i molti africani detenuti nelle carceri italiane dell’impero. Esso include anche decine di migliaia di soldati italiani che, all’indomani della rioccupazione dell’Etiopia da parte delle truppe alleate, vengono imprigionati dagli inglesi e avviati verso lunghi anni di prigionia, a volte più lunghi degli anni passati sul posto come ‘colonizzatori’, in campi di reclusione prima nella stessa Etiopia e poi in Kenia, India e Sudafrica [33]. Il loro rientro nell’Italia povera del dopoguerra fu molto diverso, per umori e per disincanto, dal paese euforico che molti di loro avevano lasciato nel 1935. Anche a questo disincanto di lunga durata e senso di colpa e sconfitta si deve l’amnesia di memoria della società italiana nei confronti del passato coloniale del paese [34].
C’è infine una terza forma di ‘insabbiamento’ rappresentata da quegli italiani, non pochi, che alla fine della loro avventura coloniale non rientrarono più in patria preferendo ad essa il graduale inserimento nei luoghi di adozione, soprattutto Etiopia e Eritrea, paesi tutto sommato tolleranti nei confronti dell’ex-nemico per espresso volere dell’imperatore Haile Sellassie nell’immediato dopoguerra. Con i pochi soldi guadagnati in servizio o tramite l’economia informale dei commerci e delle prebende che fioriva all’ombra dell’impero italiano, molti piccoli negozianti, autisti, meccanici, sarti o barbieri, molti di loro meticci, resteranno avvinghiati alla piccola officina o garage o più spesso al glorioso camion da trasporto Fiat 634, il cammello della nuova rete stradale costruita dagli occupanti, di cui erano stati autisti nell’AOI e poi nel caos disciplinato dell’Etiopia imperiale post-bellica, tollerati e protetti dagli editti speciali dell’imperatore [35]. Così, mentre in Italia etiopi e eritrei continuavano a essere trattenuti prigionieri malgrado la caduta del Fascismo, nell’Etiopia riconquistata agli italiani, alcuni nostri connazionali sfuggiti all’imprigionamento, insieme a molti figli illegali di coppie miste, decidevano di restare in Etiopia che da allora, e finché durò il regime imperiale a metà degli anni Settanta, considerarono il ‘loro’ paese [36].
Negli anni trascorsi in Etiopia occidentale, i primi anni Settanta, ne conobbi diversi nel corso delle mie ricerche nel Uollega, ai confini con il Sudan, e nel dicembre 1998 mi capitò di incontrare un loro discendente, Giorgio A. Riprendo dai miei appunti del tempo. “Oggi, sulla collina di Entotto, ex capitale reale di Menelik prima della fondazione di Addis Abeba nel 1888, mia moglie Paola ed io incontriamo Giorgio, un meccanico italo-etiopico di Dessié, che ha portato la figlia malata a bagnarsi in una fonte di acqua sorgente dotata secondo la tradizione locale, di poteri magici di guarigione. Quando lo incontriamo,  Giorgio è seduo su uno sgabello basso in legno mentre legge ad alta voce un testo sacro in lingua ge’ez. È vestito all’etiopica, ma quando si volta a parlarci lo fa in una lingua italiana dolce e senza accenti che sembra estranea a una figura pervasa fin nelle ossa di cultura e tradizione copto-ortodossa dell’Etiopia. Mentre sediamo in un giardinetto spoglio della ex-dimora di Taitu, la moglie di Menelik, Giorgio pronuncia un  lungo sfogo che lui dice di fare a noi, stranieri (ferenji), eppure vicini a lui per lingua e ricordi di un passato comune.”
Come tanti altri, Giorgio, il meccanico meticcio di Dessie, era il prodotto di quel centinaio di italiani, o forse più, che alla fine della loro avventura etiopica non tornarono indietro ma sposarono donne locali e diedero vita a personaggi-chiave della complessa eredità italiana nelle regioni dell’acrocoro etio-eritreo. I nuovi italiani, ci disse ancora Giorgio, gente delle ONG e dell’Ambasciata, guardavano dall’alto in basso questi scampoli del passato in quanto non sembravano più italiani e non  avevano né ricercavano passaporti o lasciapassare dal Consolato. Erano i figli e nipoti (lij-lijoch) di una generazione spaesata i cui padri avevano trovato in Etiopia e in Eritrea una ragione di vivere e di crearsi un futuro. Da allora ogni volta che rientravo in Etiopia, chiamandolo al telefono, si commuoveva nel sentire la mia voce e ogni volta insisteva nel portare vicino al microfono suo figlio Michele, di 11 anni, perché potesse dirmi buongiorno e pronunciare qualche frase in ‘buon italiano’.

Verso un archivio delle memorie migranti

È con queste immagini, sentimenti e percorsi di vita davanti agli occhi che, credo, ci si debba rivolgere oggi alle nuove figure di migranti, rifugiati, richiedenti asilo, titolari di vari permessi, tutti transitori, chiamati di protezione umanitaria, internazionale o sussidiaria: sono questi i nuovi ‘sudditi’ dell’Italia postcoloniale, tutti indifferentemente ‘insabbiati’ nelle prassi di (mancata) accoglienza e di (illeciti) respingimenti del governo italiano, ospiti stranieri in perenne attesa di un documento di identità, di lavoro o di soggiorno, primi embrioni di una futura cittadinanza italiana ed europea che ancora stenta ad affermarsi. La loro situazione spaesante e discriminata nel nostro paese non è di oggi, come ho cercato di mostrare, e non può non indurre a riflessioni critiche chi, come chi scrive, ha iniziato da qualche anno un faticoso percorso di ricongiungimento tra la propria attività di studioso sul terreno, i lasciti di memoria che la presenza italiana ha lasciato nei luoghi del passato dominio, e gli immaginari che gli odierni migranti provenienti da quegli stessi luoghi portano con sé nei loro percorsi migratori [37].
Nel breve spazio che mi rimane vorrei perciò soffermarmi sulla necessità sempre più pressante di registrare, conservare e ‘archiviare’ i racconti, le memorie e le testimonianze ‘migranti’ che accompagnano, seguono e ‘danno conto’ dei correnti flussi di  mobilità transnazionale nell’Italia contemporanea per dilatarne i codici di condivisione e di appartenenza e per restituire alla migrazione – nostra e loro – il senso e lo spessore di una memoria comune. Questo lavoro di mappatura e di archiviazione delle memorie migranti pare a me necessario non solo per costruire le basi di una cultura della convivenza e del riconoscimento, ma per favorire il formarsi di identità collettive necessariamente più fluide e trasgressive dei confini nazionali, un’operazione di recupero particolarmente difficile per i giovani d’Africa, e non solo, che arrivano da noi ripercorrendo le vecchie rotte e i paradigmi di subordinazione e violenza caratteristici di ogni dominazione coloniale.
Le ragioni del migrare sono, oggi come in passato, assai complesse e difficilmente scindibili. La maggior parte degli studiosi è convinta della difficoltà per non dire impossibilità di separare ragioni personali da quelle collettive, motivi economici da quelli politici, distinguere l’asilo dall’esilio, l’avventura dalla necessità [38]. I giovani che provengono dal Corno d’Africa in questo non sono differenti da quelli che fuoriescono dall’Africa occidentale o dal Congo; in ognuna di queste aree di origine, conflittualità diffusa e carenze di crescita democratica si sommano a assenza di prospettive e di orizzonti credibili di cambiamento. I giovani africani partono, come tutti i migranti da sempre, perché vi sono costretti da situazioni di invivibilità e dalla speranza di poter migliorare altrove il proprio tenore e prospettive di vita. È il futuro che spinge a migrare, non solo il presente. E il futuro immaginato, per chi viene dall’Africa sub-sahariana,  vuol dire molte cose diverse. Negli anni Cinquanta-Sessanta, voleva dire lottare per l’indipendenza e prepararsi a un continente finalmente liberato dal dominio coloniale. Negli anni Settanta e Ottanta credere nel futuro ha voluto dire per un’intera generazione di africani – dall’Angola all’Eritrea – andare al fronte e combattere a fianco di un movimento di liberazione nazionale (MLN) lottando per una forma-stato diversa e più ugualitaria di quella ereditata dalle indipendenze di facciata della prima decolonizzazione. Dagli anni Novanta in poi, mentre l’euforia per la libertà ritrovata accomunava i paesi socialisti ai paesi in via di sviluppo che man mano accedevano a sistemi più democratici, la globalizzazione e la conseguente crisi di sistema dettava i nuovi immaginari di  un futuro possibile attraverso i codici dell’emigrazione e della fuoriuscita dal proprio paese, dai boat people degli anni Ottanta ai migranti di oggi.
Da allora, crescentemente, non è più il fronte ma la frontiera a guidare i sogni di liberazione e di cambiamento di prospettive di intere generazioni di africani che cercano di dare un significato tangibile alla propria vita; sono i ‘saltatori’ di muri [39] e gli harraga, i ‘bruciatori’ di frontiera [40] i nuovi freedom fighters di oggi, quelli che bruciano i propri documenti (o i propri polpastrelli) per cancellare la fissità della propria identità e ricercarne di nuove e più flessibili, e riformularne i percorsi individuali di appartenenza. Così il viaggio migratorio oggi si trasforma in nuovo rito di passaggio generazionale all’età adulta,  quella che da sempre in Africa ha motivato la condotta e l‘onore dei giovani adulti: sposarsi, mettere su casa, fare figli, mantenere la propria famiglia [41]. Che tutto ciò provochi nei nostri governanti e nell’opinione pubblica crescenti chiusure e timori è un dato di fatto di cui occorre tenere conto, ma più per gestire e ordinare, piuttosto che bloccare o respingere, flussi migratori di donne e uomini che, come noi in passato, sono alla ricerca di un futuro migliore di quello loro riservato in patria.
Perché il viaggio dei migranti di oggi è molto altro ancora. A volte è la risposta a un disagio, prevaricazione o sofferenza non più tollerabili, altre volte è la libera volontà di muoversi, di partire, di conoscere il mondo, qualcosa che ‘ti gonfia la gola’, che ‘ha a che fare con l’aria’, come il buufis dei nomadi somali: “Bufis in italiano è gonfiare, pompare… È una cosa che come l’aria non si può prendere, non si può fermare.” Come ci hanno detto Hassan e Abubakar in uno dei cerchi narrativi di ascolto e riflessione sulle memorie migranti:  “Noi somali lo usiamo per i palloncini, quando gonfi il pallone, la ruota della macchina, fai bufis. Usando una metafora potremmo dire: gonfiare la realtà… Ma il bufis è anche la nostalgia per qualcosa che desideri e non puoi avere. È un sentimento da cui non si può guarire, un sentimento difficilmente accontentabile. E’ difficile spiegare cosa si prova quando si ha il bufis, il sentimento che più si avvicina è l’amore” [42].
In questo senso il viaggio è anche ‘avventura’, participio futuro dal latino ‘ad-venire’, arrivare, ed è  perciò metafora delle cose che arriveranno, con una forte attesa e tensione verso il futuro, ivi compreso il fatale incontro con il caso, la sorte, la consapevolezza di esporsi al rischio di un esito incerto. In tal modo il viaggio come impresa dagli esiti incerti si allinea alla forma traslata del verbo migrare che, oltre a indicare ‘il viaggio, il passaggio, lo spostamento’ viene usata fin dall’antichità nel senso traslato di “trasgredire, violare le regole, le consuetudini: communia iura migrare”, secondo Cicerone [43]. La migratio come trasgressione è dunque una metafora dello ‘sconfinamento’ tipico di ogni trasmigrante al giorno d’oggi. Nell’inglese medio dell’Oxford English Dictionary, ci ricorda Zygmunt Bauman, l’avventura “significava ciò che accade senza un piano: il caso, la ventura, la sorte. Indicava anche un evento pieno di pericoli o una minaccia di perdita: rischio, azzardo, repentaglio; un’impresa arrischiata o un gesto sventurato. In seguito, avvicinandosi all’età moderna, adventure passò a significare il mettere alla prova la propria fortuna: un’operazione o un esperimento pieni di incognite, un’impresa nuova o eccitante, mai tentata prima. Nello stesso tempo nasceva un derivato: avventuriero (adventurer, attestato per la prima volta alla fine del XV secolo), termine altamente ambiguo –scrive Bauman – commisto di fato cieco e astuzia, di scaltrezza e prudenza, di inutilità e determinazione.” E conclude: “Possiamo supporre che questi slittamenti semantici abbiano seguito la maturazione dello spirito europeo via via che faceva i conti con la sua stessa ‘essenza’ [44].
Non sono solo gli africani dunque  o i poveri della terra a ‘trasgredire’ migrando, perché la migrazione è una molla di adattamento antica quanto il mondo. Ce lo ricorda Annah Arendt, nel saggio Noi profughi del 1943, al termine di un conflitto bellico il più distruttivo in assoluto di equilibri e sicurezze dell’Europa colta e civile del tempo, ora devastata, oltre che dai morti dei bombardamenti, della guerra e del genocidio, da spostamenti e ritorni di milioni di profughi interni: “In primo luogo, non desideriamo di essere chiamati ‘profughi’. Tra di noi ci chiamiamo ‘nuovi arrivati’ o ‘immigrati’ (…) Volevamo ricostruire le nostre vite, e questo era tutto.” Ricordando la frase della Arendt, Ermanno Vitale  rileva che “l’assenza di una qualche ‘colpa’ o ragione comprensibile con chiarezza a se stessi e agli altri” rende particolarmente insopportabile la vita del migrante postbellico [45]. Essendo oggetto di una doppia esclusione, dal suo paese e da quello di accoglienza, la condizione del migrante odierno assomiglia per certi versi a quella di ogni ebreo errante, o marrano (l’ebreo che si converte a forza e si finge cristiano nella Spagna del XIV-XV secolo), il cui “unico provvisorio obiettivo non può essere che nascondersi o disconoscersi, farsi doppio e obliquo, ‘mimetizzando’ la propria non-identità e venendo così paradossalmente a coincidere con il proprio stereotipo.”  È in questa figura che Vitale intravede ‘la figura moderna del genere migrante[46], e Jacques Derrida l’arrivante assoluto:

“Se si chiama marrano, figuratamente, chiunque rimanga fedele a un segreto che non ha scelto, nel luogo stesso in cui abita, presso l’abitante o presso l’occupante, presso il primo o secondo ‘arrivante’, nel luogo stesso in  cui soggiorna senza dire no ma senza identificarsi con l’appartenenza, ebbene, nella notte senza contrario in cui, per definizione, dispone del calendario, questo segreto serba il marrano prima ancora che sia lui a serbarlo [47]“.

Di qui, per tutti noi, la sfida su come cogliere questo segreto senza forzare le coscienze, come aiutare i migranti ad aprirsi in un mondo di segni e significati a loro estranei e per lo più ostili, come farli partecipi di strutture critiche di condivisione (‘senza dire no ma senza identificarsi con l’appartenenza’) rispetto alle esperienze di vita di cui sono portatori; come ‘saltare i muri’ e forare il silenzio che circonda il loro peregrinare dentro, ma più spesso attraverso, le nostre società. Perché parlare delle memorie dei migranti vuol dire parlare e ascoltare memorie di viaggio e di violenza, immergersi nel dolore e nel riserbo di vite private spesso interrotte e sgretolate dall’esperienza del viaggio, il continuo partire e arrivare senza poter costruire e consolidare strutture del ricordo e del  riconoscimento se non in coloro che provengono dalla stessa esperienza. Come già i reduci dal fronte, dalla prigionia e dai campi di sterminio, i migranti tornano dall’esperienza della frontiera ‘ammutoliti’; la loro esperienza è indicibile perché narrarla è tornare sul vissuto e riviverlo. Senza racconto infatti, l’esperienza non può essere elaborata, si atrofizza, e scompare dal ricordo e dalla coscienza [48].
Lo storico africanista, spaesato non meno dei migranti da quanto gli succede intorno, può solo cercare di rintracciare i segni e le tracce di questi percorsi di vita favorendo l’emersione di racconti e narrazioni, e aiutando a ricostruire un contesto di ascolto che ne permetta la condivisione; mettendo cioè insieme con i soggetti deboli, pezzo per pezzo,  le narrazioni, le memorie e le testimonianze del loro faticoso migrare in modo da passare il testimone alle nuove generazioni di africani e mediterranei i cui figli domani vivranno in mezzo a noi. Queste le speranze, e le attese, dietro la difficile costruzione di un ambizioso progetto di ‘archivio delle memorie migranti’, di cui si intende qui ricordare brevemente, per grandi tratti, il percorso e le sfide.
La necessità  di misurarsi oggi con la conservazione della memoria migrante si intreccia infatti con l’urgenza, più volte riemersa in questi ultimi anni, di riavviare un dibattito pubblico sulla memoria migratoria e coloniale del nostro paese che più volte ha eluso o rimosso il proprio passato coloniale e di emigrazione [49]. Creare le basi per un archivio delle memorie migranti in Italia vuol dire dunque ricollegarsi a percorsi di memoria più ampi che includano i paesi e le popolazioni su cui l‘Italia ha esercitato il ruolo di potenza amministratrice, e incrociare tale memoria con quella postcoloniale conservata sia in Italia che nei luoghi del passato dominio. Il confronto tra queste diverse memorie appare oggi compito ineludibile.
Molte e formidabili tuttavia sono le sfide che riguardano la raccolta e l’‘archiviazione’ di tali memorie. Ne accenno solo alcune derivate da una recente esperienza di terreno [50], rinviando ad altra sede la riflessione sulla complessa questione delle ricorrenti rimozioni e cancellazioni che costituiscono, secondo Jacques Derrida, il ‘mal d’archivio’ [51]. C’è innanzitutto il problema del contesto e delle modalità di produzione delle testimonianze orali. La difficoltà di individuare un contesto di ascolto per quanto possibile depurato dagli elementi negativi che caratterizzano le condizioni di vita dei migranti non sono sconnesse dalle modalità di arrivo e del loro inserimento in Italia. Quasi tutti irregolari, in attesa di un  permesso di lavoro o di soggiorno, o di un riconoscimento di asilo politico oggi sempre più elusivo, la stragrande maggioranza degli immigrati vive alla giornata in strutture fatiscenti, in attesa di un verdetto di ammissione o di esclusione dalla comunità nazionale che arriva, se arriva, spesso dopo anni di spasmodica attesa, dinieghi, ricorsi, espulsioni e rinnovati rientri. In questo contesto di continuo spaesamento e reiterate minacce di esclusione, è difficile trovare spazi di ascolto, di fiducia reciproca, e di comunicazione reale.
Raccogliere le voci del silenzio e della paura, del dolore o della vergogna, senza rimuovere o acutizzare il trauma iniziale ma farne oggetto di narrazione-testimonianza, solleva tuttavia problemi etici, storiografici e metodologici che caratterizzano ogni testimonianza da trauma nella nostra epoca, l’era del testimone [52]. Nel caso dei migranti, ad es., come si registra l’anonimato, come si protegge chi è in fuga da governi e strumenti di esclusione nel suo e nel nostro paese, come si devono interpretare i racconti, spesso idealizzati, di chi ce l’ha fatta e quelli, non detti, dei molti che non ce l’hanno fatta? Come si può creare un archivio aperto e interattivo coniugando preservazione delle fonti e rispetto della privacy? E ancora, come si registra il silenzio, i movimenti del corpo, il sottotesto non verbalizzato, il groppo in gola? Come si trascrivono le emozioni, la paura, il riserbo, i testi non verbalizzati? [53] Sono solo alcuni esempi di una vasta tematica su cui gli storici sono chiamati a interagire. I migranti tra noi richiedono non solo diritti e cittadinanza, ma ci chiedono di dare cittadinanza alla loro storia, una storia dell’emigrazione, della diaspora, dell’asilo e dell’esilio [54] che è parte integrante della società contemporanea.
Il lavoro con i migranti introduce pertanto una serie di nuove domande – e di sfide – a cui non è facile trovare la risposta per nessuno di noi. Esso introduce e rafforza il tradizionale estraniamento del ricercatore sul terreno [55]; lo spaesamento è reciproco e cumulativo, in quanto non c’è ‘tenda’ o riparo simbolico alla Malinowski [56] che ripari l’osservatore da chi è osservato e ne sciolga le strutture straniate di comunicazione; non lo  è né per l’osservatore che non può vivere ‘in mezzo’ ai migranti ma solo visitare i luoghi artificiali che loro abitano (il centro di accoglienza, lo stabile occupato, la struttura di sostegno durante le stagioni dei raccolti. ecc.), né lo è per l’osservato (i migranti) che non hanno ‘casa’ nelle nostre città, ma solo luoghi di sosta, di identificazione, di trattenimento, di prigionia, o di sorveglianza; noi la sera possiamo ritornare a casa, loro no, sono migranti anche del, e nel quotidiano, sempre in moto, sempre a inseguire qualcosa o a essere inseguiti da qualcuno.
Di qui la difficoltà dell’ascolto di voci straniate e straniere, per quanto empatico ci sforziamo di rendere il nostro sguardo, ai nostri occhi e ai loro. L’ascolto di voci che provengono dall’esterno del proprio mondo e esprimono parole, gesti, riferimenti simbolici diversi dai propri è sempre e comunque destabilizzante, sia per chi parla che per chi ascolta. L’ascolto di voci di migranti, in particolare quelle di richiedenti asilo in attesa di ‘giudizio’ (il diniego o l’accettazione della  condizione di rifugiato nell’Italia di oggi è una vera e propria condanna o assoluzione di pena), è un ascolto filtrato, ostacolato, cifrato; c’è pertanto bisogno di una mediazione linguistica, affettiva, di attenzione e rispetto; c’è bisogno della individuazione di uno spazio comune, una condivisione di piani di discorso e di partecipazione, un lavorare non  solo tra ma con gli informanti affinché loro stessi possano diventare protagonisti delle loro storie, e siano in grado di padroneggiare gli strumenti per l’espressione di sé. E’ in questo che le scuole di italiano per migranti nel nostro paese, come la Scuola Asinitas di Roma, svolgono oggi un importante ruolo di preparazione e cura del ‘terreno di ascolto’ che deve precedere ogni raccolta sistematica di narrazioni e testimonianze [57].
Di qui anche la continua ricerca di voci diverse e articolate che coinvolgano i migranti in nuovi modi di auto-espressione (artistici, musicali, audiovisivi) e nella registrazione di desideri e bisogni collettivi così come questi si manifestano in contesti di aggregazione spontanea (come nei magazzini occupati di Tiburtina o negli stabili occupati di Roma ancora bisognosi di essere indagati a fondo), o nei percorsi migratori dei giovani del Corno d’Africa come  i ‘ragazzi di Kirkos’, un quartiere popolare di Addis Abeba, le cui inquietanti memorie di viaggio e di violenza quotidiana sono state esposte recentemente nel film Come un uomo sulla terra e nell’omonimo volume [58].
L’ambizioso progetto di registrazione e archiviazione delle memorie migranti risponde all’obiettivo primario di lasciare traccia di un vissuto collettivo di alterità in cammino e di imprenditorialità umana che si esprime nell’odierno fenomeno migratorio. Questa presa di coscienza deve necessariamente avvenire invertendo il  consueto racconto ‘nostro’ su di ‘loro’ cui ci hanno abituato la testimonianze raccolte e riscritte da autori e giornalisti che impersonano migranti o riscrivono in buon italiano le loro parole o testimonianze [59]. L’opera di testimonianza e la stessa raccolta di memorie deve essere parte di una scelta, politica e culturale a un tempo, di auto-rappresentazione, fatta cioè dai migranti stessi in prima persona; devono essere loro, più che noi, a riprendere voce, libertà e diritto di parola, a costruire discorsi e scegliere il linguaggio di espressione in una decisione di emersione che provenga innanzi tutto dal loro interno. L’Archivio delle memorie migranti vuole essere una prima risposta partecipata  e condivisa con gli stessi migranti per restituire la voce a chi non la ha, o è troppo debole o marginale per essere ascoltato, e permettere che la condizione migrante in Italia possa esprimersi in tutta la sua umana e diversificata complessità.

 

Bibliografia

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Note

[1] La non facile sopravvivenza del neo-convertito in Italia è stata rivisitata recentemente dalla medievista americana Natalie Zemon Davis 2008; cfr. anche Malouf 2002.

[2] Cfr. il necrologio a cura di Lanfranco Ricci 1988, pp. 4-19.

[3] L’opera viene stampata dall’African Department del Museo Peabody dell’Università di Harvard nel 1922; l’editore Kraus di New York ne ha fatto un reprint nel 1970.

[4] Cfr. Volterra 2005.

[5] Dal discorso di Giorgio Levi Della Vida in occasione della laurea ad honorem in Lettere  offerta a Enrico Cerulli dall’Università di Roma. Il testo dell’intervento, Omaggio ad Enrico Cerulli, è apparso su  «Oriente Moderno», ott-dic. 1963. A detta di Della Vida, la Laurea ad honorem in Lettere che l’Università La Sapienza attribuì nl 1963 a Cerulli, fu in realtà “un riconoscimento tardivo, quasi, direi,  una riparazione … della non onorevole negligenza in cui la sua altezza scientifica è stata tenuta dall’Italia ufficiale.”

[6] Cfr. Feierman1990.

[7] E. Cerulli 1922,  p. 14.

[8] Nelle sue note sulla fotografia, Roland Barthes fa notare che in ogni immagine può essere rinvenuto un punctum, normalmente ignorato, che è invece il messaggio rivelatore e chiave di volta dell’immagine fotografica. Cfr. Barthes 1980.

[9] Pittore, scrittore, uomo politico controverso per i suoi sentimenti filo-italiani, Afä-Wärq  è considerato uno dei grandi intellettuali etiopici della prima metà del XX° secolo. Inviato in Italia per compiere i suoi studi da Menelik,  come gesto distensivo all’indomani della battaglia di Dogali (1887), egli tornerà più volte nel nostro paese dove sposerà nel 1904, a Torino, Eugenia Rossi e insegnerà l’amarico per otto anni a Napoli. Rientrato prima in Eritrea e poi in Etiopia alla fine della prima guerra mondiale, viene nominato capo (naggadras) della dogana di Dire Dawa da Ras Tafari nel 1922  e incaricato d’affari con funzioni di ministro plenipotenziario a Roma nel 1932. Durante la sua carriera pubblica in Etiopia, non nasconderà mai le sue convinzioni filo-italiane che lo porteranno a collaborare con il governo italiano e le autorità fasciste nell’Etiopia occupata degli anni Trenta. Criticherà aspramente l’imperatore Hayle Sellassie per aver abbandonato il paese sconfitto, e verrà processato, condannato a morte e poi ‘graziato’ dall’Imperatore e confinato a vita nella cittadina di Gimma nel sud del paese. Sulla sua figura di intellettuale, e in sua difesa,  v. Rouaud 1991 ; sulla sua opera letteraria, cfr. Fusella 1984, pp. 1-38; sugli intellettuali etiopici, v.  Zewde 2002.

[10] Si veda, per tutti, Kane 1975.

[11] Cfr. Morosetti 2004, pp. 25-34; Palumbo 2003; Parati 1999.

[12] Cfr. Blanchard et al.  2005.

[13] Il dibattito sui limiti dell’Italia postcoloniale si è svolto soprattutto all’estero: Cfr. Andall & Duncan  2005; Ben Ghiat & Fuller 2005; Triulzi 2006, pp. 430-443.

[14] Ghermandi, Regina di fiori e di perle, p. 57.

[15] Cfr. Sorgoni 1998, p. 188.

[16] Governatore Gasparini al Regio Ministero delle Colonie, 14 novembre 1923, cit. in Volterra 2005, pp. 45-46.

[17] R. Corpo di Truppe Coloniali dell’Eritrea. Relazione annuale. Anno 1920 a cura del Colonnello Comandante  A. Dusnasi, in Volterra 2005, p. 47. In base agli Statuti libici del 1919, veniva abolito l’istituto della sudditanza coloniale e agli indigeni veniva riconosciuta una “cittadinanza italiana della Tripolitania” che, pur distinta da quella metropolitana, concedeva maggiori diritti ai cittadini libici. L’esperimento costituzionale ebbe breve vita e fu presto interrotto dal Fascismo.  Cfr. Del Boca 1988, pp. 365-366.

[18] Cfr. Bensaad 2007, pp. 51-69; Marfaing & Wippel 2004. Sulle difficoltà dei migranti del Corno d’Africa che attraversano il deserto libico, si vedano le testimonianze dei protagonisti nel film Come un uomo sulla terra di Andrea Segre, Dagmawi Yimer e Riccardo Biadene, Italia, Asinitas e Zalab, 2008.

[19] V. Barrera2003, pp. 425-443.

[20] Cfr. Borruso 2003.

[21] Le notizie su Menghistu Isahac Tewolde Medhin si trovano in Lenci 2004, pp. 45-76.

[22] Cfr. Bureau 1987, pp. 21-32, e la biografia di Zeray Derres a cura di Berhane 1976.  Sui notabili etiopi internati in Italia in seguito all’attentato a Graziani, v. Borruso 2003.

[23] Lenci 2004, pp. 61-63.

[24] Sul monumento si veda Bureau 1987, pp. 22-23. Stessa sorte fu riservata all’obelisco di Aksum, trasportato a Roma nel 1937 per onorare la facciata del nuovo Ministero dell’Africa Italiana a Piazza Capena, a Roma, nel quindicesimo anno dell’era fascista. Il palazzo ospita oggi il complesso dellaFAO.  Al contrario dell’obelisco di Aksum, che verrà restituito all’Etiopia solo nel 2005, il Leone di Giuda verrà restituito dal governo italiano all’indomani del Trattato di Pace. Sulla restituzione si veda Del Boca 2004. Su Dogali e il suo significato nell’espansione italiana in Africa, si veda Battaglia 1958, pp. 230-64.

[25] Cfr. Bureau 1987, pp. 21-23

[26] Cfr. Sorgoni 1998, pp. 188-89. All’insegna di ‘via i neri dall’Italia’ decretato da Mussolini nel maggio 1938, vengono allontanati successivamente, e in conseguenza dei fatti riportati sopra, i confinati dall’Etiopia e ‘tutti gli interpreti indigeni residenti a Roma’. Cfr. Lenci 2004, pp. 47, 68.

[27] Id, p. 49. Cfr. in partic. Fancello 1971, pp. 235-36; Rossi 1956, pp. 72-75, e Magini 1981, pp. 54-55, 78, 164. Su Menghistu, la ricostruzione più accurata è in Lenci 2001, pp. 57-77.

[28] Id., pp. 72, 76.

[29] Taddia 1996, p. 65.

[30] Cfr. Bureau 1987, pp. 26-29. E’ forse il caso qui di ricordare un altro caso ‘nobile’ di resistenza patriottica contro il Fascismo nella figura di Giorgio Morincola, un govane studente di medicina romano, figlio di una donna somala, che si unirà alle forze britanniche di liberazione negli anni Quaranta e morirà in Alto Adige nel 1945. Anche lui soprannominato ‘il Moro’ dai suoi compagni della Resistenza, alla sua morte si stentò a identificare in quell’uomo dal colorito bruno un cittadino italiano, e Morincola fu ritenuto a lungo un nero americano. Cfr. Costa e  Teodonio 2008, pp. 19-35.

[31] La lettera di Zeray, datata 6 ottobre 1936, è pubblicata nella biografia di Berhane 1976,  Appendix n. 3. La lettera non venne allora pubblicata; in risposta però uscì in data 8 ottobre un corsivo velenoso del direttore  in cui il ‘vile anonimo’ veniva accusato di essere ‘goffo, insincero interessato… le tue lettere puzzano di questa tua miseria morale a mille miglia’ (v. Appendix 4). La biografia è il frutto di una accurata ricerca di tesi nelle carte e tra i discendenti della famiglia in Etiopia e Eritrea. Cfr. anche Bureau 1987, pp. 21-32.

[32] Berhane 1976, p. 21.

[33] Ritorneranno alla fine degli anni Quaranta nelle famose ‘navi bianche’ della Croce Rossa dopo aver circumnavigato il continente africano lungo rotte rese ancora pericolose dagli esiti del conflitto. Su una di queste navi bianche che rientra a Napoli nell’autunno del 1943, cfr. Cantore 2007.

[34] V. Chelati Dirar 1996, pp. 9-39;  Triulzi 1996, pp. 4-6.

[35] Alcuni spunti si ritrovano nella diaristica raccolta da Nicola Labanca 2001; su strade, meccanici e camion, cfr. Masi 1995; Gattari 2000.

[36] Sugli ensablés italiani in Etiopia, si veda Le Houérou 1994.

[37] Cfr. Triulzi e Carsetti 2007, pp. 96-115.

[38] Si veda Grillo 2000, pp. 9-16; Mezzadra 2006.

[39] Il termine viene impiegato sia per chi ‘infrange’ le regole sociali e i confini etnici delle comunità, sia per chi fa esperienze interculturali di narrazioni e di ascolto tra italiani e stranieri V. Lorenzoni e Martinelli 1998.

[40] Il termine harraga, dall’arabo  harg, ‘bruciare’, usato come intransitivo, è riferito a coloro che bruciano, passano con il rosso, o attraversano illegalmente i confini nazionali. Metaforicamente, si riferisce anche a coloro che intendono ‘bruciare’, cioè sfidare, i confini rigidi dello stato-nazione.  V. Del Grande 2007, pp. 105, 117; Mezzadra 2006.

[41] V. Iliffe 2005.

[42] Carsetti 2009, p. 35.

[43] De divinatione, I, 8, in Vitale 2004, p.30.

[44] Bauman 2004, pp. 3-4.

[45] Vitale 2004, p. 53.

[46] Id., p. 68. (( un converso ‘

[47] Derrida 2004, p. 70.

[48] Cfr. Jedlowski 2009, pp. 13-31.

[49] Cfr. Triulzi 2008, pp. 573-595.

[50] Quanto segue è delineato più ampiamente in Triulzi 2009, pp. 157-170.

[51] Si veda Derrida 2005. Per l’Africa, si veda l’ampia raccolta di saggi raccolti da Hamilton et al., 2002.

[52] E’ impossibile qui addentrarci in questa densa tematica. Cfr. Wieviorka 1999; Starace 2004; Mengaldo 2007.

[53] Sul forte  dibattito acceso in Sudafrica sui lavori della Commissione per la Verità e la Riconciliazione (TRC),  si veda il resoconto della poetessa afrikaner Antjie Krog in Country of my Skull, apparso nel 1998, tradotto in italiano con il titolo Terra del mio sangue, 2006.

[54] Matvejevic1998.

[55] Vedi J. Clifford & G. Marcus 2001.

[56] E’ famosa l’immagine del’antropologo austriaco, Bronislaw Malinowski, ritratto mentre legge un libro davanti alla sua tenda nelle Trobriand con un gruppo di nativi che lo guardano ammirati in disparte. Si veda Malinowska 1992; Geertz 1988, p. 71.

[57] La Scuola d’italiano Asinitas di Roma si è distinta per importanti attività innovative di narrazione e di auto espressione. Si veda www.asinitas.org per le sue pubblicazioni, film, e blog in rete.

[58] Cfr. Andrea Segre, Dagmawi Yimer, Riccardo Biadene, 101’, una produzione Asinitas Onlus e Zalab. Il volume omonimo è a cura di Carsetti e Triulzi 2009.

[59] L’addomesticamento della lingua usata dagli scrittori migranti è iniziato con il testo italiano di Pap Khouma, Io venditore di elefanti  (2006) ‘aggiustato’ in lingua italiana da Oreste Pivetta. Si veda Lombardi Diop in Andall & Duncan 2005, pp. 217-238.

 

 

The Madonna of the Sea

Maaza Mengiste

Photo courtesy of Maaza Mengiste

There is a Madonna at the bottom of the crystalline waters off the coast of Lampedusa, Italy, standing guard near a gap where two rocks curve in an unfinished embrace. Dead leaves and fish float above her like drifting feathers, shimmering in the swatch of sunlight that drapes across the mossy cement foundation where she rests. She is alone except for the child she holds, a hand protectively across his chest. She is called Madonna di Porto Salvo and she is the protector of the island, the saint that watches over all those who cross her turquoise waters and comforts those who do not make it to land.

The island of Lampedusa was once known as a quiet holiday getaway, the place to go for tranquil rest on a lovely beach. Geographically, Lampedusa is closer to Tunisia (113 kilometres) than it is to Sicily (205 kilometres) and it is 295 kilometres from Tripoli. Since the early 1980s, migrants from Africa and the Middle East have used the island as an entry point to Europe, paying hundreds ofShe is called Madonna di Porto Salvo [. . . ] the saint that watches over all those who cross her turquoise waters and comforts those who do not make it to land. dollars to make the dangerous journey on fragile, overcrowded boats. The numbers have steadily increased over the last decades, and the onset of the Arab Spring has brought an overwhelming spike in those figures. The day I arrived on Lampedusa to learn more about its history with migration, there was a ceremony to commemorate migrants who had drowned trying to reach the island. Italian Coast Guard divers secured a wooden cross and a bouquet of flowers at the feet of the Madonna di Porto Salvo, their breaths bubbling through the Mediterranean Sea like shards of glass. Soon after the ceremony was finished, I learned that by chance, there was a boat arriving that day from Libya; their slow, perilous approach detected by the Coast Guard.

A few hours later, I stood at the edge of the coastline, watching as the boat full of men, women and children arrived. Around me were journalists and photographers, members of the Italian Red Cross and other humanitarian aid organizations. There were also residents of the island grimly observing this latest spectacle. They stared, resentment tinged with disinterest, at these dark-skinned foreigners stepping gingerly, shakily, on to Italian soil. It was hard for me to watch with the same detachment. I looked for Ethiopian and Eritrean faces instead, waving at all those who waved at me, trying to smile as some form of encouragement before they were whisked away to begin the tortuous task of establishing their right to be in the place they risked everything – including their lives – to reach. It was difficult to imagine what they would face, but nearly impossible to comprehend the many roads they had taken to arrive at this point. I thought of my friend in Rome, Dagmawi Yimer, who tells his story freely, but cannot seem to speak it without a subdued voice, as if the terror has left a permanent scar.

Dagmawi was a law student in Addis Ababa in 2005. A soft-spoken man with penetrating eyes and fine features, he planned to spend his life in Ethiopia, working to make a difference. But then political unrest engulfed the country as a result of contested election results. Then came the government’s crackdown on demonstrators, then a paralyzing list of repressive measures, then the killings of unarmed protestors, and his life in his homeland felt like a dead end. A close childhood friend, Yonas, had already left the country. So Dagmawi, along with Yonas’s brother, Daniel, and a few others from his neighbourhood, made the decision to leave. He packed carefully, slipping a few of his favourite books into a bag, and prepared himself for a long trip filled with hours of boredom. He would take a bus to the border of Sudan. From there, guides would lead him further into the country then to Tripoli, Libya. Once there, he would board a boat to Lampedusa.

On a map, it is a straight line from Addis Ababa to Tripoli. Just over 3000 kilometres along a path that crosses Khartoum, chews through the Sahara desert, then spills out onto the Libyan coastline along the Mediterranean Sea. But a map is deceptive and the straight line hovers above another route that branches out in all directions, traversed by people as invisible as ghosts. Even under normal circumstances, it would not be an easy trip: three countries, at least five languages, numerous checkpoints, and a terrain that includes the treacherous, seemingly endless Sahara. It is nearly impossible to make a journey like this without knowledgeable guides who also understand the veiled transactions that must take place at every stop. Migrants trying to reach Europe from sub-Saharan Africa become as undetectable as the hidden roads, rendered even more invisible by numerous bribes paid to police and border officials to look the other way. Traffickers bandy frightened people back and forth between designated cities, human flesh becoming its own form of contraband. Dagmawi had no idea what awaited him and his friends once they got passed Ethiopia. He could not have known that he would be bought and sold like a slave, shuttled from one place to another, and beaten and arrested by men who continually raised their asking prices.

The day Dagmawi left, he and Daniel simply boarded a bus heading to the Sudanese border. It all seemed so easy at first. At the border, he was met by traffickers with Land Rovers, men from Sudan, Ethiopia, Eritrea and Libya who offered to take him to Gedarif, just south of Khartoum, for a price. Traffickers bandy frightened people back and forth between designated cities, human flesh becoming its own form of contraband.From there, he progressed to Khartoum then Umdurman. Intermediaries appeared at every stop, more money exchanged hands and he was led deeper into Sudan, closer to Libya. He was not alone; along with Daniel and friends from his neighbourhood, each leg of the journey included others just as desperate to get to Europe. They drove for days across an overwhelming landscape of sand, rolling dunes dissected by the tracks of other vehicles that had gone on before them, all of it blanketed by a scorching, deadly heat.

The Sahara reaches temperatures as high as 57.7 Celsius, making it the hottest place in the world. It is vast and unforgiving; a swath of land more suitable for scorpions, camels and lizards than human beings. As Dagmawi travelled towards Libya, the guides who took over became progressively less sympathetic, gruffer and cruel. During the interminable waits and delays in the Sahara, during the constant changeovers from one contrabbandiere to another, there were the skyrocketing demands for more money, the random beatings, the humiliation of being packed into crowded spaces like animals, the insults and racial slurs. Dagmawi began to realize he had entered a twisted, dark labyrinth manned by those who saw him as nothing more than a source of cash, a commodity made more valuable as the threats and dangers increased. Along the truck routes in the Sahara were the discarded bodies of those who had run out of money, those physically unable to withstand the hunger and thirst, and those who had simply surrendered to the fear. But there was nothing to do except keep moving forward, hiding what money he could in his clothes, praying along the way. Twenty days, hundreds of dollars, and more than 1300 kilometres later, he was in Benghazi, Libya. It didn’t matter that he’d thought he was heading to Tripoli. He went where he was taken.

Dagmawi and his friends found shelter in a Benghazi house with other migrants, hiding until relatives sent more money to pay for their boat ride to Italy, an average of 800 to 1200 dollars per person. Every day was spent waiting. Dagmawi struggled to remember all the reasons he had started the journey, while trying his best to forget everything he’d experienced along the way. He tried not to despair, to keep hoping, but regularly, he asked himself how he’d ended up in that cramped house with eighteen other men, frightened to step outside and risk arrest. The house was its own kind of prison and the waiting a form of punishment. One morning, he woke up and wrote the following on the wall, a reminder that nothing, not even a nightmare, lasts forever: If you can survive, all of this will pass. He had barely finished when there was a knock at the door. It was the Libyan police.

Dagmawi and his friends were forced to leave the house immediately, marched out at gunpoint without being given the time to put on their shoes or gather much of their belongings. If they had been afraid before, they were terrified now. In the hands of police, they were illegal migrants who could disappear without any trace. They were shoved into a truck then taken to jail. At the prison in Benghazi, they found a hundred others, including women and children. Almost right away, they were crammed into a stifling metal container. And it was here, in this claustrophobic box without water or food, without a toilet, that Dagmawi met the equally traumatized gaze of a four-year-old boy named Adam. It was a moment he would never forget: the sight of this young boy enduring what was breaking so many grown men and women. In the container, travelling once more across the desert, Dagmawi’s odyssey was just beginning. He was going back over the hundreds of kilometres he’d already crossed, back towards more smugglers but this time without any more money, not even his shoes.

In Arabic, kufra means ‘to hide the truth’; it represents a sin, a heresy against the teachings of the Prophet Mohammed. A kafir is one who hides this truth, an unbeliever. This was the name given to the town of Kufra, or al-Kufrah, because of the non-Muslim people who inhabited the area long ago, as if those who came from there, or entered there, were complicit in an act of betrayal by their very existence. Surrounded on three sides by depressions, it has been an important part of trade routes crossing the desert and has become an almost mandatory stop for migrants travelling between East Africa and the Libyan coast. It is the pulsing centre of an underground world comprised of human traffickers, police and organized crime groups.

The prison at Kufra, where Dagmawi was taken, is a hulking slab of concrete in the middle of the Sahara desert. It loomed above the prisoners as they were unloaded at gunpoint and pushed through its gates. Immediately, the women were separated from the men; Eritreans and Ethiopians were separated from those from other countries, then they were herded into filthy, small cells with one toilet and a few bug-infested mattresses. It was difficult for Dagmawi not to curse himself, not to rail against the situation in his country that had forced him and so many others to abandon all they loved. And he loved many things: his hardworking father whom he hadn’t told goodbye when he left; his mother, who expected his help in her kiosk; his books by Dostoyevsky; Bob Marley; and country music. He liked films and was interested in law. He was a normal young man. How did he get here, stuck amongst the screams and the stench, eating off the ground the meager rice guards threw his way, drinking water that smelled of benzene?

The days bled into each other, the sun a slow drag across the sky. There was the constant presence of heat, the beatings, the abuse of children, the solitary confinement, the agonizing knowledge that women were suffering their own kind of hell. Dagmawi was caught in the helpless cycle of witnessing violence and falling victim to it. Even if he could have escaped, he would have been three hundred kilometres from the nearest water well. He would have been further trapped by his dark skin, easily identifiable as a non-Libyan. By now, all the migrants were black; all traffickers, Libyan. It was easy to tell who was who, who was at the mercy of whom.

Among the many belongings that Dagmawi had to leave behind when he was arrested was Henri Charrieré’s autobiography, Papillon. It is the suspenseful story of Charrieré’s wrongful murder conviction in a French court system in 1931, and his It was here, in this claustrophobic box without water or food, without a toilet, that Dagmawi met the equally traumatized gaze of a four-year-old boy named Adam. eventual escape – thirteen years and nine attempts later – from what had been considered an inescapable prison, Devil’s Island. Papillon became an instant hit when it was released in France in 1971, and it is easy to see why. It is a classic tale of perseverance and survival. Stories like this confirm what we want to believe about the world: that eventually, justice prevails, evil slinks away and good triumphs. But for people like Dagmawi, the underworld follows its own storyline. Cruelty has a place, fear belongs and the foundation of everything is humiliation.

One day, Dagmawi and the other prisoners, both men and women, were paraded out of their cells and told to form a single line in front of a man they had never seen before. Soon, this man separated them into two groups, and simply pointed to the one that included Dagmawi and said, ‘I’ll take these.’ They were loaded into a truck and driven to a house owned by this contrabbandiere and there, the man informed them that he’d paid thirty dinars for each of them: less than twenty-five US dollars, just over fifteen pounds, and a bit more than eighteen euros. They were ordered to call their relatives to reimburse their buyer and pay for their way to Tripoli. Dagmawi had no choice but to make the call; he had seen what happened to those who couldn’t pay. The desert was littered with their remains, bodies fading back to ghosts.

It was a three-day ride to Tripoli, packed in a truck covered with a tarp. There were too many people for the small truck and there was not enough room for everyone to sit down. Dagmawi stood, barefoot in the space that forced everyone to relieve themselves where they were. They were hungry and thirsty, collapsing under a tremendous fatigue, and it was only by puncturing the tarp overhead that they could get enough air to breathe. There were women amongst them and every day, the men had to fight against the smugglers’ attempts to rape them. Dagmawi thought again of the degradation of the prisons, the screams of other prisoners, the futility of escape, and wasn’t sure how he would make it. But somehow, he and his friend Daniel stepped out of the truck, in Tripoli. Somehow, they found a neighbourhood of Ethiopians and Eritreans. Somehow, they managed to find a place to stay until they could buy their way to Lampedusa.

It was in a Tripoli café that Dagmawi saw a photo of his friend and Daniel’s brother, Yonas, the one who had left Ethiopia before them. Below the photograph was the address of the Eritrean Consulate. He and Daniel went to the consulate to find out what happened. There, the official gave them Yonas’s wallet and informed the grieving men that he was the only ‘lucky’ one on board a sinking ship heading to Italy. He was the only one who could be identified from the more than thirty migrants dead. As if this weren’t enough to bear, a few days later, Daniel was caught by police and sent back to Kufra to begin his own odyssey all over again, shouldering the knowledge of his brother’s death. It would be a year before he would be able to leave Libya, aided by money sent by Dagmawi from Italy. Yonas and Daniel’s parents still do not know what happened to their son, the telephone an impersonal, inadequate method for communicating news that can shatter a parent’s heart.

Thirty-two migrants, including Dagmawi, boarded a boat bound for Italy on a hot July day in 2006, more than a year after he left Addis Ababa. The passengers included a ten-year-old Eritrean boy travelling alone. All they had with them was what they wore, their clothes caked in the filth of the prisons and containers, smelling of fear and human waste. At some point on the trip, the Italian Coast Guard put them By now, all the migrants were black; all traffickers, Libyan. It was easy to tell who was who, who was at the mercy of whom. onboard their ship and gave them safe passage to Lampedusa. The crowds that greeted Dagmawi were much the same as those I found myself standing amongst, five years later. By chance, a news crew recorded this moment without understanding who it was they’d captured on camera. There is Dagmawi, next to two friends. He looks thin, stunned and exhausted. He is dressed in a clean green shirt, sitting with his knees up, his hands crossed, staring quietly at the country unfolding before him.

I asked him recently about this shirt, its newness jarring, the colour almost too vivid for all I know he’d been through. It was a gift from a friend who had managed to save one item of clothing for Italy. Dagmawi had put it on as land appeared on the horizon. It was a gesture, however small, of his fight to regain his humanity, to step on to Italian soil as if he belonged. Once in Italy, Dagmawi Yimer made a vow to himself to tell the story of all those still left behind, and of those, like Yonas, who would never arrive. He learned Italian and began work in a film collective call ZaLab, making documentaries such as ‘Come un uomo sulla terra’ (Like a Man on Earth), that describe his journey as well as that of others. He has championed the cause of immigrants and co-founded the Archive of Migrant Memories in Rome. Using his camera as a voice, Dagmawi Yimer is now helping others share what had once been unspeakable.

I could not help thinking of him that day in Lampedusa as I watched buses drive away with new immigrants. Less than three hundred kilometres from where I stood was Libya, and in her cities were others like Dagmawi, caught in the deadly consequences of a civil war, easy targets identified by their skin colour. The Arab Spring has intensified their horrors. In desperation, they will continue to embark for Europe; they will continue to drown; they will continue to step off sinking boats and find a way to live. And far below the sea, will be the Madonna di Porto Salvo, gazing up.

Lampedusa’s Gaze: Messages from the Outpost of Europe

di Simona Wright

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What marks off the “self” is method; it has no other source than ourselves: it is when we really employ method that we really begin to exist. As long as one employs method only on symbols one remains within the limits of a sort of game. In action that has method about it, we ourselves act, since it is we ourselves who found the method; we really act because what is unforeseen presents itself to us.
(Simone Weil 1959 72-3)

Wir riefen Arbeitskräfte, es kamen Menschen. (Max Frisch 1965)

In March 2011, Globalpost reports the recent events at Lampedusa in the following terms:

Over 10 days in February, the island of Lampedusa saw its biggest arrival of undocumented immigrants from nearby North Africa. Six thousand young Tunisian men and a handful of women, packed into fishing boats with as many as 200 aboard, made the perilous journey across 70 miles of open ocean to the southernmost Italian outpost. Carrying dreams of jobs in Europe and not much else, they arrived, wet and tired, on a rocky island of secret coves and crystal waters (1).

This paragraph expresses the duality, the binary, oppositional identity the migration phenomenon has produced on Lampedusa: on one side, the island is described as traditionally known, as an out-of-the-way, exclusive tourist destination, boasting crystal waters and exotic landscapes, on the other, as a nightmarish warehouse of undocumented immigrants seeking a new life on this southernmost outpost of Europe. The report continues:

The overwhelmed Italian authorities quickly reopened a transit center, packing migrants into prefabricated dorm rooms in a facility built for 850 (2). With nothing to do but wait for transfers to other facilities on the mainland, the migrants walked the streets of Lampedusa’s only town, passing time playing soccer and drinking coffee at the cafes on Via Roma (3).

Not surprisingly, the report talks of Italian authorities being unprepared, overwhelmed, and for the most part unresponsive (4). This is rather typical in Italy, as such episodes of unpreparedness have been witnessed especially vis-a-vis migration (5), arguably the most significant social and political phenomenon interesting Europe, and particularly Italy, in the last 20 years. In fact, the Lampedusa events illustrate, paradigmatically, how Italian authorities, politicians in the first place, have attempted to “resolve” a challenging situation first by ignoring it, and later by attacking and persecuting the same victims they are supposed to help, impacting negatively, in the process, both on the social and political discourse as well as on its practices.

The local population received the first arrivals with the responsiveness that is customary on this island which, according to Annalisa D’Ancona, one of two local activists who promote festivals and curate The Museum of the Immigrant, “has always been a place of passage… a place of hospitality and relief for those who travel between the two continents.” But, as the arrivals increased the national and international authorities remained unable to provide a clear course of action. Pressure started to mount, erupting in riots at the end of September. Again, only after the episodes of tension between an enraged population and groups of despairing and frustrated immigrants, Italian authorities flew the remaining immigrants back to Tunisia or to Sicilian and mainland facilities (6).

What do such episodes tell us about Italy, about a nation, and metonymically about an entire continent, Europe, that are administratively relatively young and still in the formative process? Can they assist us in defining new sustainable political, social, and economic paradigms, in averting the quagmire of isolation, inaccessibility, discrimination, intolerance, and xenophobia that seem to engulf the European political discourse and its legislation at the moment? (7) Can the ineptitude of politicians, the obsessively prejudicial language of the media, be denounced as techniques to alienate the immigrants and to make them scapegoats of a larger, more dangerous new world order? And most importantly, what can authors, film-makers, and intellectuals do to restore a productive, thought-provoking, self-reflective examination of the current social system?

I chose to introduce this article with the events of Lampedusa because I think they help illuminate critical aspects of our reality. Hopefully, they can also assist us in finding new epistemological paradigms, disclosing ways of knowing that by necessity re-contextualize how we imagine Italy and Europe and, most crucially, how we live and articulate citizenry in both. Besides being the focus of many journalistic reports, in fact, Lampedusa, and the Mediterranean that surrounds it, have become symbols, metaphors of a condition of deterritorrialization and of liquidity that is affecting our world and is impacting on our lives as individuals and communities. Hence the first objective of this article is to explore how Dagmawi Yimer’s two documentaries develop the concept of Lampedusa both as a geographic locus as well as a metaphor of the liquid condition in which the media and the political milieu tend to relegate undocumented immigrants. The second objective is to reflect on what meanings deterritorialization and liquidity have for the immigrants themselves and what methods they are applying to confront, resist, and challenge the images, assumptions, and mental constructs on immigration Western society has carefully crafted for popular consumption.

Lampedusa exudes geographic and political eccentricity: its geographic position vis-à-vis the Italian peninsula qualifies it as its most distant outpost. Its southernmost location, south even of Monastir and Tangiers, reflects its embarrassing cultural in- betweenness. Lampedusa is at the same time an Italian island and a minuscule landmass at the periphery of the nation, a piece of Italy in the Mediterranean that is closer to Africa than to Europe, lost at sea, marginal and inaccessible, territorially negligible. A predicament that is continually reiterated, in the interviews, in the articles, and in the news: Lampedusa’s inhabitants lament the desertion of the government and the absence of the state in their daily existence. Geographic distance translates into political insignificance and socio-economic marginality. In addition, thanks to the implementation of a governmental agenda subservient to European directives, Lampedusa now contains oppositional realities that further complicate its identity. The island is both a place of leisure and of suffering, with its known traits of unspoiled paradise for tourists on one side and its less exotic, and thus secluded, reclusion sites (CIE) for immigrants (8). The geographic distance from Italy, its territorial marginality and cultural in-betweenness have rendered the island easily exploitable by Italian authorities (9) that have transformed it into an immigration warehouse away from public attention. A calculated move that was politically advantageous both in regards to the country’s official responsibilities vis-à-vis European immigration law, and in regards to Italian citizenry, that thanks to Lampedusa’s remoteness has been kept in the dark of the real situation and of political accountability.

And while the inhabitants thought of creative ways to help the immigrants with “caffè sospeso,” where whoever can afford it and is in the mood, pays for the coffee of those immigrants who are not allowed to exchange their currency into Euros, Prime Minister Berlusconi announced the (later denied) purchase of a villa on the Southern side of the island.

Media and the Politicians’ Language on Lampedusa

Prime Minister Silvio Berlusconi’s 2011 visit to Lampedusa, with his inappropriate and characteristically boisterous posturing and the traditional cortège of favorable journalistic attention, needs to be examined to understand how Italian media and the political world have addressed sensitive issues regarding human circumstances with discursive practices that are both intentional and negative in their communicative outcome (10). I agree with Camilla Hawthorne when she recognizes that the language surrounding the Lampedusa events merits closer examination: In Why Lampedusa Matters, Hawthorne points to the problematic use of words such as “state of emergency,” “flocking,” “swamp,” “exodus,” “wave,” “overrun,” “flood,” “inundated,” “immigration mess,” and in general to the use of alarmist rhetoric in an effort to stir up anti-immigrant sentiments (11). Additionally, in her article Hawthorne notes the implementation of the following practices:

    1. Discursive slippage between refugees, crime, and violence. Statements by Italian officials conflate higher levels of migration from Arab states with extremism, terrorism, violence, and weapons trafficking. This is a common strategy used by states to justify restrictive immigration policies. New arrivals are screened to determine if they are asylum seekers or economic migrants — a process that draws arbitrary boundaries between “worthy” and “unworthy” migrants.
    2. Use of language to hide the realities of immigrant detention. Although Italian immigration centers have a sordid history of abuse and inhumane conditions, this reality is often masked in official statements, news reports, and even in the process of naming (one type of secure detention in Italy is known as a “Welcome Center”). Said one reporter: “There are no detention centers in Italy. In places like this, people can come and go as they please”(12).
    3. Alarmist reportages and tired media cliches. As is all too common in immigration stories, journalists have resorted to catchy aquatic metaphors to describe the situation in Lampedusa: “Waves” of boats carrying Tunisian asylum-seekers to shore, “floods” of refugees, a “surge” of undocumented immigration, “tides” of migrants. Biblical metaphors have started to enter the fray as well: Italian officials have publicly voiced fear of a “Biblical-style exodus”13 from North Africa. This kind of language has the potential to dehumanize an entire population of migrants, reducing them to a faceless, ceaseless “flow” that must be stopped.

Hawthorne’s considerations are significant for us as they focus on two important dimensions of the immigration issue: the first is the language utilized by the media, with its tendency to hyperbole and generalization aimed at provoking anxiety, alarm, and distress. The second is the political language, which is hyperbolic, inaccurate, and biased, aimed at promoting dehumanization through criminalization (14) and annihilation of the “other” with the assistance of what Chomsky, quoting Reinhold Niebuhr, defined as “emotionally potent oversimplifications” (Chomsky, 1991). Here, the combined utilization of biblical terms and liquid metaphors (15) conflates the televised and media induced image of Lampedusa, which the public will remember as nothing more than a perplexing entity lost at sea, with the larger and most powerful image of the Mediterranean, the liquid form par excellence in the European imaginary.

The Mare nostrum, like Lampedusa, is simultaneously a locus of marketable beauty and unspoken, ignored or, as we shall see, silenced tragedy, a space crisscrossed by cruise liners and overcrowded boats of immigrants, insistently reminding us of the social and economic inequities existing between the North and the South of the planet (16). In the Western literary imaginary, the Mediterranean conjures up metaphors of instability, uncertainty, flux, regeneration, and rebirth. More concretely, today it is linked, in the international news reports, with images of resistance (17), drowning, and death. Housing extreme polarities, hope and despair on one side, allure and conspicuous consumption on the other (18), the Mediterranean remains one of the most ambiguous of contemporary spaces, one of transit of material goods and wealth but at the same time, for many unfortunate immigrants, one of tragedy, death, and oblivion. It is unquestionably a space of obliviousness for the over 18,000 immigrants who lost their lives in its waters, a mass grave, we may accurately say here, of biblical proportions (19) Yet the alarming loss of lives remains largely unreported, making the Mediterranean, for Europe, in political and historical terms, a non-lieu (20), exactly like Lampedusa.

Hawthorne’s attention to the liquid metaphors invites us to a more in-depth analysis of the discursive practices and narratives fashioned around the phenomenon of migration in the last few decades, as they have been able to produce the dematerialization of its protagonists, with the consequent loss, for the European populace, of the immigrants’ physicality and actuality. In examining the liquid phenomenon it is opportune to draw on Zygmunt Bauman’s notion of “liquid,” which he conceived to illustrate the contemporary demise of the societal duties and bonds that tie individuals and communities together. The opposition developed by the Polish-British anthropologist is conceived as a binary structure, where the solidity of ethical obligations, mutual responsibilities and communal bonds that formed the structure of pre-industrial society, and were abandoned in the XVIII and XIX centuries to liberate and optimize business practices, is opposed to the liquidity, or rather the fluidity, volatility, and unpredictability of human relations in the contemporary world (Bauman 2000 4):

What all these features of fluids amount to, in simple language, is that liquids, unlike solids, cannot easily hold their shape. Fluids, so to speak, neither fix space nor bind time. While solids have clear spatial dimensions but neutralize the impact, and thus downgrade the significance, of time (effectively resist its flow or render it irrelevant), fluids do not keep to any shape for long and are constantly ready (and prone) to change it; and so for them it is the flow of time that counts, more than the space they happen to occupy: that space, after all, they fill but ‘for a moment’. In a sense, solids cancel time; for liquids, on the contrary, it is mostly time that matters. When describing solids, one may ignore time altogether; in describing fluids, to leave time out of account would be a grievous mistake. Descriptions of fluids are all snapshots, and they need a date at the bottom of the picture. Fluids travel easily. They ‘flow’, ‘spill’, ‘run out’, ‘splash’, ‘pour over’, ‘leak’, ‘flood’, ‘spray’, ‘drip’, ‘seep’, ‘ooze.’ (Bauman 2000 2)

Bauman explores his well-timed dichotomy in modern reality in terms of what is lost, the stability of that “complex network of social relations” whose absence leaves the individual bare, unprotected, and the collectivity unarmed against the assault of what Thomas Carlisle described as the “cash nexus,” in other words the determining role of the economy as understood by Marx. According to Bauman, the solids presently under attack and ready to be liquefied are “the bonds that interlock individual choices in collective projects and actions – the patterns of communication and co-ordination between individually conducted life policies on the one hand and political actions of human collectivities on the other”. When we consider these two dimensions of society, the individual life choices (policies) and the collective (political) actions, we will notice the absence of what Bauman calls “connection, co-ordination.” More and more individuality and collectivity are disconnected, disengaged, alienated from one another, bypassing each other without ever meeting, and more and more often we realize that the order of things, that system which is sold by its agents as more liberalized and flexible, is instead rigid, unchangeable, and so diffuse as to be unreachable. Never has individuality remained drastically disengaged from the collective as in the representation of the phenomenon of migration. Observing the carefully selected, filtered, cut, and framed images, listening to the sound bites describing the Lampedusa arrivals, we clearly recognize that media and political language have managed to render their protagonists, both the undocumented immigrants and the people of Lampedusa, fluid, liquefiable, drainable, shapeless, in a word, transitory. The liquidity of the Mediterranean, coupled with the utilization of correspondingly symbolic metaphors employed in the syntax of politics and the media, following the techniques of homologation and dehumanization, have distorted, manipulated the physical reality of the immigrants, turning their materiality into immateriality, their presence into absence, their historicity into a void.
The inhabitants of Lampedusa suffered a similar destiny as the island’s CDA was precipitously turned, by government decree, into a CIE, where the dramatic increase in the number of soldiers had de facto transformed its compound into an overcrowded and neglected prison. Useless were the protests of the Lampedusan people, who saw their rights and those of the immigrants trampled, while their island was being transformed, after their demonstrations, in a heavily militarized zone (21).

Italians watching the news reports or reading national newspapers remained and remain today largely unaware of the material reality of the situation, of the degraded living conditions and the blatant violations of the basic human rights perpetrated before (22) and on Lampedusa between 2009 and 2011 (23). Tourists sunbathing on the island’s pristine beaches were unsuspecting while its inhabitants, who watch with dismay the exaggerated television commentaries, feared that they would, as they did, impact negatively on their livelihood (24). Is this the end of the story? Will we ever know what really happened on Lampedusa and before Lampedusa? Is the liquidity of both the Mediterranean, the careful management of discursive practices, and the sophisticated use of our slippery linguistic codes going to engulf and absorb into oblivion the lives of thousands of men, women, and children that Europe has unceremoniously abandoned at sea? The filmic experiences explored in this article, Andrea Segre and Dagmawi Yimer’s documentaries, Come un uomo sulla terra (2008), and Yimer’s recently released Soltanto il mare (2011), suggest constructive ways to knowledge and new epistemologies of resistance. At the intersection of individual agency and collectivity, of humanity and diplomacy, of hegemonic discourse and individual and communal narrative, the documentaries denounce the annihilating strategies of political discourses and challenge the tactical, preemptive silencing that pervades media narratives. Most crucially for our exploration, as it concentrates on the victims’ stories and their efforts to combat liquefaction, it gives a response to the deliberate obliteration attempts, allowing the victims to regain, through the solidity of their presence and narrating voice, physical materiality and historical weight. Dagmawi Yimer’s body is one of the many we see in these documentaries. Landed on Lampedusa on July 30th, 2006 as an undocumented Ethiopian fleeing an increasingly dictatorial regime (25), Yimer arrived to documentary film by chance, as he attended a course of video-narrazione offered in a Roman school (26). His first short documentary, entitled C.A.R.A. Italia, a report on the Centri di accoglienza per i richiedenti asilo, provides a snapshot of the reality of immigrant lives as perceived and recorded from within, from an insider’s point of view. It is however his most recent documentaries that attract our attention. The first one, co-directed with Andrea Segre, records the consequences of the ‘Respingimenti agreements” signed by Italy and Libya and enacted in 2009 (27). The documentary is an account of what lies behind and beyond words, policies, and diplomatic agreements, as it focuses unambiguously on those whose lives were affected by them. Before reaching the sea, the protagonists of Come un uomo sulla terra, Ethiopians fleeing their country, must confront the solidity of land and law. For them this translates into the interminable and life-threatening experience of desert crossing, from Sudan to Libya, hoarded in metal containers with no food or liquids. Over a thousand-mile trip aimed at weakening their resolve and debilitating both body and spirit. The arrival on Libyan territory coincides with the encounter with brutal officials and prison guards who will buy them for thirty dinars and dump them in overcrowded and filthy prison cells without clear indictment for months and years on end. The trucks, containers, prisons, jeeps and body bags, we will learn in the documentary, have been provided by the Italian government as part of the agreement signed with Libyan authorities in 2008. The accord was centered on the request for “respingimenti,” (push backs) made by the Italian state to Libya in order to stop immigration to Italy from the former’s territory. The agreement included, or rather was centered, on the signing of lucrative business contracts between the two countries.

If we analyze the political language adopted by then Ministro Maroni, as it appears in the documentary, to describe both the situation and the solution produced by the government, we recognize that liquid metaphors like “flussi migratori” are coupled with seemingly neutral, harmless others, such as “respingimenti,” words that are expected to become solid only far away from Italy and the attention of its citizens, metaphors that manifest their physical weight only on the bodies of undocumented immigrants and long before ever setting foot on Italian soil, in a preemptive attempt to liquefy, remove, and “sanitize” (28). Maroni’s words clarify the government’s efforts: “Il primo compito è impedire che arrivino, fare in modo, mettere in atto tutte le misure per impedire gli sbarchi” (29). The dyad liquid/solid is unmistakable here, as the Italian government expresses its desire to stop arrivals, to impede, that is, the materialization of the immigrant on Italian soil, in any way and by any means possible. Words such as “sbarchi, misure, compito, impedire, mettere in atto,” with their cold, rational, and impersonal echo, have imperceptibly severed the link with what they actually represent, the individual human tragedies suffered in Libya and at sea as a result of diplomatic agreements. What Maroni’s language is deceitfully hiding is not only the character of do ut des of the treaty, the lucrative exchange of economic deals that halting immigration entails for both countries, but most importantly the actual physicality that lies behind it, the massive weight of bodies that contains histories, languages, and identities. What Maroni’s words point at is that at stake are not the lives of thousands of immigrants, by now rendered immaterial, but the very substantial trade of infrastructural development and economic advantages (30).

As governments enter specific agreements, the immigrants, whose status as non- beings has already been politically inferred and linguistically constructed, start to lose their bodily substance as they start dying, physically and mentally, along the Libyan desert. After they are arrested by the local police, their journey into hot, airless containers will involve several attempts to, in Bauman’s terms: “’flow’, ‘spill’, ‘leak’, ‘drip’, ‘seep’, ‘ooze’” them into nothingness. An attempt to “evaporate” them is described in the documentary. At their arrival to the prison of Kofhra, in southern Libya, police spray water on the hot metal frames of the containers overcrowded with starved, sick, hot, and dangerously dehydrated men and women. In Kofhra, they will remain in jail, a structure allegedly provided by the Italian government for their unwarranted detention, indefinitely. At their arrival there, locked in containers with no facilities and with only a bottle of water a day in the middle of the desert, they will have been reduced to weightlessness, forced to an absurd journey that will take them from prison to prison and from violence to violence, in Kofhra, in Misrath, back to Kofhra, in a pointless south- north-south direction. Liquidity and mobility are accompanied by uncertainty regarding their survival, while the Mediterranean remains a remote stroke of watery blue. Its crossing, their only source of hope, has been postponed by laws, regulations, and agreements, by rigid, uncompromising forms of control and domination (31). The incarceration will continue without trial, appeal, or intervention from humanitarian organizations, whose visits have abruptly stopped amid the general silence. The documentary’s close-up shots reveal the hardened faces and emotionless voices of the protagonists, who have materialized in front of Yimer’s video camera. Relentlessly they tell of beatings and tortures, of systematic rapes, acts of violence and savagery that have left deep physical and emotional scars. The protagonists’ stories do not match the neutrality, detachment, and immateriality of the interior minister’s words, their reality standing in crass contrast to what political discourse and media jargon have attempted to fashion, the representation of solidity as a vacuum. This attempt at rendering humanity a no-body is now confronted with the simplest but most unique of human elements, language. In Aristotelian terms, voice is common to all living beings, but only humans have the power to articulate voice into an ethical enunciation of meaning (32). In his Politics, Aristotle highlights the relation between phonē and logos:

Among living beings, only man has language. The voice is the sign of pain and pleasure, and this is why it belongs to other living beings (since their nature has developed to the point of having the sensation of pain and pleasure and of signifying the two). But language is for manifesting the fitting and the unfitting and the just and the unjust. To have the sensation of the good and the bad of the just and the unjust is what is proper to men as opposed to other living beings, and the community of these things makes dwelling in the city. (1253a, 10-18)

The protagonists’ stories, recorded by the interviewer in plain and low-key conversations, in modest living interiors, in long motionless close up shots, challenge the assumptions produced by the media of a clean, effortless, and painless solution to the problem of illegal immigration. The attempted (and all too often successful) dissolution of the body of the immigrants is rejected through the power of language, which establishes a hic et nunc that is situated both temporally and historically. Language is employed here as a narrative with manifold effects. Firstly, it reinstates the physicality of the speaker. It restores his/her humanity inasmuch as the speaker asks the audience not to feel pity but to reflect on ethical paradigms (right and wrong, knowledge and indifference, justice and responsibility). Finally, it declares the speaker’s determination to citizenry, to the dasein. What was rendered liquid reclaims its solidity, defying the attempt to degrade human life and asking space through the resolution to political existence. The protagonists of Yimer’s Come un uomo sulla terra declare their commitment to a polis at the same time as they recall the fundamentals of a community, ethical behavior expressed through language as the instrument of discerning just from unjust, narration of collective suffering and survival, recollection of violence and abuse (excruciating but imperative to combat forgetfulness), celebration of togetherness, endurance, and strength (33). Humanity arises here from the articulation of language, while the solidity of human relations, of brotherhood, emerges from the liquid form in which the agents of information and political diplomacy had attempted to reduce the immigrants’ body. The objective and meaning of the documentary’s title, roughly translated into Like a Man on the Earth, become operative. The dyad of man and earth is relevant in its relation of reciprocity. Dependent as it is upon “terraferma,” the body needs the earth’s solidity, stability, and safety. As the title suggests, only when the body meets the land it becomes human, only the earth can grant a project, a future, and a form. Furthermore, the earth is also a symbol of a collective existential experience. Existence for humanity, as the immigrants’ stories reveal, is possible only as a community and only on a common earth, in a belonging that is not bound by ethnic, racial, cultural or national paradigms. The earth is the abode of the living, of humanity, but only in a super-national context. In this light, Yimer’s statement at the beginning of the documentary, which coincides with the inception of his recollecting, is decisive. His refusal of any definition of self in ethnic terms (“sono un uomo”) becomes the Leitmotiv of the narrative, the philosophy behind his intellectual engagement.

The voices of the survivors interviewed by Yimer are continuously juxtaposed to the official narrators of the story, revealing another tragic dimension, that of silence. Silence surrounds the reality of the recent immigration attempts, silence encloses the walls of the Libyan prisons, and silence envelops the violence of the Libyan police and the corruption of the Sudanese intermediaries. The media, the political world, the European and international humanitarian agencies have remained inexplicably quiet, although accounts of Libyan police selling detainees to Sudanese intermediaries had been percolating from various sources. Yet no authority, national or international, has taken the responsibility of denouncing the facts. Frontex, the European Agency for the Management of Operational Cooperation at the External Borders of the Member States of the European Union, appears in the documentary as Yimer travels to its Warsaw headquarters to interview the director, Ikka Laitinen. Very approachable, Laitinen reports of the visit to the Libyan prisons:

We went there, we wanted to see what was happening there, express and exchange our views on what could be the possible cooperation. Frontex is a European coordinator. We coordinate such operational cooperation among the member states of the EU that are willing to participate. Our staff is about one hundred and fifty persons working here. The budget for 2008 is confirmed at seventy million Euros and the trend is increasing. Libya is a very important country in terms of irregular migration. Our interest is to establish partnership with those countries that are either countries of origin of illegal migration or countries of transit. And the philosophy behind that is that border control cannot be only carried out at the border. We have to act before the border where the problems arise, we have to cooperate and act across the border with our colleagues in third countries and then at the border and also behind the border.

The explanation of the agency’s role and its main objectives is carried out in a conventional, even gracious manner, yet the words reiterate the sinister message Interior minister Roberto Maroni and minister of Foreign Affairs Franco Frattini had sent at the beginning of the documentary. It is important to stop migration (note that the focus here is on migration and not on the actual bodies of migrants), before “it” comes in touch with European soil. In this way, in other words, migrants will be unable to materialize as recipients of the human and civil rights Europe bestows on its own citizens. What cannot escape in Laitinen’s explanation are the neutralizing and dehumanizing effects of words such as “diplomatic partnership,” “borders,” “transit,” “irregular,” and “philosophy.” To confront the issue of migration, as the documentary implicitly relates, European authorities and media have developed several techniques. On the one side that of silence, the distancing and obliterating effects that come from indifference, lack of information, half-truths and misrepresentation. On the other the manipulation of language, which becomes detached from the actual reality it is called to describe. Leitinen defines Frontex’ strategies as a “philosophy,” ostensibly agreed upon at the European level and carried out as intellectual and ethical response to the problem. A praxis that will allow Europeans to sleep comfortably knowing that all necessary measures have been taken and all moral justifications found to safeguard their way of life. Europe’s massive support of Frontex in its role of “coordinator” is a logical consequence of this “philosophy.” The seventy million Euros of Frontex’ budget for 2008 underline Europe’s firm intention of impeding illegal migration at all costs and, when possible, of externalizing border control responsibilities to countries whose human rights record is, to say the least, questionable. Europe’s “philosophy” seems to be constituted of evasive words but solid numbers” (34).

Laitinen’s promptness in responding to the interviewer is weakened when the question falls on the specific matter of the visit to Libya and the prison in Kofhra (35). In the answering process, Leitinen’s demeanor and words start to lose potency: “Actually, I do not remember all the cities and I personally was not there and it’s about one year ago. But this sounds familiar, the name of the city sounds familiar. Unfortunately I cannot keep the details of what the experts really saw there.” Oddly enough, the report remained rather general in its statements, that, like the following one, seem to evade all actuality (36): “As outcome of the visit in the desert regions of Libya, the members of the mission were able to appreciate the desert’s expanse and diversity” (37).

On Yimer’s pressing personal question: “Do you know anything of the treatment reserved to the detainees in the Kofhra prison”, Laitinen gives what I would argue is a consummately diplomatic answer: “I do not have the details but I was told that there is much room for improvement.” Diplomacy is the art of the generalized, the ambiguous, and the opaque, the perfect place to make a liquid and shapeless use of language. “Room for improvement,” together with Laitinen’s alleged lack of direct knowledge of the “details”, and his vague recollection of the mission appear both hollow and insincere in the face of the horrors described by the detainees. Language can be mollified, liquefied, emptied of meaning, as in this case, where the nexus between signifier and signified has been deliberately broken.

The same vagueness, inconsistency, apparent lack of connection with the physical reality engulfs the term “respingimenti,” which, upon viewing of the documentary, takes on a solid meaning of “condanna a morte,” death penalty. With its introspective presentation of the facts by witnesses and victims and its sobering revelation of what is hidden behind the “solutions” sought in political and economic agreements, Come un uomo sulla terra challenges government and media reductive and essentializing practices, and rejects their attempts to dissolve people, facts, and governmental actions into the liquidity and vacuity of carefully crafted linguistic codes. The determination of the victims to speak out and record the tragic events into history, in what is clearly a painful repêchage of nightmarish memories, turns the experience into a compelling document. Their stories punctuate the map of a journey made of continuous attacks to the solidity of the human body and being, understood as self in relation to others. Yet despite the agony and anguish brought by physical deprivation, violence, and psychological warfare, in the face of the reiterated attempts to destroy the body through the degradation and humiliation of rape and torture, humanity is preserved by the logic of brotherhood and human alliance that is revealed as a recurrent element of the survivors’ stories (38). A brotherhood that gives purpose and meaning to their struggle even in the present and urges them in front of Yimer’s videocamera. The urge to report, to help those who are still in the Libyan prisons, is even greater than the shame, painfully evident on the faces of the protagonists and stronger than the depression that has befallen their silenced existences.

For Dagmawi Yimer, as for the many individuals that populate the documentary, the arrival in Italy coincides with the return to physicality, to solidity. Only by entering the European border can the survivors’ status as humans be restored (39). But before then, observes Yimer at the end of the documentary, Italy and Europe have enacted strategies, erected barriers to force the immigrants to succumb to a state of flux, of silence and, in due course, of non-existence. All the more important and significant is therefore the protagonists’ determination to resist, to denounce, and to challenge the system. Their narratives call the dead back to life in a process of re-membrance that involves the return of what was made liquid to a state of solidity, of what was degraded to a state of humanity, and what was silenced (40) to the possibility of agency and historicity.

Soltanto il mare

Dagmawi Yimer’s most recent documentary (2010) (41), metaphorically closes the circle of his immigration experience with his return to Lampedusa. The visit’s main objectives are revisiting the places of his arrival and meeting the residents to express his gratitude (42). What seems to be at first glance an ordinary project, a project that developed on site, as Yimer himself revealed in an interview (43), turns quickly into a more complex and multi layered undertaking. The main objective is to understand Lampedusa, a place that, for Yimer as for the multitude of the undocumented immigrants that landed there, had remained distant, concealed by the high walls, physical and psychological, that separated them from the island and the Lampedusani (Liberti 186) (44). The initial scenes reflect that distance, as the confused perception that both peoples, residents and immigrants, have of each other, is rendered in the juxtaposition of views of Lampedusa, observed through a framed opening where the island’s rocky landscape conflates with the sea, and voices, intersecting, overlapping, interweaving, in the phonic background. Soltanto il mare mirrors, albeit with different protagonists, the narrative of Come un uomo sulla terra.
There, Ethiopian refugees spoke of their ordeals to restore the tangibility of their suffering, the physicality of their being, here, the visit to Lampedusa is a journey of discovery, on both sides, of similar marginalities and silenced existences. Here, the protagonists are Italians but, as the Lampedusani recurrently lament in the documentary, Italians of sorts. All interviewed, men and women, young and seniors, express in fact frustration for a government that has forgotten them and exploited the island’s remote location (45). Their exasperation climaxes when they talk about the media, which they chastise for exaggerating and distorting the reality of the arrivals. The immigrant protagonist is also unique. This time, his trip started in Italy rather than in Africa. He travels with a name and documents to confirm it, he lands on the island as a resident, not as an illegal immigrant, as a director, not as a starved and dehydrated, unidentified body. Most crucially, this time he has brought his video camera, the same he used in his previous documentaries. A modest and yet important piece of equipment that can help him give Lampedusa solidity, historical presence, and to do so in a sort of psychological transfer, by giving the Lampedusani an opportunity to come in physical contact with an immigrant, the emblematic “other.” Soltanto il mare, with its openness of structure, its seemingly unstructured interviews of local fishermen, coast guard officers, authorities, and simple Lampedusani, quickly turns into a journey of discovery as the protagonists talk and look in each other’s eyes, discerning for the first time since the beginning of the arrivals, their own “otherness,” their historically and geographically determined brotherhood.

In his recently published volume A sud di Lampedusa, Stefano Liberti maps the routes that lead North African men and women, determined to find a solution to their basic economic needs, to the shores of the Mediterranean. Starting his exploration from Morocco, as far back as 2002, Liberti describes the content of his book as the product of an obsession, a drive that had led him to search for the reasons behind the “viaggi della disperazione” (journeys of desperation). His trips to Senegal, Niger, Mauritania, Algeria, Morocco, Turkey, and Lampedusa, reveal the economic reality of a continent devastated by corporate greed and by the aggressive hunt for natural resources, including land, water, and oil (46). In 2008, Liberti concludes his travels by landing on Lampedusa, where he is shocked to find that the island had separated the two communities, islanders and immigrants, rendering them invisible to one another.

Aveva ragione Giuseppe. Lampedusa era l’unico posto in Italia dove non c’erano gli immigrati. Era un centro di transito e nulla più. Fra i nuovi arrivati e gli abitanti del luogo c’era una sostanziale indifferenza. I locali non volevano sapere nulla de “li turchi,” ma non se la prendevano con loro… “Li turchi,” da parte loro, non vedevano nulla di quel luogo che tanto avevano sognato: una banchina al porto, qualche uomo nella divisa grigia della guardia di finanza, le sbarre del centro di permanenza temporanea. E poi la nave che li avrebbe portati via, sul continente. (Liberti 189)

Yimer’s words at the beginning of the journey and his interviews with the locals confirm Liberti’s surprising findings. Any contact, any relation between the two groups had been deliberately prevented. Their two marginalities had become two solitudes, while the relation of trust and compassion that was traditionally formed between the Lampedusans and the so-called “Turks,” the sailors landing for help on the island over the millennia, had been voided. What Yimer is attempting with this journey is thus more than a simple return, it is a revolutionary act aimed at reclaiming what risked to be lost amidst the liquidity of political narratives and media oversimplifications: the network of human relations which constitutes a collective’s dignity, historicity, and solidity. Yimer’s video camera moves sensitively, allowing the island and its residents to take shape in a variety of oblique narratives and borderline stories. Exploring the human as well as the natural surroundings, the director chances upon the unexpected, like the boat cemetery, the only document of the immigrants’ passage. Located in a remote part of the island, it contains the vessels, seemingly awaiting an improbable demolition, that transported the immigrants to the Italian shores. Yimer records Lampedusa’s many human dimensions in a non-hierarchical order, walking around town, meeting people on the streets, asking impromptu questions, letting men and women speak freely, spontaneously, inviting them to voice their issues unrestrainedly. As in Come un uomo sulla terra, Soltanto il mare shows a predilection for extreme close up shots that give the Lampedusani center stage, allowing them to articulate their experiences, explain their bond to the sea, and assert their disparate views of the immigrants from the point of view of their own physicality, of their own body. What gradually saturates the scenes, as in the preceding documentary, is the sense of solidarity that results from the articulation of language, which recovers the meaning of the “Turk’s” humanity and the consciousness of the dangers and perils s/he faces when forsaken at sea. A regained understanding that does not hide a measure of perplexity and anger at the situation, as they begin to recognize that the inability of the state to help both communities has produced a distance and a silence that cannot be breached.

Intensely and straightforwardly, the Lampedusan communicate their down-to-earth humanity, exemplified in their battle for survival, yesterday at sea, today against political isolation and media falsifications. There is in their voices no sentiment of impotence, their participation is not that of the “defeated,” their perspective is ingrained in solidarity and brotherhood (47) that refuses any subordination to the existing. The video camera solicits them to a method, to the articulation of language, engages them in a narrative. The camera has empowered the actors to become individuals, its reversed gaze aimed at giving voice and not at silencing, by re-personalizing the island and filling the void produced by misinformation, by describing situations and not disguising truths or manipulating facts. A reversed gaze that Yimer develops from the first scenes of the documentary’s preview, where the close up shot of the sea leads gradually to the inclusion of his off-centered face, his eyes looking first down, to the waters, and then up to the sea cliffs of the island, foreshadowing a radically new epistemological experience. Soltanto il mare, like Come un uomo sulla terra, is deeply rooted in solidity. The view from the sea appears only in the introductory scenes while for most of the narrative the gaze is firmly positioned on the land. In Come un uomo, the necessity of solidity was stressed from the start, in the title itself. In Soltanto il mare (Only the Sea), solidity is illustrated in the recurrent scene of a jogger crossing the island at different times of day. A symbolic leitmotiv embracing Yimer’s manifold messages: life as a journey to a “terraferma,” as anguished motion towards being, as existential understanding. Soltanto il mare is the materialization of Yimer’s resolve to re-membrance, as the recovery of a perfectly preserved female body from the sea in Io l’altro illustrated Mohsen Melliti’s determination to remind his viewers of the solidity of the immigrant’s agony (48). Yimer’s journey emblematically projects humanity against the background of a natural surrounding that transcends the limits of history. The sea is that wider horizon in Soltanto il mare as in Come un uomo sulla terra the earth was that land without borders.

Conclusions: From Abstraction to Concretization of Reality

While abstraction gives the illusion of domination of reality in fact it distances the subject from the object, or, as in this case, from the other subject and its complexity. This is the deleterious consequence of media oversimplified linguistic codes, of political misrepresentation of the reality. Their semantic modes geared to the separation of what is not separable. Yimer’s objective in his visual narratives is to reclaim the body through the account and portrayal of suffering, a condition that was estheticized and reduced by the media into a fragmented common place devoid of linguistic articulation. The voices of the protagonists, in both documentaries, are able to restore the unity of the body through the repossessing of its organic reality. By recounting the stages of their suffering the protagonists recover what media narratives had rendered fragmented, disconnected, and empty. Their stories re-establish in the viewers the sense of the intolerable and simultaneously leave space to the regeneration, the re-building of a reality alternative to that promoted by the media. Truth, virtue, and organic knowledge derive from a gaze that is still able to recognize good and to pursue it. In Carla Benedetti’s words,

Nelle descrizioni di potere occorre eitare il punto di vista cosiddetto ‘oggettivo’. L’osservatore è sempre dentro, e si deve sentire che lo è. Altrimenti la sua parola non avrà abbastanza forza né di critica né di verità. Lo sguardo dei colonizzati è anche il punto di vista di chi non ha cancellato il bene, il punto di parola del parresiasta… del poeta… Significa collocarsi e far crescere una zona di forza della parola, del pensiero, della virtù, della verità: una zona piena, che è la forma organica della conoscenza. (Benedetti 55)

Lampedusa and the Mediterranean are symbols, complex and evocative, of the contemporary human condition, and at the same time provocative places from where we can start to re-imagine both Italy and Europe. Like in Emanuele Crialese’s most recent movie, Terraferma (2011), Europe seems to oscillate between two opposite conditions: that of “terraferma” as firm ground after so much liquidity, a safe landing that offers the possibility of a new life for the immigrant and the possibility to realize a different European citizenry, and that of “terra ferma,” an unwelcoming, indifferent, barren, dead place, unable to open itself to new challenges. Yimer’s documentaries point in the first direction. There, Lampedusa emblematizes a place where marginalities meet and speak out to resist annihilation. A place that restores solidity, agency, a “terraferma” to contrast the funereal oblivion of the sea depths, where the “legitimate” governments of Europe and the hegemonic structures of power would compel the unwanted and unwelcome, the Baumanian “human waste,” to lie without history or memory (49).

 

(1) See Jodi Hilton: “Tunisians, Italians find a common bond in a cup of coffee,” Globalpost, March 3, 2011, http://www.globalpost.com/dispatch/news/regions/europe/italy/110302/italy-immigration-lampedusa-tunisia.

(2) Two years prior to the most recent events, in 2009, the camp experienced the same overcrowding: “The UNHCR said the camp is so crowded that many detainees are sleeping in tents or under plastic sheets. According to the UNHCR, around 36,000 boat people made it to Italian soil last year – a 75 per cent increase compared to 2007 figures. Italy took more than half of the 67,000 immigrants who arrived by sea in Europe last year. The majority of Italy’s illegal immigrants – around 31,000 – arrived on the island of Lampedusa, with others reaching Sardinia, Sicily and the Italian mainland.” See Nick Squires, “1,000 Immigrants Break Out of Detention Centre on Italian Island of Lampedusa,” The Telegraph (24 January, 2009), http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/europe/italy/4332592/1000-immigrants-break-out-of-detention-centre-on-Italian-island-of-Lampedusa.html.

(3) Few facts about Lampedusa: reasons for arrival to the island are civil wars, tyrannies, hunger and hopelessness in Somalia, Eritrea and in Sudan. More and more refugees arrive in poor health. Often they have injuries or burns caused by the boat engines. For the most part they are dehydrated and suffer from heat stroke. Hundreds of refugees don’t survive the trip due to dehydration or exhaustion. Deaths: In 2008 the Refugee Council officially registered 649 dead boat people on the coast of Lampedusa but the real numbers are much higher. It is unknown how many boats sank unnoticed. Fortress Europe reports that more than 17.000 immigrants died since 1988 on their journey to Europe: Gabriele del Grande writes: “Giorno per giorno, da anni, il mare di mezzo è divenuto una grande fossa comune, nell’indifferenza delle due sponde del mare di mezzo. Dal 1988 almeno 18.856 giovani sono morti tentando di espugnare la fortezza Europa, dei quali 2.049 soltanto dall’inizio del 2011. Il dato è aggiornato al 16 marzo 2012. Ne abbiamo le prove.“ http://fortresseurope.blogspot.com/p/fortezza-europa.html.

(4) Since Spain has sealed off its southern border, the Strait of Gibraltar and the Spanish enclaves Ceuta and Melilla forbid every passage, Lampedusa is European’s first shelter for refugees from Africa.

(5) In 2005, a journalist of the magazine “L’Espresso,” Fabrizio Gatti, lived 8 days disguised as Kurdish refugee in the Detention Centre on Lampedusa. Gatti kept a diary, later published, which revealed a series of serious violations of human rights: refugees were horribly abused and humiliated during the examination by the police. Hygienic conditions in the center were catastrophic, just salt water, no doors, no toilet paper, electricity or privacy. No refugee was brought before a judge although this is required by Italian law. “Io, clandestino a Lampedusa,” L’Espresso, 7 ottobre 2005, http://espresso.repubblica.it/dettaglio/io-clandestino-a-lampedusa/2104770.

(6) An Emergency communiqué denounced unequivocally the situation on the island: “Quello che sta succedendo a Lampedusa è figlio di una politica criminale che da molti anni i governi di questo paese stanno attuando nei confronti dei migranti. Migranti che, oltre a essere privati dei più elementari diritti umani, vengono deliberatamente usati per esasperare gli animi, costruire “diversi” e “nemici”, alimentare guerre tra poveri… La tensione e la violenza delle ultime ore, a Lampedusa come a Pozzallo sono l’inevitabile conseguenza della politica di un governo che tratta gli stranieri come criminali, come problema di ordine pubblico, come bestie. Il sovraffollamento delle strutture, la carenza di assistenza di base, la privazione dei diritti fondamentali, oltre a essere una vergogna per un Paese che si vuole definire civile, comportano inevitabilmente l’inasprirsi del disagio e della violenza… Confidiamo che i cittadini italiani abbiamo la ragionevolezza e l’umanità che finora è mancata al governo, quell’umanità che permette di capire che gli ‘stranieri,’ i ‘clandestini,’ i ‘migranti stagionali’ sono, prima che qualsiasi altra cosa, semplicemente ‘persone,’ esseri umani. E come tali devono essere trattati.”

(7) See the article by Alessio Genovese, Hanno insabbiato tutto. Prove di regime a Lampedusa (30 September 2011), http://fortresseurope.blogspot.com/2011/09/hanno-insabbiato-tutto-prove-di- regime.html#more.

(8) Regarding the transformation of the Centri di Permanenza Temporanea (CTP) into Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), the report provided by the Global Detention Project Programme for the Study of Global Migration of the Graduate Institute of Geneva (global.detention.project@gmail.com – www.globaldetentionproject.org) states: “In May 2008 the then-newly elected Berlusconi government declared a “state of emergency” in Italy, citing among other issues the “persistent and extraordinary influx of non-EU citizens” and the presence of Roma and Sinti nomadic communities. The declaration had a significant impact on the country’s migration detention practices. Following the declaration, the government adopted a “Security Package” aimed at facilitating expulsions, introduced a law criminalizing unauthorized presence in the country, and renamed the CPTs to “Centri di identificazione ed espulsione” (CIE), or “Identification and Expulsion Centres” (Massimo Merlino,”The Italian (In)Security Package Security vs. Rule of Law and Fundamental Rights in the EU,” CEPS Challenge Paper No. 14, 10 March 2009, Archive for European Integration, AEI, http://aei.pitt.edu/10764/). Among the penalties introduced was imprisonment “Moreover, Art. 1 of the new law decree has established that an individual “who doesn’t conform to the expulsion order issued by the judge is liable to one to four years of imprisonment” (p. 6). The military was also commissioned to perform immigration-related police operations across the country as the plan “foresees the use of 1,000 soldiers for the surveillance of the Centres of Identification and Expulsion.” Lastly, the status of “illegal migrant” was added to the list of aggravating circumstances (Art. 1(f)) of the Italian penal code (Merlino 2009, cit., pp. 7-8).

(9) The Italian government bears the largest responsibility for the dramatic events occurring on Lampedusa since 2008, when, with a ministerial decree, it transformed the “Centro di accoglienza” into a detention and expulsion center. This change of status is reminiscent of what the island was from 1872 until Fascism, a sort of penal colony, where intercepted Libyan migrants on the way to Italy were detained until their deportation (Gabriele del Grande, Il mare di mezzo, Roma: Infinito, 2010, p. 165).

(10) Exactly a year after the events, Giovanni de Luna’s article in Repubblica’s Venerdì’s magazine (“Ma come è stato possibile credere all’imbonitore?” Il Venerdì, April 13, 2012, 1256: 57) dissects Berlusconi’s speech, now notorious as “Il discorso di Lampedusa,” examining the series of lies, false promises, and bizarre plans shouted by the former Prime Minister through a loud speaker in front of a worshiping and subservient audience made up for the most part of local authorities. See http://www.youreporter.it/video_BERLUSCERTOLA-LUI_SBARCA_A_LAMPEDUSA_- _30_Marzo_2011_1.

(11) Why Lampedusa Matters: http://www.globalconversation.org/2011/03/13/why-lampedusa-matters.

(12) In a RaiTre news report, dated Jun 20, 2011, the High Commissary for the UNHCR, Antonio Guterres, reiterated the UN’s firm rejection of any “respingimenti” as envisioned and recommended by the Lega Nord at the 2011 Pontida meeting. In addition, the UN strongly discouraged the Italian government from criminalizing the refugees and from spreading fear and panic to alarm and frighten its citizens. http://www.youtube.com/watch?v=F4ouXUjg_DQ

(13) The expression was repeated recently, during the Libyan civil war, when Muhammar Ghadafi threatened Italy and Europe to release all undocumented immigrants from Libyan jails. Following the threat, Italian Minister of Interior, Roberto Maroni, informed the media that Italy was expecting an exodus of “biblical proportions.” See Francesca Angeli, “È un esodo biblico» Maroni all’attacco: l’Europa ci lascia soli,” Il Giornale, February 14th, 2011, http://www.ilgiornale.it/esteri/_esodo_biblico_maroni_allattacco_leuropa_ci_lascia_soli/14-02- 2011/articolo-id=505860-page=0-comments=1

(14) “È netta la presa di posizione dell’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Navi Pillay, sui cosiddetti respingimenti. «Basta criminalizzarli» – «La pratica della detenzione dei migranti irregolari, della loro criminalizzazione e dei maltrattamenti nel contesto dei controlli delle frontiere deve cessare. Oggi – aveva sottolineato Pillay – partendo dal presupposto che le imbarcazioni in difficoltà trasportano migranti, le navi le oltrepassano ignorando le suppliche d’aiuto, in violazione del diritto internazionale.” “L’Onu contro i respingimenti: “Violano il diritto internazionale,” Corriere della sera, May 14th, 2009. http://www.corriere.it/politica/09_settembre_14/onu_respingimenti_violazione_diritto_2d556380-a12c- 11de-9cad-00144f02aabc.shtml

(15) Hawthorne reflects also on the power of new technologies to forge new paradigms and new patterns of resistance, when asking: “How are technology, transnational connectedness, and social media changing the nature of borders? At a time when new media tools are allowing sentiments of political dissatisfaction to spread rapidly across borders, how will this impact patterns of migration and official responses to them? (Why Lampedusa Matters: http://www.globalconversation.org/2011/03/13/why-lampedusa-matters).

(16) See Jean Foucault, Présentation, in Imaginaire du jeune méditerranén, vol. 31, Paris: L’Harmattan, 2002, p. 11, and Orhan Pamuk, La mer blanche est d’azur, in À propos de la Méditerranée, Paris: Librio, 1998, pp. 43-47.

(17) The political and resistance movements that produced the Arab Spring have had as a corollary of new departures from the ports of Tunisia and Libya. A series of documentaries and news reports follow the protagonists and track their stories. From Tunisia (http://fortresseurope.blogspot.it/2011/08/via-dalla- tunisia-biglietto-di-sola.html; http://fortresseurope.blogspot.it/2011/11/i-nostri-anni-migliori.html), From Libya (http://fortresseurope.blogspot.it/2011/12/non-e-ora-di-dormire.html), from Eritrea and Ethiopia through Libya (http://fortresseurope.blogspot.it/2011/09/un-video-mostra-il-ruolo-di-gheddafi.html; http://la1.rsi.ch/_dossiers/player.cfm?uuid=7e867bda-549b-4d7c-8082-800f6eea8a7a.

(18) See Gabriele del Grande, Il mare di mezzo, pp. 130-3, reports the loss at sea of a boat with 89 immigrants, between the 28 and 31 of August 2010. The loss of 89 lives was the result of negligence on the authorities on both sides of the Mediterranean and of the indifference of the many fishing crews that saw the boat but did not intervene.

(19) Cit. http://fortresseurope.blogspot.it/p/fortezza-europa.html and Gabriele del Grande’s Blog, “La strage negate,” http://fortresseurope.blogspot.it/p/la-strage-negata-17317-morti-ai-confini.html.

(20) I borrow the term from Marc Augé: “Si un lieu peut se définir comme identitaire, relationnel et historique, un espace qui ne peut se définir ni comme identitaire, ni comme relationnel, ni comme historique définira un non-lieu.” Marc Augé, Non-lieux, introduction à une anthropologie de la surmodernité. La Librairie du XXe siècle, Paris: Seuil, p. 100.

(21) See Enrico Montalbano, Emanuele Guida e Dario Riccobono’s 2009 video Lampedusa: Isola senza diritti: http://fortresseurope.blogspot.it/2005/12/lampedusa-isola-senza-diritti.html.

(22) See Coluccello, Salvatore and Simon Massey. “Out of Africa: The Human Trade Between Libya and Lampedusa”, Trends in Organized Crime, 10, 2007: 77-90. It is interesting to note here that the authors of the article utilize the liquid metaphor to describe the different, more diffuse and flexible structure and of organized illegal immigration: “The networks involved in this trade, however, do not conform to mafia-like hierarchical organizations but rather smaller, more complex and fluid criminal networks” (77).

(23) For a complete and comprehensive report of the human rights violations perpetrated in the Lampedusan CIE see http://fortresseurope.blogspot.it/2012/01/lampedusa-le-immagini-dei-pestaggi.html.

(24) “Youth in Lampedusa are even using Facebook to protest against the media’s exaggerated coverage of their island, fearing that overwhelming negative reports will have a harmful economic impact on the area’s tourism industry” (Hawthorne, Why Lampedusa Matters, cit.).

(25) For more historical background on the contested Ethiopian national elections of 2005 and the ensuing protests see Lahra Smith, Political Violence and Democratic Uncertainty in Ethiopia, USIP-United States Institute of Peace, Special Report, August 2007, pp. 1-20.

(26) For information about the documentary and its project see Marco Carsetti and Alessandro Triulzi, Come un uomo sulla terra. Book and DVD. Rome: Infinito, 2009.

(27) On February 2, Fortress Europe reports of leaked documents dated May 14th, 2009 (ten days after the implementation of the first “respingimenti”), discussing Secretary of the Interior Maroni’s policy. In the documents, the American ambassador in Tripoli, Gene Cretz, informs Washington of three episodes (7-9- 10 of May), confirming that in the first two cases the Italian Coast Guard returned the boats to the Libyan port. The European Court has opened an investigation based on the class action suit started by 24 Eritrean and Somali citizens against the government of Italy who deported them back to Libya on May 7th 2009. The court has requested the transmission of the case to the Higher Chamber, in view of the delicate matter at hand. The European migration laws of the last ten years are in fact in clear violation of the European Charter of Human Rights, that expressly prohibits collective deportations and recognizes the right to political asylum and the right to a trial in case of violation. The 24 deported, some of whom are still detained in Tripoli, were denied all these rights. Cfr. Gabriele del Grande, “Wikileaks: il cable sui respingimenti in Libia,” February 2nd, 2011, http://fortresseurope.blogspot.com/2011/02/wikileaks-il-cable-sui-respingimenti-in.html.
The respingimenti have officially ended but they continue amid the complete silence of the traditional media, as reported in an article by Moira Fusco on September 1, 2011: “Ancora respingimenti in mare, violate le normative,” Voci Globali. http://vociglobali.it/ancora-respingimenti-in-mare-violate-le-normative/.

(28) The word sanitize returns in the many “sanatoria” laws devised by the Italian government since the beginning of the immigration phenomenon. See Graziella Parati, Migration Italy. The Art of Talking Back in a Destination Culture. Toronto: University of Toronto Press, 2005.

(29) In reality, the number of immigrants coming on boat from North Africa is rather negligible, 15% of all arrivals from the continent. The majority of immigrants arrive by plane, with a regular visa whose expiration will be ignored. The majority of those arriving to Italy by boat cannot receive a visa from their home country. Eritrea is a good example of that. Besides not having offices granting visa, it considers emigration a crime punishable with forced labor (cfr. Liberti 2011b 203).

(30) Selex, a group controlled by Finmeccanica, was committed to provide “un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche,” with a contract that would allow the Italian conglomerate to make lucrative business in a country rich in natural resources but rather poor in infrastructure. In exchange, however, the Libyan government (through LIA, the Lybian Investment Authority), was going to acquire up to 3% of Finmeccanica, thus obtaining dangerous influence (with imposition of trusted Gaddafi men in its CDA) over the second largest Italian holding that controls the main industries in the military, aeronautical, and spatial sectors. See Antonio Mazzeo, “Gheddafi e il controllo dell’industria militare italiana,” ‘U Cuntu, March 16th, 2011 http://www.ucuntu.org/Gheddafi-e-il-controllo-dell.html.

(31) See Alessandro Triulzi’s “Like a Plate of Spaghetti. Migrant Narratives from the Libya-Lampedusa Route,” in Long Journeys. African Migrants on the Road, Leiden: Brill, 2013, pp. 213-232.

(32) See Giorgio Agamben, Homo Sacer. Sovereign Power and Bare Life, trans. by Daniel Heller-Roazen. Stanford: University of California Press, 1998, p. 8. The following quote from Aristotle’s Politics is taken from Agamben, on the same page.

(33) This is also the objective behind the project of Archivio Memorie Migranti, as Alessandro Triulzi explains in “Per un Archivio delle memorie migranti, Made in Italy. Migrazioni e identità,” in Zapruder, n. 28, 2012, pp. 118-123. See also www.asinitas.org

(34) As reported in the documentary, Italy had also earmarked several million euros in his budgets to confront the problem of illegal migration. Both the Berlusconi and the Prodi government, in a spirit of bipartisanship, had set aside, respectively, twenty three million Euros in 2005, twenty million Euros in 2006 (Berlusconi government), and six million Euros in 2007 (Prodi government). See Come un uomo sulla terra, cit. In addition, Hawthorne reports that at the end of February 2011, at the behest of the Italian government, Frontex deployed Operation Hermes to assist with the management of recent immigrants. Why Lampedusa Matters, cit.

(35) According to the European Mission’s report of 2004, Al Kohfra is one of the three centers for illegal immigrants erected in Libya thanks to the Italian funding: “In 2003, Italy also supported the construction of a reception centre for illegal immigrants in Libya, and the construction of additional camps is planned.” See the European Commission’s Technical Mission to Libya on Illegal Immigration. 27th Nov-6th Dec 2004, Report, p. 15. On page 24 of the same document visits to various sites in Libya, included Kohfra, are “suggested.”

(36) For a detailed story of the recent transformation of the Sahara as outpost of the Mediterranean with its own well developed migrant transit economy based on violence, illegal trafficking, and brutal profit making see Bensaad Ali, “The Mediterranean Divide and its Echo in the Sahara: New Migratory Routes and New Barriers on the Path to the Mediterranean,” in T. Fabre & P. Sant Cassia (eds.), Between Europe and the Mediterranean. London: Palgrave, 2007, pp. 51-69.

(37) My translation: “Come risultato della visita nelle regioni desertiche della Libia meridionale, i membri della missione hanno potuto apprezzare tanto la grandezza quanto la varietà del deserto.” Come un uomo sulla terra, cit.

(38) One of the female protagonists talks about repeated suicide attempts that are prevented by the group. In this case, the strength and attention of the collective were larger than that of the single individual. It would be interesting to study these episodes in depth as they reveal the power of collective care.

(39) One has to remember that many of these illegal immigrants will be recognized by the UNHCR as asylum seekers and given the status of political refugees, as is the case for the author of the documentary.

(40) The silencing of illegal immigrants continues in Italy as reported in the news. In April 2012, the picture of a gagged Tunisian immigrant being repatriated on an Alitalia plane directed to Tunis has surfaced on the web and caused a scandal. In Michela Marzano’s article, “La compassione e le regole” (Repubblica, April 19, 2012: 1-38), the philosopher reflects on the symbolic meaning of gagging a human being. Depriving a person of the power of language is not, Marzano asks, like depriving him/her of humanity? I would argue that the answer to Marzano’s question is well known by Italian authorities as they unfortunately resort daily to such dehumanizing practices in confronting the phenomenon of immigration. The snapshot taken on the Alitalia flight, we can easily presume, reveals just the tip of the iceberg of a series of deliberate violations of human rights carried out daily in Italy at the expense of immigrants.

(41) The documentary was made in collaboration with Giulio Cederna and Fabrizio Barraco and was produced by Prof. Alessandro Triulzi and Marco Guadagnino, with the support of Fondazione lettera27 and in collaboration with the Archivio delle Memorie Migranti Asinitas Onlus.

(42) “The documentary is based for the most part on the island of Lampedusa, where I arrived in 2006. I came back to see it again and to understand it. This island has a close link with my present life in Italy. It is a land that has a physical and symbolic meaning for many others like me and that is why I returned, to see it and to meet the people that live here.” (My translation) Dagmawi Yimer’s interviewed at Milano Film Festival 2010. See: http://www.youtube.com/watch?NR=1&v=wclLgLmP1c0.

(43) In a recent interview, Yimer reflected on the fact that the documentary took shape during his six-day stay on the island. Only after his visit, the director began to organize the pieces of the trip (See: “Intervista a Dagmawi Yimer,” Milano Film Festival 2010.

(44) “Lampedusa sembrava avvolta in una bolla assurda e contraddittoria: quello per cui era nota in tutta Italia, e ormai nel mondo intero, non si vedeva… L’isola viveva di un enorme rimosso. I lampedusani tendevano a ignorare gli immigrati che sbarcavano sulle loro coste. E lo stato, per non suscitare problemi, li nascondeva, cercava di renderli il meno appariscenti possibile” (186).

(45) It is not by chance or accident that Lampedusa has become the destination of so many arrivals. Its marginal, out-of-the-way location made it an ideal “centro di concentramento e smistamento” for undocumented immigrants. As Stefano Liberti discovered (A sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti. Roma: Minimum Fax, 2011), no immigrant arrives to the shores of the island by himself, but is rather funneled there by the Italian Coast Guard: “Perché… arrivano tutti a Lampedusa? Perché si vanno a recuperare le barche anche quando sono a cento miglia dall’isola, magari dirette da tutt’altra parte? Perché si vuole evitare che sbarchino in Sicilia, o magari a Pantelleria, l’isola dei vip” (190).

(46) In his latest volume, Liberti continued his search delving deeper in the issue of immigration to substantiate with data that the neocolonial invasion of Africa has impoverished and risks to starve entire populations. See Land Grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo. Roma: Minimum Fax, 2011.

(47) The notion of brotherhood is central to Soltanto il mare as it was in the previous documentary. Among the many significant encounters Yimer includes in his narrative is that with a shipwright. After telling his personal story of migration, Giuseppe Balistreri reveals that he is also the author of a short film: Quello è mio fratello (That is my brother). Centered on the very issue of “clandestini,” illegal immigrants, the movie elaborates the question of brotherhood as the protagonists gradually recognize that loving and caring need to exceed the limits of parental love, a father’s love for his son in this case, to reach a universal dimension of love and care for the br”other.” See Soltanto il mare, cit.

(48) The figure of the jogger, whom the filmmakers followed every morning at dawn, in his running tract around the island, came to signify the possibility of a new day, of a new experience (“Intervista a Dagmawi Yimer,” cit.).

(49) Cfr. “Intervista con Emanuele Crialese,” Sept. 5th, 2011, Mostra internazionale di arte cinematografica, Biennale di Venezia. http://www.youtube.com/watch?v=LRi37PzI75k&feature=related.

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«Middle passages», musealizzazione e soggettività a Bristol e Lampedusa

di Gianluca Gatta, Giusy Muzzopappa

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Introduzione (1)

In questo saggio saranno confrontati due contesti molto diversi ma allo stesso tempo accomunati da recenti processi di musealizzazione dei passaggi di soggetti razzializzati: il middle passage atlantico e quello mediterraneo. Da un lato Bristol e le iniziative, istituzionali e non, di patrimonializzazione della tratta degli schiavi. Dall’altro Lampedusa, isola che negli ultimi vent’anni è stata il simbolo dell’attraversamento del Mediterraneo da parte di migranti africani (ma non solo) e in cui oggi si tenta di riconoscere la dignità di quel passaggio, salvandolo dall’oblio attraverso un’operazione consapevole di contro-narrazione e musealizzazione dal basso. Entrambi i fenomeni sono stati e sono al centro di polemiche e contestazioni. La giustapposizione tra due vicende – una che il dispositivo museale vuole conclusa e dunque consegnata alla storia, l’altra ancora chiaramente in atto ed esposta al lavorio della cronaca – può consentire di riflettere su forme diverse di costruzione di memorie postcoloniali, tra una «storia del passato» le cui ferite sono oggetto di continui tentativi di cucitura e riapertura, e una «storia del presente» di cui si inizia a sentire l’esigenza di memoria, per resistere a quei processi di rimozione che accompagnano la produzione di corpi desoggettivati.

1. Nel corso degli anni novanta la città inglese di Bristol ha visto la nascita e lo sviluppo di una serie di iniziative connesse alla «riscoperta» di un capitolo della storia cittadina rimasto in larga parte nell’ombra: il ruolo della tratta degli schiavi nell’espansione della città in età moderna. Nel giro di pochi anni, la «memoria oscurata» diventa attrazione turistica (2). Questo cambiamento repentino ha visto intersecarsi tra loro istanze dal basso portate avanti da gruppi di residenti e interventi dall’alto orchestrati dalle istituzioni locali, in un continuo dialogo, e spesso scontro, tra narrazioni istituzionali e contro-narrazioni espresse da specifiche comunità di residenti. Nel 1996, nel corso del Festival of the sea, destinato a celebrare i fasti della storia marittima della città, diversi gruppi di cittadini contestano apertamente l’assenza di qualsiasi riferimento alla tratta degli schiavi. Lo stesso accade l’anno successivo, nel corso delle celebrazioni dei 500 anni dal viaggio di Giovanni Caboto che, partito proprio da Bristol nel 1497, approdava sull’isola di Terranova qualche settimana dopo, «scoprendo» l’America settentrionale per conto della Corona inglese. È soprattutto la comunità di St. Paul (il quartiere più densamente popolato da residenti di origine caraibica) a farsi sentire nel corso di alcuni vivaci dibattiti pubblici con le istituzioni locali. Di lì a pochi mesi nasce il Bristol Slave Trade Action Group (BSTAG), un gruppo informale patrocinato dal Bristol City Council Leisure Service (l’equivalente di un assessorato al Turismo), formato da rappresentanti delle istituzioni e della locale comunità nera, da insegnanti e da accademici. Gli esiti più importanti di un serrato calendario di dibattiti pubblici si concretizzano in chiave museale. Tra le varie iniziative figura un’importante mostra allestita dal marzo al settembre del 1999 nel City Museum & Art Gallery, intitolata A respectable trade? Bristol & the transatlantic slavery (in parte trasferita presso l’Industrial Museum di Bristol, dov’è rimasta in esposizione fino al 2005, e attualmente inglobata nel nuovo museo MShed, dedicato alla storia della città). Con il nuovo millennio la storia della tratta non è più un tabù, ma è diventata heritage, patrimonio, attrazione turistica adeguatamente pubblicizzata nei dépliant turistici (3).

Negli anni novanta, mentre a Bristol si avvia questo processo di musealizzazione, a Lampedusa ha inizio il fenomeno sbarchi. In poco più di un ventennio la presenza/assenza dei migranti ha assunto diverse forme. In una prima fase, dai primi anni novanta al 1998 (quando entrò in vigore la legge Turco-Napolitano che istituì i Centri di detenzione amministrativa) sull’isola approdavano liberamente giovani tunisini che si riversavano per le strade del paese e ricevevano un’accoglienza improvvisata dalla popolazione locale e dalle forze dell’ordine. In seguito, con la strutturazione di un dispositivo umanitario-sicuritario di controllo delle migrazioni, agenti specializzati hanno provveduto all’intercettazione delle barche in mare e alla presa in carico dei corpi migranti, limitando il contatto diretto con la popolazione locale e i turisti a brevi segmenti delle operazioni di trasferimento. Questa seconda fase ha coinciso, in particolare dal 2002, con l’attivazione della rotta libica, sulla quale oltre ai migranti tunisini viaggiavano persone provenienti da svariati paesi africani e asiatici. Il ventaglio delle provenienze si allargava, mentre paradossalmente i migranti arrivati sparivano dalla quotidianità di Lampedusa per trasferirsi nello «spettacolo del confine» (4), imbastito dalle narrazioni mediatiche degli sbarchi (5).
Recentemente questo modello si è parzialmente incrinato in seguito ai tentativi governativi di trattenere a Lampedusa le persone arrivate, evitando o rallentando i consueti trasferimenti in altri centri italiani. Nel 2009 ciò ha provocato forti proteste da parte dei lampedusani e di gruppi di migranti temporaneamente allontanatisi dal Centro. Questo nuovo incontro faccia a faccia ha dato vita a forme inedite di rivendicazione locale; il fantasma del «clandestino» ha preso di nuovo corpo materializzando anche le sue istanze. La politica dei respingimenti in mare, attuata nella primavera dello stesso anno, ha in un primo momento posto fine agli sbarchi, ma l’esplosione nel 2011 delle cosiddette «primavere arabe» e del conflitto libico ha scompaginato l’assetto geopolitico delle migrazioni mediterranee con nuove partenze. Il governo italiano ha rimesso in campo l’idea di Lampedusa come punto di stoccaggio ad libitum dei migranti in attesa di rimpatrio, provocando forti tensioni sull’isola. Lampedusa è diventato un laboratorio che produce e mette in scena «scontri di civiltà», ma non sempre questa tendenza ha buon gioco, come dimostrano alcune forme molto interessanti di elaborazione locale del fenomeno. Le reazioni locali all’arrivo dei migranti possono essere schematizzate in tre modelli.
Il primo, veicolato dalla Lega Nord locale guidata da Angela Maraventano, riproduce gli stereotipi e i pregiudizi settentrionali verso un Meridione parassitario e pigro, finendo per applicarli in chiave razziale sia ai siciliani/lampedusani sia ai migranti. Tuttavia mentre i lampedusani hanno avuto «la fortuna» di migliorarsi, grazie al turismo e, implicitamente, al benefico contatto con i turisti settentrionali, i migranti restano privi di autocoscienza, impantanati nelle oscure pratiche dell’assistenza umanitaria, quando non perdono scelleratamente in mare la propria vita svalorizzata. L’identificazione siciliani/africani tende a perpetuare il confine Nord/Sud, legittimando così l’intervento civilizzatore leghista sull’isola; il contemporaneo distanziamento tra lampedusani e migranti sottolinea invece il confine tra un Sud migliorabile e un Sud sprofondato nella sua infantile incapacità di crescere. Un altro modello denuncia invece la subalternità dei lampedusani nei confronti del resto del paese. La Lega Nord è parte centrale del governo e veicolo di quel razzismo alla base delle discriminazioni subite dai lampedusani. Il trattamento dei migranti a Lampedusa non sarebbe altro che la conferma del carattere razzista dei centri di potere nazionali e settentrionali. Si riconosce dunque la razzializzazione che soggiace alle politiche nei confronti dei migranti e dei lampedusani, ma il rapporto tra i due gruppi è implicitamente vissuto come concorrenziale. Un terzo modello, più recente, è maturato durante le proteste del 2009 e si ispira a quelli che Mellino chiama «cosmopolitismi dal volto umano» (6). In questo caso, il recupero della memoria delle migrazioni e della subalternità stempera il confine tra lampedusani e migranti, solidarizzando con questi ultimi e riconoscendone aspirazioni e desideri autonomi, per vivere diversamente l’isola. È nell’ambito di questo terzo approccio che è germogliata l’idea di un museo delle migrazioni a Lampedusa.
L’artista lampedusano Giacomo Sferlazzo, da sempre impegnato a setacciare discariche in cerca di relitti da trasformare in oggetti d’arte, nel 2005 si imbatte nei legni dei barconi dei migranti. La questione immigrazione era ormai così pervasiva da conquistare la sua arte che, a partire dai fatti del 2009 e in particolare con la nascita dell’associazione Askavusa («scalzo» in dialetto locale), acquisisce progressivamente i tratti della militanza politica: «bisognava conservare queste cose, perché sarebbero state distrutte, insieme alle barche, insieme a tutto il resto» (7). «Tutto il resto» che rischiava di perdersi insieme ai legni fradici è la memoria di un ventennio di pratiche di negazione della soggettività delle persone in transito su un’isola le cui lacerazioni interne si sono inevitabilmente fuse con la questione sbarchi. L’idea di un museo delle migrazioni nasce proprio a ridosso delle proteste del 2009 e dell’avvio della sciagurata «politica dei respingimenti» che per quasi un anno ha annullato l’arrivo dei migranti sull’isola. Non a caso quando il fenomeno sembra esaurirsi nasce il bisogno di salvarne le tracce. Questa immagine del salvataggio la ritroviamo operante, infatti, anche alla base delle principali storie di acquisizione che hanno costruito nel corso del tempo le collezioni etnografiche nei musei europei, il salvataggio dalle macerie provocate dall’ingresso dell’Altro nella modernità occidentale. Anche se a Lampedusa la dimensione metaforica del salvataggio delle tracce si mescola in maniera inquietante con quello materiale dei corpi e degli oggetti. Poi gli sbarchi sono ripresi e il processo di musealizzazione si è ritrovato imbricato in una nuova cronaca quotidiana degli arrivi.

2. Attualmente il «museo» di Lampedusa è uno spazio provvisorio allestito in una stanza di una decina di metri quadri che fa da ingresso alla sede di Askavusa. Dal soffitto, coperto da un telo blu, pendono delle scarpe; sulle pareti le opere d’arte di Sferlazzo si alternano con altri oggetti; sulla destra una bacheca di legno raccoglie cose più piccole: spazzolini, pentole, musicassette, pacchi di pasta, libri sacri illustrati, carte da gioco, portafogli, pettini, accendini, qualche foto sbiadita. In un angolo, a terra, sono accatastate delle coperte colorate, tra cui è possibile scorgere uno di quei teli isotermici di soccorso usati all’arrivo. Nell’altro angolo degli indumenti sono piegati e impilati con cura come in un grande magazzino. Nonostante gli organizzatori sottolineino come il museo sia ancora in formazione e manchi una strutturazione vera e propria degli spazi, salta agli occhi la giustapposizione di elementi connessi alla nuda vita (strumenti del soccorso, cibo ecc.) con altri che lasciano intravedere le soggettività dei loro proprietari: una coperta ricamata, il portafogli con la foto di una bambina, musicassette, ma anche oggetti per la cura di sé come pettini e rasoi. Quello del museo è un piccolo spazio sincronico (ricorda quasi la ferma compresenza di elementi di un giardino zen). Privi di didascalie, oggetti e opere d’arte acquistano senso attraverso reciproci rimandi. L’allestimento non predetermina il percorso, ma stimola un continuo andirivieni tra i lati della stanza. Il soffitto azzurro e le scarpe penzolanti danno l’idea di un’immersione istantanea in quella vicenda umana. L’organizzazione degli oggetti, chiaramente percepibile ma volutamente provvisoria, non raggiunge quel rigor mortis caratteristico delle classificazioni museali tradizionali, bensì rivela un’azione di cura delle cose. Per certi versi, si ha l’impressione di un ufficio degli oggetti smarriti, dov’è potenzialmente ammessa la presenza dei loro utilizzatori originari. Anche per questo gli organizzatori hanno ritenuto di dover separare oggetti da esporre da quelli, come lettere e documenti, che contengono dati sensibili o troppo personali per finire in una teca, da destinare invece a forme di archiviazione e fruizione selettiva.

Il senso del dramma, veicolato nella composizione museale lampedusana da questa contiguità nello spazio e nel tempo degli eventi rievocati da oggetti e opere d’arte, è invece affidato nelle esposizioni di Bristol alla prosaicità del racconto storico. La mostra A respectable trade? dispiega una narrazione che segue i canoni più classici della storiografia lineare: la storia della tratta degli schiavi ha un inizio, uno svolgimento e una fine; come gli oggetti esposti è «custodita» dalle teche di vetro che la separano anche fisicamente dal tempo quotidiano a cui appartengono i visitatori e da numerosi pannelli esplicativi. Rispetto a questi ultimi, gli oggetti hanno quasi un ruolo dimostrativo, privati di quell’opacità e multivocalità derivante dal contatto immediato con il fluire della vita e trasformati in meri «documenti». Ordinate didascalie riportano brevi informazioni che spiegano origine e uso degli oggetti, le cui storie di acquisizione non sono però esplicitate fino in fondo: i riferimenti in codice, leggibili e comprensibili solo agli addetti ai lavori, rimandano esclusivamente a prestiti da collezioni private o altri musei, a una pratica di «collezionismo» che ha già sottratto gli oggetti alla quotidianità dei loro utilizzatori. Qua e là emergono dei nomi propri, ma si tratta quasi esclusivamente di personaggi «dominanti» – capitani di navi, proprietari di piantagioni, politici pro o contro l’abolizione – come nel più classico dei manuali di storia. Le vite degli schiavi, ma anche dei marinai imbarcati a forza sulle navi negriere e che spesso condividevano con il «carico» trasportato le medesime, terribili condizioni di vita, non emergono, per l’assenza di documenti sulle loro esistenze (come avvertono gli stessi curatori della mostra). Il potere di evocare queste condizioni di vita è affidato ad alcuni diorami, che però falliscono nel compito di rappresentare la dimensione di sofferenza ed espropriazione che ha determinato l’ingresso degli africani nella Modernità sotto forma di merci imbarcate. Catene, fruste, strumenti di tortura hanno una loro teca, un loro spazio, ma non terrorizzano. La teca, le didascalie, il loro inserimento in un racconto che – lo sappiamo, lo sanno i visitatori – ha un telos a cui tendere, li allontana dalla quotidianità, dalla carne dei visitatori, silenziando le grida e il sangue, ma anche le pratiche di resistenza e rivolta. Si determina così una cesura definitiva tra la soggettività di chi in un determinato momento quegli oggetti ha posseduti, utilizzati o subiti, e quella di chi li osserva e cerca di decifrarli. Questa decifrazione è affidata a esperti, che la esplicitano secondo le pratiche discorsive consolidate della narrazione storiografica. A differenza di quanto può accadere a un visitatore che entra nella stanza di Askavusa – spazio sincronico in cui le embrionali scelte di allestimento trasmettono l’immediatezza spaziale e temporale tra realtà rappresentata e realtà «reale» – al visitatore delle mostre di Bristol è concesso di «stare a guardare», di «leggere», tutte azioni legate a una conoscenza che presuppone una distanza dai fatti narrati, inevitabilmente costruita dal dispositivo museale.

3. La città di Bristol è, o dovrebbe essere, lo scenario che avvicina la storia della tratta alla sua rappresentazione museale. La traduzione di contestazioni e contro-narrazioni in rappresentazione museale ha contribuito ad aggiungere nuovi elementi alla storia della città. La narrazione che ne è scaturita, tuttavia, confinata nell’ambito dello spazio-tempo determinato e concluso del museo, non ha condotto a una critica più radicale delle fondamenta della modernità (di Bristol e dell’intero continente europeo). Una riflessione che da diverso tempo ormai è portata avanti dagli studi postcoloniali, ma che prima ancora ha fatto parte delle contro-narrazioni che hanno costruito la diaspora africana (8). Queste riflessioni rifiutano qualsiasi forma di conclusione nel passato di eventi come la tratta degli schiavi o il colonialismo, ferite aperte che devono interpellare attivamente quel presente in cui hanno luogo fenomeni come gli attraversamenti mediterranei di soggetti postcoloniali. La rappresentazione storica messa in atto a Bristol ricorre invece a un artificio di ordine cronologico per ottenere l’effetto di «aggiunta», e di «integrazione» a cui si accennava sopra. Il racconto si arresta infatti al momento in cui la tratta viene abolita nei territori dell’impero e diventa un capitolo, finalmente svelato ma consegnato interamente al passato, di una narrazione con un rassicurante «lieto fine»: la schiavitù, crimine di cui si sono macchiati settori importanti delle classi dirigenti inglesi (capitani, mercanti, politici, militari), viene abolita su iniziativa di altri settori delle medesime classi dirigenti, gli abolizionisti. La supremazia morale dell’identità britannica – che tanto si è nutrita, e tanto ancora si nutre di un immaginario radicato nell’esperienza imperiale (9) – è salvaguardata e i visitatori della mostra possono agevolmente posizionarsi in una sorta di discendenza diretta da quegli inglesi che hanno lottato contro la schiavitù.

Questo affresco lascia poco o nessuno spazio all’emergere di resistenze e ribellioni di stampo più radicale. La narrazione museale istituisce una cesura radicale tra «loro» e «noi», su più livelli: «loro» schiavisti, «noi» contemporanei – lontani nel tempo e nello spazio e dunque implicitamente diversi – ma anche inglesi liberali e abolizionisti. In un’alterità irrimediabile, unicamente vittime o beneficiari dei crimini o della clemenza del «noi», sono confinati «loro», gli africani divenuti schiavi nel middle passage. La loro esistenza è evocata dagli strumenti usati per sottometterli, dalle immagini delle navi negriere stipate, dal diorama dell’interno di una di queste navi, con tavoloni impilati l’uno sull’altro su cui immaginarne i corpi affastellati come sacchi di merce, dai pochi frammenti di narrazioni di ex schiavi che la magnanimità degli abolizionisti ha riscattato dall’anonimato. La resistenza silenziosa o violenta che ha attraversato le piantagioni nel Nuovo Mondo sin dagli albori del sistema schiavistico, le condizioni di brutale servitù vissute dagli ex-schiavi dopo la liberazione dall’istituto della schiavitù ma non dalle logiche economiche che l’avevano reso pensabile e attuabile, le persistenti condizioni di segregazione sulla base di quegli stessi principi di superiorità razziale che avevano per secoli giustificato la schiavitù, non emergono dalle pieghe della narrazione ufficiale, che corre fiduciosa verso la sua assoluzione finale.

A Lampedusa, dal confronto con vari soggetti e associazioni sul «che fare?» degli oggetti trovati, è emersa l’esigenza di metterli in mostra con taglio critico, rinunciando a un’esposizione definita e definitiva. Contribuire alla memoria di questa «storia del presente» non significa per gli organizzatori fornire risposte ma porre domande, richiede cioè un posizionamento politico estremamente chiaro: essere «contro i respingimenti, […] contro i CIE, […] vedere l’immigrazione come una risorsa, non come un pericolo o una invasione» (10). I presupposti filosofici e politici di questa operazione si concentrano intorno alla ricerca di un’intersoggettività universale. Contro le classificazioni che la «mostruosità della ragione» (11) impone agli esseri umani, soprattutto quando sono in movimento, l’arte può contribuire a scassinare le fortezze del linguaggio, imponendo un approccio che tende alla ricerca di una comune umanità. «La pasta, la coperta ti riportano a delle esigenze primordiali, primitive, universali», dichiara Sferlazzo, e continua:

La fame ce l’hanno tutti, il freddo ce l’hanno tutti, l’esigenza di comunicare e quindi i telefonini ce li hanno tutti, l’esigenza di raccontarsi, e quindi le lettere, di comunicare, di ricordare con le foto, ce l’hanno tutti. Quindi se c’è uno sforzo, diciamo, è quello di riportare questa cosa, che chiamiamo immigrazione, e che è spesso raccontata secondo slogan, secondo frasi fatte, di riportarla un attimo a una condizione di umanità, di individualità (…). Stringi stringi, facendo proprio il minimo comune denominatore, restano quelle quattro, cinque cose che ci accomunano tutti, che sono sia fisiche, cioè fisiologiche ma sono anche spirituali (12)

Da un lato, questa operazione ripudia la riduzione a nuda vita che caratterizza molti approcci umanitaristici alle migrazioni, includendo nella sfera delle «cose che ci accomunano tutti», elementi affettivi, comunicativi e soprattutto il ricordo e la narrazione che richiamano la possibilità biografica di vite politicamente qualificate. È chiaro però che tale impostazione contiene anche delle insidie. In particolare, la riluttanza a riconoscere una qualche specificità alle esperienze concrete dei soggetti migranti (cioè quella faglia tra narratore e uditore presupposto per la narrabilità di un’esperienza) (13), alla quale sembra cedere Sferlazzo quando riconduce le esperienze dei viaggi migratori a un’idea più generale e universale di viaggio:

Il viaggio che queste persone fanno, per me non è solo un viaggio fisico, è un viaggio proprio epico, è un viaggio universale, cioè in questo viaggio c’è la storia del mondo, e riportare dal particolare cioè da questi minimi comuni denominatori… creare una visione universale, questo è l’aspetto che a me personalmente interessa (14).

In questa ricerca dell’«Uomo» i rischi di un’eccessiva de-storicizzazione sono tuttavia stemperati da due fattori. Il primo è la responsabilità che l’artista si assume in prima persona dichiarando apertamente il suo punto di vista. L’altro è dato dalla compresenza di fenomeno e sua rappresentazione, che immerge questa tensione verso l’universale nel vortice di processi storici e politici molto concreti. È proprio la giustapposizione di queste due tendenze – la documentazione critica di ciò che sta accadendo e la ricerca artistica di un contatto umano – all’interno di un processo dichiaratamente aperto e non definitivo, a rendere il progetto ricco di efficaci tensioni critiche.

4. Indagare sulle finalità di un’operazione di patrimonializzazione non può prescindere da una domanda fondamentale: a chi è rivolta questa narrazione? Cosa si propone di suscitare in chi la apprende? Dalle testimonianze scritte di visitatori che hanno sentito il bisogno di esprimere un parere sulla mostra A respectable trade? emergono alcune possibili comunità di «eredi» della storia raccontata, che si differenziano moltissimo in base alla funzione che quella storia assume nel loro presente: se la storia della Bristol schiavista è stata «svelata» ai suoi residenti bianchi (che hanno reagito con disagio, fastidio o sincera compassione), molti dei suoi residenti neri non hanno avuto bisogno di questo shock, perché all’interno della variegata e multiforme diaspora africana nel mondo atlantico la storia della tratta ha un ruolo fondante. Sono state le loro proteste a innescare lo svelamento di questa storia e a esprimere una radicale presa di posizione nel presente rispetto a quegli eventi per altri lontani. In altre parole, gli abitanti del quartiere di St. Paul non hanno difficoltà a riconoscere un’ascendenza diretta nelle storie di sofferenza raccontate dalle mostre, né a rivendicare una tradizione ribelle e di resistenza che le mostre non fanno emergere; i bristoliani bianchi non si sentono discendenti degli schiavisti, che fino a poco tempo fa erano abituati a celebrare come personalità insigni della città. Tutt’al più, possono percepire un’affinità con gli eroi dell’abolizionismo, ma l’evento storico in sé appare estraneo, lontano, appartenente a un passato remoto. Non ci sono forzature in nessuna di queste due reazioni: ciò che le differenzia è il posizionamento politico rispetto a un problema, quello della schiavitù, che in un caso si ritiene superato e irripetibile, nell’altro continua a lanciare i suoi echi sinistri nelle forme contemporanee di pensiero razzializzato. Chiedere a un museo di contenere tutto questo – storia e contro-storia, narrazione ufficiale ed egemone, e narrazioni alternative e subalterne – è probabilmente impossibile: il museo di per sé enuncia una storia che si presenta come «vera», e può farlo perché la colloca in uno spazio-tempo definito e chiuso.

Questo posizionamento preciso nei confronti della storia raccontata, anche e soprattutto da un punto di vista politico, differenzia radicalmente le circostanze che hanno visto nascere l’esperimento museale di Lampedusa. Nei primi mesi del 2011, con i nuovi arrivi dalla Tunisia, Askavusa si è impegnata in un’accoglienza alternativa. Per un periodo gruppi di giovani tunisini sono stati ospitati nella sede dell’associazione. Un giorno uno dei ragazzi, penna alla mano, si avvicina a una delle opere di Sferlazzo e vi appone la scritta Allāh, producendo così una frattura nella limpida autorialità del processo di musealizzazione del fenomeno sbarchi. Nella pratica si è prodotto un contatto che ha mostrato la possibilità di scongiurare il rischio di solipsismo da parte di una popolazione locale per lungo tempo isolata dalle persone arrivate via mare. La questione del punto di vista dei migranti e del loro accesso allo spazio museale è, infatti, al cuore di questo processo e ne rappresenta la posta in gioco più importante. Il museo è frequentato attraverso la rete di contatti dell’associazione Askavusa e finora non c’è stata una vera e propria pubblicizzazione diretta, l’assenza di targhe o intestazioni all’ingresso dell’associazione ne è la dimostrazione più lampante. Ultimamente, però, l’operazione ha attirato l’attenzione dei media nazionali e internazionali, allargando così lo spettro dei potenziali visitatori. Secondo Sferlazzo l’impatto del museo è molto forte, tutte le persone con cui si è confrontato hanno dichiarato di aver provato, al di qua di ogni possibile ragionamento intellettuale, forti emozioni che hanno condotto a un sentimento di empatia con i protagonisti delle traversate. Questo discorso, unito alla duplice forma documentale e artistica del museo lascia aperta la questione se tale empatia riguardi i migranti oppure l’artista e il suo atto responsabile di cura. Una tensione irrisolta, questa, tra tendenze universalizzanti verso il superamento delle barriere concettuali che separano gli esseri umani su basi etnico-culturali ma anche esperienziali (il viaggio migratorio che resta cucito addosso a ogni migrante) e la pluralizzazione delle voci. La possibilità che il museo si apra alla frequentazione e all’uso creativo, e anche conflittuale, dei diretti interessati alla vicenda degli sbarchi sembra un elemento chiave per conservare viva la componente critica che l’operazione propone. Ovvero il riconoscimento di quelle soggettività che gli oggetti esposti cercano di tenere a galla – come zattere simboliche – scongiurando l’inabissamento in quel «sottosuolo» nel quale i migranti, prodotti come non-persone, spesso sprofondano e dove «politico e delirio, vita e Storia, inconscio e diritto si decompongono, s’intrecciano e si confondono in modo caotico» (15).

5. Il futuro del museo di Lampedusa dipende dall’assegnazione di uno spazio più adeguato ai diversi obiettivi che gli organizzatori si sono posti. Spazio richiesto ma non ancora concesso. La collaborazione con altre associazioni, tra cui Legambiente, ha portato a inglobare nel discorso del museo anche le migrazioni animali «che da questa isola passano proprio come gli uomini, ma con più semplicità» (16). Inoltre, arte e testimonianza sono pensate all’interno di un progetto più ampio aperto alla ricerca e documentazione. L’idea è di articolare gli spazi in un «centro studi» – dove raccogliere e rendere pubblici documenti e ricerche prodotti sulle migrazioni a Lampedusa (e non solo) – e in uno «spazio espositivo», dove sviluppare un percorso graduale che parta da fatti di cronaca esposti in chiave critica e giunga alle opere d’arte. I curatori intendono dar senso alla tematica migratoria sullo sfondo di una critica alle ingiustizie economiche, sociali, ecologiche a livello planetario. Un’immersione nell’arte e nell’energia degli oggetti sottratti alla distruzione/oblio dovrebbe essere così anticipata da una documentazione critica dei rapporti Nord/Sud. Anche se c’è da dire che il passaggio da uno spazio sincronico a un percorso espositivo guidato aggiungerà ulteriori elementi di responsabilità per i curatori, imponendo probabilmente un grado maggiore di fissazione a un progetto che è nato come aperto e partecipato. L’idea che questa storia degli «altri» debba essere programmaticamente inclusa (fino all’indistinzione) in una storia del «noi», conduce alla ricerca di elementi simbolici comuni, come ad esempio l’idea di porre al centro del museo un barcone. Barca come simbolo di una condizione di precarietà che apre alla solidarietà: «siamo tutti supra ‘na varca», recita un detto locale. Ma, ancora una volta, ciò che attraverso la trasfigurazione artistica e museale appare un’astrazione esistenzialista, visione archetipica della condizione umana, va invece a inserirsi profondamente nelle dinamiche storiche contemporanee che stanno trasformando l’isola da luogo di transito e incontro in teatro di sperimentazione di conflitti razziali e segregazione. La barca è lo strumento simbolico per affermare, qui e ora, un diverso modo di vivere le relazioni con le persone impegnate nell’attraversamento del Mediterraneo nero.
Al di là dei presupposti filosofici e delle questioni di metodo, la provvisorietà del museo ha a che fare con questioni più prosaiche come il rapporto con le istituzioni e l’assegnazione di risorse pubbliche. Nel 2009 l’associazione presenta un progetto al Comune di Lampedusa. Questi, nel gennaio 2011, dopo un lungo silenzio, annuncia il progetto di un Museo internazionale dei migranti sull’isola, senza però menzionare Askavusa. Ma la cosa non ha seguito, secondo Sferlazzo, per incapacità e mancanza di una base filosofica seria. A sorpresa però, a fine settembre, gli attoniti askavusani apprendono dai giornali che di lì a qualche giorno a Roma sarebbe stato presentato il progetto Opera – Sui relitti delle libertà. Portato avanti dall’Associazione nazionale famiglie emigrate (ANFE), sotto la direzione artistica, tra gli altri, del presidente della Fondazione Mudima per l’arte contemporanea di Milano, il progetto ha ricevuto il sostegno del Consiglio dei ministri, del Ministero degli Esteri, della Regione Sicilia e del Comune di Lampedusa. L’obiettivo è trasformare i relitti dei barconi in opere d’arte e oggetti di design: «sedie, tavolini, cassette per vino ma anche accessori di ogni ordine e tipo» (17). La produzione vedrà impegnati per un anno artisti e designer provenienti da diversi paesi insieme ai giovani di una cooperativa sociale lampedusana. Il ricavato delle vendite sarà devoluto all’UNHCR. Per gli «ideatori» il progetto è: «un modo per dire (…) che un relitto è testimonianza ma anche porta verso il futuro e segno e simbolo della speranza in un mondo migliore. Ma anche per segnalare la valenza epocale del fenomeno immigrazione, i suoi aspetti umanitari e dare attraverso l’arte un segno di solidarietà» (18). Secondo una delle promotrici, «i relitti non vanno visti come sofferenza, ma come nuova produzione. Oggetti che portano nuova vita» (19).
Si può notare come questo progetto disinneschi, fagocitandola in un generico spirito di intervento umanitario, tutta la carica critica delle idee di Askavusa. La terminologia – speranza in un mondo migliore, aspetti umanitari, vita – è la stessa utilizzata da quegli approcci mainstream al fenomeno migratorio perfettamente complementari alle retoriche cattiviste del tipo «sparate sui barconi». Lessici apparentemente opposti ma che invece, in questi due decenni, hanno alimentato quel dispositivo umanitario-sicuritario che ha definito i contorni del discorso sugli arrivi a Lampedusa. L’esclusione dalla definizione del progetto Opera di quei lampedusani che stanno provando a mettere in discussione tali logiche dimostra come quei dispositivi abbiano iniziato a incorporare anche la produzione culturale e artistica. Askavusa, al contrario, con la sua pratica di accoglienza e solidarietà, mina alla base i presupposti dell’intervento istituzionale sui corpi migranti. Quindi il suo coinvolgimento avrebbe compromesso l’occultamento – che il progetto Opera sembra garantire pienamente – delle responsabilità politiche delle istituzioni (le stesse che hanno patrocinato il progetto) in una delle pagine più buie dell’Italia contemporanea. Lo «scippo» e il parziale ma significativo stravolgimento dell’idea sono stati duramente contestati da Askavusa, in un comunicato in cui si marca la distanza da un progetto che intende trasformare i relitti in «pettini, complementi di arredo, o accessori di moda», si denuncia l’assenza dei «protagonisti di questa storia» (migranti e lampedusani) e l’incoerenza di un patrocinio da parte di «coloro che hanno provocato queste enormi tragedie, che hanno criminalizzato i migranti con il reato di clandestinità, che hanno attuato i respingimenti, che hanno istituito i CIE, che hanno portato Lampedusa ad una situazione disperata» (20). È probabile che i progetti proseguiranno parallelamente, anche se la possibilità di utilizzo dei relitti, oggi piantonati dai militari, è diventato un problema materiale e simbolico cruciale. Forse, è proprio il coinvolgimento attivo dei migranti, «protagonisti di questa storia», che introdurrà elementi nuovi in questa battaglia.

Note conclusive

La contrapposizione tra l’esperienza di Lampedusa e quella di Bristol, alla luce di quanto scritto fin qui, è molto meno rigida e netta di quanto potrebbe apparire: tra i fattori che determinano oggi la fertile fluidità della composizione museale di Askavusa non si può ignorare la sua relativa incompiutezza, il suo essere una sorta di «embrione» di qualcos’altro, qualcosa di più compiuto. Giacomo Sferlazzo si dilunga molto a raccontare dei possibili sviluppi della stanza di Askavusa, ed è significativo che in questi racconti l’esperienza sia definita «museo», con un «percorso», dei «documenti», delle «spiegazioni» che contestualizzino oggetti e scelte espositive. La dimensione emergenziale della stanza di Askavusa, intimamente connessa alla dimensione emergenziale della realtà che vuole raccontare e alla necessità soggettiva espressa da Sferlazzo di dare senso agli scarti di quella stessa realtà componendoli secondo una sintassi artistica, potrebbe risultare incompatibile con la scelta del discorso museale, che estromette ontologicamente il fluire disordinato e affollato della vita, trasformato e ordinato in «storia». Non è un caso che lo stesso Sferlazzo appaia più volte dubbioso circa la definizione di «museo» per il suo progetto, anche se alla fine sembra non riuscire a trovarne una più adegua- ta. L’ispirazione artistica di Sferlazzo aleggia nella stanza-museo, rendendola oggi una sorta di unica installazione che racconta l’esperienza di un lampedusano di fronte alle vicende drammatiche che hanno interessato la sua isola natale. Un’esperienza che cerca di uscire dalla dimensione individuale non attraverso il racconto storico, ma attraverso il linguaggio dell’arte, senza pensare però di poter prescindere da un’attività concreta di documentazione.

Nel caso di Bristol, invece, il linguaggio della storia è utilizzato per uniformare gli sguardi dei visitatori e si riflette nella scelta del dispositivo museale che occulta quasi per definizione il luogo di enunciazione, e dunque la sua parzialità. Conciliare narrazione ufficiale e contro-narrazione all’interno dello stesso dispositivo, giustapponendole con il fine di lasciar scaturire non tanto informazioni (quindi il presupposto didattico implicito nelle mostre di Bristol) quanto emozioni, riflessioni e prese di posizione critiche, sembrerebbe essere il fine ambizioso del progetto di Askavusa: come si diceva sopra, forse una possibile chiave per non lasciare quest’ambizione nel regno dell’utopia è cercare di coinvolgere gli stessi migranti non solo nel processo di assegnazione di significati a relitti e scarti, ma anche in quello di definizione e strutturazione di uno spazio che sia realmente aperto, inclusivo e, soprattutto, permeabile alla realtà che agita le acque e le rive dell’isola.

 

Note

(1) Questo saggio è il frutto di un lavoro di elaborazione, definizione e scrittura comune in ogni suo passaggio. A Gianluca Gatta è attribuibile l’Introduzione, la prima parte del § 2; la seconda parte dei §§ 1, 3 e 4; il § 5; a Giusy Muzzopappa, invece, la prima parte dei §§ 1, 3 e 4; la seconda parte del § 2 e le Note conclusive.

(2) M. Dresser, Slavery obscured. The social history of the slave trade in an English provincial port, Continuum, London 2001.

(3) Per una ricostruzione più dettagliata delle attività del BSTAG, nell’ambito di uno studio più ampio in cui si analizza anche il British Empire & Commonwealth Museum (BECM) e in generale la patrimonializzazione della storia imperiale britannica, cfr. G. Muzzopappa, L’esplosione della memoria. La tratta degli schiavi e l’impero britannico nei musei di Bristol, L’Harmattan, Torino 2009.

(4) N. De Genova, Working the boundaries, Duke University Press, Durham (NC) 2005.

(5) Per un’analisi approfondita del rapporto tra migranti sbarcati e popolazione lampedusana si rimanda a: G. Gatta, «Come in uno specchio. Il gioco delle identità a Lampedusa», in U. Chelati Dirar et al. (a cura di), Colonia e postcolonia come spazi diasporici. Attraversamenti di memorie, identità e confini nel Corno d’Africa, Carocci, Roma 2011. Sui meccanismi di «produzione della clandestinità» a Lampedusa cfr. invece: G. Gatta, Migranti a Lampedusa: da esuli a clandestini, in «Parolechiave», 41, 2009, pp. 231-251; G. Gatta, La production du «clandestin». Ethnographie des débarquements à Lampedusa, in «Italies. Littérature, civilisation, société. Revue d’études italiennes», 14, 2010, pp. 539-558; e G. Gatta, Le violenze dei salvatori e dei salvati: scenari lampedusani, «Trickster», 10, 2011, consultabile on-line in http://trickster.lettere.unipd.it/doku.php?id=violenza_straniero:gatta_lampedusa.

(6) M. Mellino, La critica postcoloniale, Meltemi, Roma 2005, p. 182. Immersi nella concretezza storica delle esperienze dei soggetti, tali cosmopolitismi non sopprimono le differenze né escludono i locali, i nativi e i subalterni, riducendosi alla vicenda occidentale o alla cerchia ristretta delle élite transnazionali.

(7) Intervista di G. Gatta a G. Sferlazzo, Lampedusa, 6 agosto 2011.

(8) P. Gilroy, The black Atlantic: modernity and double consciousness (1993), trad. The black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza, Meltemi, Roma 2003.

(9) R. Samuel, Patriotism: the making and unmaking of British national identity, Routledge, London-New York 1989; CCCS, The empire strikes back. Race and racism in 70s Britain, Hutchinson, London 1982.

(10) Intervista di G. Gatta a G. Sferlazzo, cit.

(11) I. Chambers, Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca postcoloniale, Meltemi, Roma 2003, p. 140.

(12) Intervista di G. Gatta a G. Sferlazzo, cit.

(13) P. Jedlowski, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Mondadori, Milano 2000.

(14) Intervista di G. Gatta a G. Sferlazzo, cit.

(15) R. Beneduce, Archeologie del trauma. Un’antropologia del sottosuolo, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 91.

(16) G. Sferlazzo, Il museo delle migrazioni di Lampedusa, «Carta», 12 giugno 2011, consultabile on-line in http://www.carta.org/2011/06/il-museo-delle-migrazioni-di-lampedusa.

(17) R. Campolo, «Opera – Sui relitti delle libertà» per Lampedusa, «Balarm», 28 settembre 2011, in http://www.balarm.it/articoli/opera—sui-relitti-delle-liberta-per-lampedusa.asp.

(18) Ibidem.

(19) Ibidem.

(20) http://www.giovanilampedusa.it/blog/447.html.

Corpi di frontiera. Etnografia del trattamento dei migranti al loro arrivo a Lampedusa

di Gianluca Gatta

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Introduzione

L’arrivo dei migranti in alcuni punti nevralgici della frontiera Sud d’Europa è uno degli eventi mediatici più ricorrenti nelle cronache degli ultimi quindici-venti anni. Grazie alla ciclicità del fenomeno e della sua rappresentazione una immagine automaticamente riconoscibile degli “sbarchi” è pian piano affiorata nel senso comune. Nonostante gli arrivi via mare siano quantitativamente inferiori alle altre modalità di ingresso (MONZINI P. 2008, SCIORTINO G. 2004), gli sbarchi sono diventati un vero e proprio emblema dell’intero fenomeno migratorio. Lampedusa, al pari di altri famosi luoghi d’arrivo di migranti non autorizzati – Las Palmas, Tijuana, Ceuta e Melilla, le isole Ashmore e Cartier ecc. – rappresenta una location privilegiata (GUPTA A. – FERGUSON J. curr. 1997) per l’analisi etnografica di quelle pratiche e quei discorsi che contribuiscono alla produzione di un certo immaginario sulle migrazioni, pratiche e discorsi che fanno perno intorno ai corpi dei soggetti in questione: i migranti.
Lampedusa è una piccola isola al centro del Mediterraneo, in quella porzione di acqua che separa la Sicilia dalla Tunisia e dalla Libia. In passato, l’economia isolana si basava sulla pesca e sulla produzione di pesce in scatola. Nella metà degli anni Ottanta del Novecento, l’isola fu “scoperta” dal mercato turistico e attualmente è un’ambita destinazione per vacanzieri in cerca di relax e di un mare cristallino. Da allora un’economia turistica è cresciuta rapidamente e senza una pianificazione integrata. Il fenomeno dell’arrivo dei boat people iniziò a coinvolgere Lampedusa nei primi anni Novanta. In una prima fase, dal 1993 al 1998, con arrivi “diretti” e per certi versi “spontanei” di tunisini o marocchini partiti dalle coste tunisine a bordo delle cosiddette “carrette del mare”. In una seconda fase, dal 2002 ai giorni nostri, con arrivi di persone da un più ampio spettro di paesi africani e asiatici, attraverso la rotta libica. Quest’ultima rimpiazzò infatti gli altri percorsi migratori mediterranei – da Tunisia, Turchia, Canale di Suez, Albania – nel frattempo estintisi per effetto di alcuni accordi intergovernativi e del rafforzamento delle politiche di controllo dei confini (MONZINI P. 2004, PASTORE F. 2006, PUGH M. 2000) (1). A Lampedusa il passaggio da una fase all’altra ha coinciso con un periodo intermedio in cui ha avuto luogo una progressiva strutturazione di un meccanismo burocratico, repressivo e diplomatico di controllo delle migrazioni. Chiamo questo processo “istituzionalizzazione di una macchina anti-immigrazione”. Un fenomeno che è stato capace di ridurre drasticamente l’arrivo dei migranti nel triennio 1999-2001, prima dello comparsa della nuova rotta libica. L’istituzionalizzazione è caratterizzata da tre elementi:

1)  l’installazione di un Centro per la ricezione e la reclusione dei migranti(2);
2)  l’arrivo sull’isola di agenti specificamente dedicati al controllo di confine e alla gestione della migrazione irregolare (Guardia Costiera, Guardia di Finanza, Polizia, Carabinieri);
3)  la presenza di organizzazioni umanitarie, tra cui Croce Rossa, Confraternita della Misericordia, Medici Senza Frontiere, più o meno collegate al lavoro delle forze dell’ordine(3).

Il processo appena illustrato ha finito per sottrarre la gestione del “problema clandestini” alla popolazione lampedusana per affidarlo a dei soggetti specializzati.
In questo saggio presenterò alcune riflessioni che si basano sulla mia esperienza etnografica a Lampedusa. Osserveremo da vicino alcune dinamiche in atto sulla banchina del porto durante la fase di sbarco. Il corpo dei migranti, ma anche degli altri soggetti impegnati nella loro gestione, costituirà il referente privilegiato dell’analisi.
Quando durante un’intervista provai a interpellare il Comandante della Guardia Costiera sulle modalità di organizzazione delle procedure di salvataggio in mare, l’uomo, incapace di articolare un discorso che nominasse le diverse fasi, rispose:

«Questo è troppo… certo c’è un’organizzazione, questa è un’organizzazione molto asettica, è come quello del… non… cioè… una volta avvistati, si prendono… si recuperano… si portano a bordo… poi c’è il trasferimento a Lampedusa. Dalla banchina al Centro il trasferimento è un fatto puramente materiale» (4).

Agli occhi del Comandante, il salvataggio mostra la sua natura di arte, di tecnica consuetudinaria, i cui principi si sono strutturati nel tempo e sono stati interiorizzati attraverso le pratiche corporee dell’addestramento, senza alcuna formalizzazione discorsiva. Parlare di quel “fatto puramente materiale” risultava impossibile e tutto sommato inutile a fronte delle dinamiche strategiche, diplomatiche e politiche sulle quali l’uomo avrebbe desiderato intrattenersi. E invece, la mia ricerca era indirizzata proprio verso l’analisi ostinata di quella materialità indicibile, nel tentativo di cogliere le modalità attraverso le quali il potere, la naturalizzazione dei fenomeni sociali e il “pensiero di Stato” si manifestano sin nelle forme più capillari di gestualità (5). Le interpretazioni che seguono si basano su tre presupposti teorici (6):

1)  Gli effetti del regime di controllo delle migrazioni non consistono nel blocco degli arrivi ma, piuttosto, in un filtraggio che crea soggetti il cui status giuridico è differente da quello dei cittadini.
2)  La condizione di clandestinità non è un effetto collaterale dei sistemi di controllo dei movimenti di popolazione, ma è direttamente prodotta dalle norme e dalle prassi di gestione delle migrazioni.
3)  L’immagine mediatica degli sbarchi è funzionale all’ideologia della gestione delle migrazioni; tale immagine – permeata dall’imperativo di fare qualcosa – favorisce l’indistinzione tra logiche umanitarie e sicuritarie.

Cercherò di affrontare alcuni temi collegati a quella che chiamo la scena dell’arrivo, quel particolare setting etnografico in cui ho potuto osservare ciò che accadeva sulla banchina degli sbarchi e interagire parzialmente con i soggetti coinvolti nelle operazioni. Una particolare attenzione è indirizzata all’interpretazione del lavoro delle forze dell’ordine e degli attori umanitari (7). Inizierò col presentare le procedure di sbarco, mostrando il ruolo attivo degli agenti anti-immigrazione nella produzione di un’immagine specifica degli arrivi. In seguito, analizzerò il discorso della Guardia Costiera sull’azione umanitaria, un tema che oscilla tra salvaguardia della vita e controllo del confine. Infine, proporrò alcune osservazioni sulla relazione biopolitica tra migranti, forze dell’ordine, attori umanitari e osservatori esterni, con particolare attenzione ai problemi del corpo e della soggettività.

La scena dell’arrivo

La struttura dello sbarco

Vorrei qui presentare brevemente le principali attività e operazioni di quella che possiamo chiamare la struttura dello sbarco, un modello di ciò che avveniva a Lampedusa durante la mia ricerca (8). Le operazioni hanno inizio con la segnalazione, il salvataggio in mare dei migranti e il loro trasferimento al porto. Chiunque avvisti una barca di migranti alla deriva è tenuto a informare via radio la Guardia Costiera segnalando il punto di avvistamento, dopo di che le motovedette della Guardia Costiera o della Guardia di Finanza si attivano per effettuare il recupero in mare, anche a parecchie miglia di distanza. Giunti al porto, i migranti sono condotti giù dalle navi uno per uno. In questa fase di discesa ha luogo un primo conteggio e a volte gli agenti scattano qualche fotografia. Sulla banchina, i migranti sono organizzati in file parallele di cinque persone ognuna, essi devono mantenere la posizione assegnata loro dalle forze dell’ordine, accovacciati o seduti a terra, non possono quindi muoversi liberamente sul molo. Se qualcuno ha bisogno di assistenza medica viene condotto presso gli operatori di Medici Senza Frontiere, in quello che potremmo definire un “punto di cura”, separato dal “punto di raccolta”. Ma l’attività di MSF ha inizio precedentemente, già nei primi momenti della discesa, quando i medici effettuano un prima ricognizione dei possibili casi di emergenza medica, cercando di stabilire le priorità, secondo i criteri del triage (9). Quando il medico pensa che il migrante non abbia più bisogno di assistenza, o che necessiti di un esame approfondito nell’ambulatorio del CPT, la persona converge nel flusso di trasferimento al Centro.
Dopo la fase di discesa, quando i ranghi sono stabilizzati e le emergenze mediche valutate, gli operatori di MSF e le guardie iniziano a distribuire bottiglie di acqua, biscotti, bicchieri di tè. Poi, le persone che hanno bisogno di urinare sono condotte, una alla volta, in alcuni bagni chimici. Prima della loro installazione, nel giugno del 2005, i migranti venivano portati in un punto della banchina, poco distante dal punto di raccolta, dove potevano urinare in mare. In alcuni casi, sulla banchina sono presenti anche agenti di polizia giudiziaria, che effettuano interrogatori preliminari nell’ambito delle indagini sullo smuggling. Alcuni di essi sono capaci di parlare la lingua araba. Quando le fasi di discesa, di organizzazione dei ranghi, di valutazione delle emergenze mediche e di rifocillamento sono terminate, e dopo un successivo conteggio delle persone sbarcate, il trasferimento al CPT ha inizio. Gruppi di dieci, quindici migranti sono condotti, in fila indiana, ai furgoncini di Guardia Costiera, Guardia di Finanza o della Misericordia, che fanno la spola tra la banchina e il centro.

Lo spettacolo del “trattamento”

Una prima considerazione da fare rispetto a questo processo riguarda la sua visibilità. Infatti, a differenza di ciò che avveniva nel CPT, una zona di eccezione oscura e parzialmente impenetrabile, la fase della gestione dei corpi sulla banchina del porto era aperta allo sguardo mediatico. La sua esposizione aveva l’effetto di produrre una rappresentazione stereotipata dell’arrivo dei migranti, una di quelle immagini che nel discorso pubblico assumono dei connotati simbolici molto densi e finiscono per denotare l’intero fenomeno migratorio. Prima della scomparsa dei migranti dietro il filo spinato del campo, il “trattamento” dei loro corpi era quindi apertamente esibito da parte della “macchina anti-immigrazione”. Interpretare questo dato come una mera concessione – un nulla osta che gli agenti del controllo avrebbero accordato, con infastidita tolleranza, alla “volontà di vedere” di un pubblico scopofilo – ha il limite di occultare la funzione positiva, produttiva di tale esposizione mediatica. Al contrario, dall’osservazione diretta delle dinamiche in atto sulla banchina mi è parso di rilevare che i soggetti assegnati al controllo e alla cura dei migranti fossero coscienti di partecipare attivamente al processo di documentazione visuale. Diverse volte, dopo aver scattato fotografie delle operazioni, gli agenti mi hanno chiesto con curiosità dove sarebbero state pubblicate le immagini. Inoltre, dalle pareti degli uffici o dei corridoi delle caserme di Guardia Costiera e Guardia di Finanza dell’isola pendevano, come attestati di orgogliosa professionalità, diverse fotografie che ritraevano scene di salvataggio e gestione dei migranti. Le fotografie che seguono sono due ottimi esempi di vero e proprio comportamento profilmico(10), della manifestazione di un desiderio di partecipare attivamente alla rappresentazione da parte degli agenti.

Foto 1 © G. Gatta                                                   Foto 2 © G. Gatta

Nella prima circostanza – Foto 1 – stavo per scattare una fotografia al gruppo di migranti in piedi e appoggiati al muretto della banchina, quando un agente della Guardia di Finanza attraversò la scena e, notato quello che stavo per fare, si fermò proprio di fronte a me. Quando allontanai la macchina fotografica dal viso in attesa che si spostasse, l’uomo esclamò: «ah scusa, pensavo volessi fotografare me!», «puoi restare se vuoi», replicai. Il risultato finale dello scatto può essere osservato nell’immagine: l’uomo posa in primo piano per l’etnografo. In un’altra circostanza – Foto 2 – un agente della Guardia di Finanza si prestò a riprodurre un gesto che aveva compiuto qualche secondo prima senza che io riuscissi a ritrarlo: gettare un guanto di lattice in un punto di raccolta dell’immondizia. Ritengo che una tale disponibilità alla fiction non sia semplicemente il frutto di un atteggiamento tollerante nei confronti del fotografo, ma confermi, invece, l’importanza che le forze dell’ordine attribuiscono alla visualizzazione e mediazione (11) delle proprie attività. Più avanti fornirò qualche altro esempio di questa articolazione tra controllo, cura e rappresentazione visiva degli sbarchi.
La mia ipotesi generale è che la “macchina anti-immigrazione” sia direttamente coinvolta nel bilanciamento della rappresentazione di questa fase, così da favorire il delinearsi di un’immagine dello sbarco fondata sulla nozione di trattamento, una categoria che sussume le sfere dell’umanitario e del securitario in una zona grigia dove le diverse attività appaiono indistinte. Un’immagine che può rispondere contemporaneamente alle diverse istanze che nella sfera pubblica ruotano intorno al tema degli sbarchi: salvaguardia dei diritti umani, repressione della criminalità e del terrorismo, lotte per la cittadinanza e la libera circolazione delle persone. Sollecitazioni che provengono da direzioni diverse e da sensibilità politiche opposte e che fanno emergere tutta l’ambivalenza dell’intervento su un fenomeno come quello degli sbarchi. La polisemia del termine trattamento è molto utile per cogliere l’ambivalenza delle relazioni tra i soggetti degli sbarchi. I significati del verbo “trattare” (12) sono vari, quello più generico riguarda l’ambito dell’interazione sociale: “comportarsi in un certo modo, tenere un certo atteggiamento nei riguardi di qualcuno”; ma vi sono anche altri due significati più specifici, attinenti alla sfera medica: “curare un disturbo con rimedi adeguati” e a quella ergologica: “lavorare un materiale, sottoporlo a una lavorazione oppure a un’azione chimica o fisica”. Le definizioni del sostantivo “trattamento” – “maniera di accogliere, di comportarsi, modo di offrire ospitalità”, “insieme delle terapie praticate e dei provvedimenti adottati nella cura di una malattia”, «modo di trattare specialmente una sostanza o un materiale per conferirgli determinate caratteristiche» – sono ancora più utili a significare quella pluralità di attività che caratterizzano la macchina anti-immigrazione. Possiamo inoltre citare un altro ambito molto interessante per gli etnografi: “trattare” nel senso di «discutere, esporre, sviluppare un certo argomento, specialmente parlando o scrivendo». Accoglienza, cura/profilassi, manipolazione, discorso. Tutti questi campi non possono emergere separatamente dalla rappresentazione ma devono confluire in una immagine unitaria e sfocata del trattamento.
Sulla banchina del porto di Lampedusa ha luogo una nuova forma di spettacolarizzazione del potere, nuova rispetto alla moderazione che, seguendo Foucault, caratterizza le moderne discipline (FOUCAULT M. 1976 [1975]), una performance giocata in una zona grigia tra umanitario e sicuritario. L’antropologo statunitense Nicholas De Genova, a proposito di analoghe situazioni sul confine tra Messico e Stati Uniti, ha parlato di un vero e proprio «spettacolo del confine» (DE GENOVA N. 2002, 2004), un processo che permette di naturalizzare la «illegalità e deportabilità» dei migranti, occultando le cause giuridiche e socio-politiche che producono tale condizione e inducendo una sovraesposizione del corpo ambivalente dei migranti(13). Questa concezione del rapporto tra migranti e contesto di arrivo getta una nuova luce sull’accezione tradizionale della nozione di esclusione. Coutin considera quest’ultima come una legal fiction, e analizza la clandestinità come una «dimensione nascosta, ma conosciuta, della realtà sociale» (COUTIN S. B. 2005: 196):

«È la visibilità non ufficiale delle pratiche clandestine la controparte della invisibilità ufficiale o produzione dell’assenza [absenting] delle migrazioni non autorizzate» (COUTIN S. B. 2005: 198).

L’esclusione, quindi, non è l’effetto più o meno inevitabile e in negativo di una sorta di saturazione economico-demografica dei paesi di arrivo, ma un meccanismo che produce in positivo la specifica condizione socio-economica e giuridica dei “clandestini”. Questa impostazione offre degli elementi di riflessione pertinenti rispetto al carattere simbolico degli arrivi a Lampedusa. Questi ultimi sono “lo spettacolo del confine”, un processo fondamentale nel plasmare discorsi e pratiche sulla gestione delle migrazioni:

«È proprio “il confine” a fornire il teatro esemplare per rappresentare lo spettacolo del «clandestino» che la legge produce. Infatti, l’“illegalità” sembra essere più una trasgressione positiva – e può perciò essere equiparata al comportamento dei migranti messicani piuttosto che all’azione strumentale della legge sull’immigrazione – proprio quando è assoggettata al controllo di polizia al confine tra Stati Uniti e Messico. La vaghezza della legge, e la sua relativa invisibilità nella produzione di “illegalità”, richiede questo spettacolo del “rendere effettivo” il confine, proprio perché rende visibile un’“illegalità” razzializzata dei migranti messicani, e le conferisce l’aria da senso comune di un fatto “naturale”» (DE GENOVA N. 2004: 206) (14).

Tale spettacolo si nutre proprio dell’ambivalenza di quelle procedure di gestione dei corpi dei migranti che hanno luogo nella “zona di indistinzione” tra sfere dell’umanitario e del sicuritario. Ritorneremo su questo punto più avanti.
L’effetto di naturalizzazione della clandestinità che lo spettacolo del confine sortisce è alimentato da uno dei principali caratteri della disciplina moderna, cioè l’automatismo, o meglio l’oggettivazione di procedure asettiche che rendono sostituibili i soggetti adibiti al controllo. Come ci ricorda Foucault, è questa la geniale novità dei meccanismi panottici, l’automatizzazione e deindividualizzazione del potere:

«Poco importa (…) chi esercita il potere. Un individuo qualunque, quasi scelto a caso, può far funzionare la macchina: in assenza del direttore, la sua famiglia, gli amici, i visitatori, perfino i domestici. Così come è indifferente il motivo che lo muove: la curiosità di un indiscreto, la malizia di un bambino, l’appetito di sapere di un filosofo che vuole percorrere questo museo della natura umana, o la cattiveria di coloro che provano piacere a spiare e punire» (FOUCAULT M. 1976 [1975]: 220).

Nonostante il dispositivo dello sbarco sia più fluido, meno articolato, ma allo stesso tempo svolga anche funzioni ulteriori rispetto alle istituzioni totali che ha in mente Foucault, questo ragionamento ha la sua pertinenza anche in quel caso. È infatti possibile, e probabile, che gli altri soggetti presenti sulla banchina, con scopi diversi da quelli delle forze dell’ordine, siano risucchiati nel meccanismo disciplinante, diventino cioè essi stessi dei sorveglianti. E ciò non come messa in atto di un’ingiunzione esplicita da parte delle forze dell’ordine, ma per l’effetto impersonale del meccanismo stesso. Questo può valere per gli operatori di MSF, per i giornalisti, per i migranti stessi, e ne ho avuto esperienza diretta su me stesso. Mi è capitato, infatti, di trovarmi davanti dei migranti che, senza essere visti dagli agenti, si erano alzati ed erano fuoriusciti dai ranghi, muovendosi disorientati alla ricerca di un interlocutore – perché ad esempio avevano bisogno del bagno o di mostrare al medico una ferita o altro – e di sorprendermi a indicare automaticamente loro il punto da cui erano fuoriusciti e la posizione da assumere; si trattava di una reazione irriflessa, e perturbante, dettata probabilmente dalla percezione inconscia che quel comportamento avrebbe determinato una reazione sgradevole da parte delle forze dell’ordine. Io che avevo assistito a un certo numero di sbarchi, e quindi avevo assimilato il modello ideale di coloro che in quella situazione esercitavano il potere disciplinante, mi ritrovavo quasi automaticamente a contribuire al mantenimento di quella struttura.
Questo punto ci impone una riflessione sul tema della “padronanza della regola”, perché la spersonalizzazione che il meccanismo dello sbarco produce, e soprattutto la sua ripetitività, hanno l’effetto di reificare la figura del “clandestino”, appiattendo le specificità e le differenze, e facendo quasi dimenticare un dato banale, cioè che nella stragrande parte dei casi i migranti che arrivano di volta in volta sono sempre diversi e non hanno un’idea precisa di cosa li aspetterà una volta scesi sulla banchina. Quello che per le forze dell’ordine è una routine, per i migranti è invece un evento di cui non conoscono le regole del gioco. È questa differenza sostanziale – il fatto che la medesima situazione sia esperita dai diversi soggetti alternativamente come routine o come evento – che il meccanismo disciplinante tende a dissimulare, collocando “il clandestino” tra coloro che partecipano a una routine, e presupponendo, quindi, che egli sappia già come comportarsi. Spesso, dalle reazioni delle forze dell’ordine, ho avuto l’impressione che le incertezze, i tentennamenti, lo smarrimento dei migranti al momento del loro inquadramento, fossero in qualche modo biasimate come un’insufficiente applicazione di principi di comportamento trasparenti e ovvi, piuttosto che essere concepite per quello che sono: il disorientamento di chi si trova imbrigliato in un meccanismo di cui nessuno gli ha illustrato le regole. È come se si rimproverasse ai migranti: «Sono anni che arrivate qui, ancora non avete imparato?».

Discorsi e pratiche della Guardia Costiera

L’etica del salvataggio

Nel 2004 la Bandiera del Corpo delle Capitanerie di Porto ha ricevuto una Medaglia d’Oro al Merito Civile per le attività svolte tra il 2001 e il 2003 a Lampedusa e Linosa, con la seguente motivazione:

«Il personale delle Capitanerie di Porto ha fronteggiato le emergenze legate all’enorme flusso dell’immigrazione clandestina via mare, rendendosi protagonista del soccorso, anche in condizioni atmosferiche avverse, dei cittadini extracomunitari presenti sulle imbarcazioni intercettate da unità del Corpo. La molteplicità degli interventi, effettuati con elevata professionalità, sia di giorno che di notte, hanno dato testimonianza di generoso spirito di umana solidarietà, di eccezzionale [sic!] coraggio, e di diffuso senso di abnegazione e dedizione al dovere, contribuendo a rafforzare la fiducia nelle Istituzioni.
Roma, addì 5 luglio 2004» (15).

Il carattere celebrativo del testo non permette di capire più chiaramente quali siano i soggetti in cui tale fiducia si rafforzerebbe: i migranti, per essere stati salvati? O invece quei cittadini che delle istituzioni menzionate sono i referenti legittimi – gli italiani – i quali, oltre che dal salvataggio di vite umane, sarebbero rassicurati dall’idea che esista un efficace meccanismo di controllo delle migrazioni? Ancora più interessante è la motivazione di un’analoga onorificenza assegnata nel 2000, per le operazioni svolte nel Canale di Otranto nei dieci anni precedenti:

«In occasione dei massicci e reiterati episodi di immigrazione clandestina il personale del Corpo, con grande tempestività e encomiabile professionalità, interveniva in soccorso dei numerosissimi profughi abbandonati in mare aperto o lungo i litorali. Operando generosamente per il superiore fine di salvaguardare comunque la vita umana, offriva alla Nazione tutta splendido esempio di umana solidarietà ed elevato spirito di sacrificio.
Roma, addì 11 maggio 2000» (16).

Anche in questo caso sembra esserci un tacito compromesso tra appartenenza nazionale ed estraneità, tutto depositato in quel comunque che pare sottintendere un implicito nonostante, relativo al carattere clandestino, quindi abusivo, di quelle presenze. Tutto ciò consente di mettere in risalto la natura doppiamente straordinaria delle gesta celebrate: il salvataggio anche di ciò che non appartiene al corpo della nazione, di persone che sono soltanto ma comunque “vita umana”, finisce per contribuire alla esaltazione della “Nazione tutta”, vivificando il confine su cui si gioca l’appartenenza. Un altro elemento che emerge dal confronto tra i due encomi è la differenza tra l’uso dell’espressione “profughi” nel caso albanese e quella di “cittadini extracomunitari” per i più recenti arrivi nelle isole Pelagie. Probabilmente questo spostamento semantico è dovuto all’assuefazione nei confronti degli arrivi, che da eventi spontanei ed emergenziali finiscono per essere percepiti come consuetudine ormai standardizzata, in cui l’evocazione dei contesti storico-geografici di partenza, che il termine profughi suggerisce, si perde nella espressione negativa ed etnocentrica di extracomunitari. Ad ogni modo, “spirito di sacrificio”, “umana solidarietà” e “salvaguardia comunque della vita umana” sarebbero i valori espliciti che guidano l’attività della Guardia Costiera.
Ma vediamo ora, più da vicino, qual è il ruolo che i membri della Guardia Costiera, nelle rappresentazioni del proprio compito, assegnano alla sacralità della vita, a quel “supremo valore della vita umana” che muove l’azione umanitaria. Sollecitato da me su questo tema, il Comandante della Guardia Costiera mi spiegò:

«In queste cose ci sono le mosse e le contro mosse. Ecco, c’è sicuramente un’organizzazione, ormai abbiamo capito che non è un fatto episodico, un fatto non organizzato. L’immigrazione clandestina è un fatto organizzato, il passaggio delle frontiere dev’essere consentito dagli stati rivieraschi che fanno da seconda sponda, no? Ecco, la sponda di arrivo è sicuramente la società organizzata, le società di tipo occidentale, che sono le attuali civiltà custodi del benessere. Allora l’organizzazione che c’è alle spalle sicuramente si basa anche sull’obbligo morale degli stati occidentali, che è quello del supremo rispetto e salvaguardia della vita umana – la salvaguardia suprema, il bene della vita – che poi la salvaguardia sia solo una questione di forma e non di sostanza questo non importa. Avendo noi quest’obbligo, loro giustamente sanno che se noi ci troviamo davanti a una situazione di soccorso, una situazione di pericolo per la vita umana in genere, ci prodighiamo per risolverla nel migliore dei modi. Quindi, noi abbiamo un’organizzazione che è messa lì a custodia non della frontiera ma della salvaguardia, a custodia della vita, del supremo interesse della vita, e quindi noi li andiamo a prendere ancora prima che arrivino. E questo lei crede che non faccia parte del disegno, cioè non sia stato inserito nell’organizzazione di chi organizza i viaggi?».

Queste parole mostrano come le forze dell’ordine si trovino al centro di due fuochi, scissi tra due diverse istanze. Da un lato viene loro richiesta l’applicazione di un potere di salvataggio che confermi la superiorità morale della nazione, ma, d’altro canto, esse sono chiamate ad arrestare quella che viene dipinta come una minaccia al welfare. Il trattamento dei migranti deve apparire funzionante in entrambe le direzioni. Nonostante le parole del Comandante sembrino sovrastimare il carattere umanitario del lavoro della Guardia Costiera, altri elementi ci permettono di cogliere quel difficile equilibrio tra le sfere dell’umanitario e del sicuritario che serve a legittimare il compito assegnato al Corpo. L’indistinzione tra questi due ambiti – un’opacità che caratterizza il salvataggio nell’ambito delle operazioni anti immigrazione ed è invece assente nel salvataggio ordinario – emerge anche dall’apparato iconografico che correda il sito web della Guardia Costiera; o meglio, risulta dal rapporto tra immagini e didascalie (17).
Il primo scatto mostra una donna e un bambino “neri” accompagnati da un agente durante, si presume, la fase di discesa dall’imbarcazione della Guardia Costiera. L’immagine rientra a pieno titolo nella retorica della salvaguardia della vita dei soggetti considerati deboli per eccellenza: donne e bambini (18). Inoltre la componente razziale gioca un ruolo importante nella legittimazione dell’arrivo da parte degli agenti: durante gli sbarchi ho notato una tendenza generale a considerare bisognosi di protezione umanitaria soltanto i “neri”, mentre si riteneva che le persone maghrebine e mediorientali fossero prevalentemente dei semplici migranti economici che tentavano di entrare abusivamente in Italia. La seconda fotografia ritrae, invece, la fase di intercettazione di un barcone di “clandestini”, questa volta uomini osservati collettivamente da una certa distanza. Visto il sovraffollamento della barca l’immagine trasmette l’idea del salvataggio, ma può anche essere percepita come un fermo. Tuttavia, ed è questo il punto importante del discorso, l’elemento interessante di entrambe le foto, che corredano il testo della sezione “anti immigrazione” del sito, è il loro rapporto con le didascalie. La prima recita: “Un’operazione anti immigrazione”, espressione negativa che stride con il carattere esplicitamente umanitario dello scatto. La seconda riporta invece: “Intercettazione delle unità clandestine” (19), laddove la clandestinità dei singoli soggetti viene unificata e traslata, per metonimia, sul mezzo di trasporto. Quindi, se le immagini, almeno la prima in maniera inequivocabile, trasmettono l’idea di protezione e salvaguardia della vita, il testo che le accompagna gioca sul registro del contenimento e del controllo: “anti immigrazione”, “intercettazione”, “unità clandestine”.
Un’altra foto invece, posta nella sezione Ricerca e Soccorso in mare (S.A.R. – Search and Rescue), che figura come prima voce nell’elenco delle “principali linee di attività del Corpo” (20), ritrae un salvataggio “ordinario” (21). Le persone salvate sono evidentemente dei bagnanti, e la prima cosa da notare è la loro disposizione libera sull’imbarcazione: sono in piedi, chiacchierano tra loro, si muovono; tutte attività che non sono permesse ai migranti, sottoposti invece a un’irreggimentazione spaziale durante il trasporto in mare e le attività di soccorso a terra. È probabile che questo dato marchi la differenza tra corpi innocui in pericolo e corpi pericolosi in pericolo (22).

Osservare i corpi

Chiaramente la salvaguardia della vita umana non va confusa con il riconoscimento della soggettività dei migranti. Al contrario, come gli studi sulla biopolitica hanno sottolineato, l’umanitario può avere l’effetto di mortificare la soggettività delle cosiddette “popolazioni target” (AGAMBEN G. 1995, 2003, AGIER M. 2002, FASSIN D. 2001, 2005, PANDOLFI M. 2003, 2005, TURNER S. 2005). Nel seguente frammento dell’intervista al Comandante della Guardia Costiera, l’ufficiale spiega l’inesorabile percorso che i migranti sono forzati a intraprendere:

Comandante: «Il loro mentire, mentire sulla nazionalità, è un elemento che alla fine di un processo previsto per legge ha due conseguenze: 1) l’identificazione certa e l’espulsione in virtù di un accordo di riammissione con lo Stato d’origine; 2) il cosiddetto “rilascio”, cioè la disposizione di una misura di polizia che dice: “devi lasciare il paese in tot giorni”. Ma il clandestino cosa fa? Prende questo documento, se lo mette in tasca, e se ne va in giro, con le conseguenze previste dalla legge in caso di nuovo arresto. Ma in quel momento egli diventa un libero di essere clandestino».
Io: «Un “clandestino soggiornante” potremmo dire».
Comandante: «No, “libero di essere clandestino” è meglio, perché il “clandestino soggiornante” è qualcuno che non è mai stato arrestato. Mentre il “libero di essere clandestino” è quella persona che è già stata arrestata, in ogni caso c’è una identificazione, un’impronta è stata presa, quindi c’è un riconoscimento personale, anche se il suo nome non è Nicola, ma “Sette-cerchi”… “sette cerchi in mezzo al dito”».

Grazie alla produzione di una certa conoscenza rispetto ai corpi dei migranti, supportata dallo spettacolare sviluppo delle tecnologie di controllo dell’identità – quei «dati biometrici considerati indipendenti dalle capacità individuali di dire e fare» (GUILD E. – BIGO D. 2005: 73) – i corpi espulsi, o quelli rilasciati sul territorio nazionale con un ordine di espulsione, sono intrappolati in un sistema di restrizioni alla circolazione interna e alle possibili ammissioni future nello spazio Schengen. Un sistema possibile dal momento che, per poter stabilire questa bio-identità, non si ha bisogno di interpretare e prestare fede al discorso dei soggetti. Le parole del Comandante mostrano come i migranti siano percepiti come soggetti irrazionali che sfruttano il loro diritto di mentire. Ma, seguendo il filo del discorso, pare che questo gioco non porti a nulla, perché il “libero di essere clandestino” è in ultima istanza agganciato alla norma come nuda vita con una bioidentità certificata.
La condizione di precarietà o meglio di totale invisibilità politica dei migranti non autorizzati appare quindi come una conseguenza naturale della loro menzogna, della loro stolta furbizia. L’espressione “libero di essere clandestino” si riferisce a una qualche forma di normalizzazione della presenza dei migranti, e nasconde quei processi di “produzione giuridica dell’illegalità” che caratterizza il soggetto “clandestino”, quel meccanismo di esclusione inclusiva costituito dalla produzione attiva della irregolarità migrante da parte dei sistemi giuridici e delle pratiche amministrative dei paesi di ricezione. “Sette-cerchi” non è un corpo straniero che soggiorna all’insaputa delle autorità dei territori nazionali di arrivo, ma è qualcuno che è stato “rilasciato” dopo essere stato assoggettato a una pratica di pseudo-identificazione, l’individuazione di un segno – le impronte digitali – attraverso il quale la norma avvinghia definitivamente il suo corpo (AGAMBEN G. 1995). Si tratta di una persona “libera” di circolare, ma tale libertà è decisamente diversa da quella ratificata per legge, si tratta piuttosto di una libertà per abbandono, un gioco alla libertà su cui continuamente e arbitrariamente incombe la possibilità della deportazione.
Così, il “clandestino” prodotto a Lampedusa diventa il simbolo di un corpo estraneo che vuole ad ogni costo penetrare l’area protetta di Schengen, un Icaro tanto impavido quanto ingenuo che sfida con cocciutaggine le leggi immutabili dell’ordine nazionale delle cose (MALKKI L. 1995). Egli è fondamentalmente un soggetto irrazionale, che rischia la vita in mare, mente, si sottopone allo sfruttamento, delinque. È il soggetto di una immagine molto utile per legittimare quel processo di “inclusione selettiva e differenziale”, la “produzione permanente di una pluralità di status” (MEZZADRA S. 2006: 39) da parte di quel nuovo regime di controllo delle migrazioni che non ha l’obiettivo di arrestare i migranti ma di renderli docili e utili, come ha sottolineato, tra gli altri, Sandro Mezzadra. Se ciò che può emergere dal discorso del migrante è soltanto la menzogna, allora la vita biografica, il bios, di un tale soggetto non può essere considerata da parte degli addetti al controllo come un utile punto di contatto nella relazione tra migranti e strutture di ricezione. Plasmate da quest’ottica, le forze dell’ordine sentono il bisogno di cercare delle modalità di relazione con i migranti che eludano il ricorso alla “parola”.
Sottolineato questo, ritorniamo sulla banchina del porto. Con l’obiettivo di stabilire definitivamente la certezza della menzogna, i controllori si mettono alla ricerca di elementi oggettivi che permettano di fare a meno dell’interpretazione delle dichiarazioni dei “clandestini”. Mediante l’osservazione dei corpi, le forze dell’ordine conducono una preselezione dei migranti, collocandoli idealmente in varie categorie e mostrando una certa diligenza nel raccogliere ogni indizio che possa contraddire le poche dichiarazioni da loro rilasciate in quel contesto. La prova della falsità delle dichiarazioni delle persone sbarcate è ricercata nei corpi, secondo gli standard di un “paradigma indiziario” (GINZBURG C. 1986). L’ispezione corporale permette di operare un spostamento da un’ermeneutica del discorso a un’ermeneutica del corpo (23).
Un esempio illuminante di questo processo di produzione della verità da parte delle forze dell’ordine riguarda le obiezioni alle dichiarazioni dei migranti circa la durata della traversata. Durante la mia ricerca ho potuto osservare come, per contestare le dichiarazioni dei migranti appena arrivati, le forze dell’ordine operassero una valutazione della lunghezza della barba dei migranti, un “segno irrefutabile” per stabilire la durata della traversata, “oggettivamente” più breve, secondo l’interpretazione delle forze dell’ordine, di quella dichiarata. Il contesto del dialogo che segue è quello di uno sbarco piuttosto problematico. In quei giorni il CPT era affollatissimo, Polizia e Carabinieri si stavano adoperando per effettuare lo svuotamento mediante la deportazione dei migranti in altri centri italiani o in Libia. Intorno alle dieci del mattino la Guardia Costiera “sbarcò” sulla banchina circa centosettanta migranti, ma poiché le operazioni di svuotamento del centro erano ancora in corso, la Polizia fece pressione affinché si posticipasse l’ingresso nel CPT dei nuovi arrivati. Il risultato fu che i centosettanta uomini attesero più di due ore e mezza sulla banchina, sotto un sole cocente. Quello stesso giorno ad assistere alle operazioni c’era anche Elisa, una fotografa marsigliese che stava effettuando un reportage fotografico sul tema dei boat people nel Mediterraneo. Durante quella lunga attesa ci fu un piccolo alterco tra la ragazza e il maresciallo della Guardia Costiera che gestiva le operazioni:

Elisa: «Come mai sono qui dalle dieci?»;
Maresciallo: «Come mai?»;
Elisa: «Aspettano qua dalle dieci»;
Mar.: «Anche noi aspettiamo qua dalle dieci!»;
Elisa: «Ma voi non è che avete fatto cinque giorni di mare no?»;
Mar.: «Ma lei è sicura che hanno fatto cinque giorni nel mare, lei pensa così?»;
Elisa: «Anche se hanno fatto due giorni»;
Mar.: «Allora lei… un momento», [nel frattempo si avvicina a un migrante e gli prende il viso tra le mani], «lei pensa che questa è una barba di cinque giorni? [con tono retorico] O questo se l’è fatta durante la navigazione?»;
Elisa: «Magari tre giorni…»;
Mar.: «Questo qua, questo qua?»;
Elisa: «Ci sono certe persone che sono molto stanche; questi qua per esempio»;
Mar.: «Ma c’è il dottore che accerta se stanno bene o meno»;
Elisa: «Sì, sì, no, lo so, però sono, cioè, dalle dieci che sono qua al sole, cioè comunque dev’essere…»;
Mar.: «Dev’essere?»;
Elisa: «Proprio… stancante. Poi sono arrivati con la nave no? Mi sbaglio magari. Sono arrivati con la nave, o mi sto sbagliando?»;
Mar.: «Sono arrivati con la motovedetta»;
Elisa: «Non è che hanno fatto, via terra, qualche ora di strada, loro erano lì da quattro giorni»;
Mar.: [seccato] «Tutto quello che dice lei…»;
Elisa: «No, io sto facendo delle domande, non sto dicendo niente…»; [prima a me e poi al Mar.] «Poi sono giovani non è che hanno i peli che crescono tanto magari, no? Sono tutti minori quasi no?»;
Mar.: [mostra la sua barba piuttosto lunga] «Io la barba ce l’ho da tre giorni…»;
Elisa: «Sì però magari cresce meno di lei»;
Mar.: «Cresce meno di me?»;
Elisa: «Sono più giovani…»;
Mar.: «Ah, quando si è più giovani cresce di meno e quando si è più vecchi cresce di più?»;
Elisa: «Sì, percheé più ti radi, più cresce di più, no?»;
Mar.: [prendendo di nuovo il viso di un ragazzo] «Questi le sembrano peli? cioè peli di un bambino? oppure una barba radicata, di un uomo ormai?»;
Elisa: «Sì, ma sono marocchini, sono mediterranei, che il pelo è duro no? Cioè non puoi dire la barba, cioè non è una prova che hanno fatto tre, quattro, cinque giorni… non lo so»;
Mar.: «E infatti non siamo qui per accertare…»;
Elisa: [indicando un ragazzo con cui avevamo scambiato due parole poco prima] «Questo, lui sarà molto stanco per il viaggio, no? Cioè ha ventiquattro anni, a te sembra ventiquattro anni? A me no, a me sembra ventinove»;
Mar.: «Quindi?»;
Elisa: «Quindi sembra più vecchio perché magari è stanco no?»;
Mar.: «Magari non ha ventiquattro anni, ma ha ventuno anni, lei lo sa? Lei la conosce la sua età?»;
Elisa: «No, però mi può dire che si può mentire sulla nazionalità, ma sul viaggio non si può mentire, credo»;
Mar.: «Quello lì c’ha il pizzetto, cioè non è che… quello con la maglietta rossa c’ha il pizzetto. Mi dica che crescono quei peli solo lì! È importante che lei me lo dica percheé…»;
Elisa: «Ah… no, no, no… Ma magari loro si sono rasati lì sulla nave, che cosa ne sai?»;
Io: [mostro la mia barba non molto folta] «La mia ad esempio è di tre giorni!»;
Elisa: [a me] «La tua è di tre giorni? Ecco, vedi?!».

La veridicità delle dichiarazioni dei migranti sui quattro o cinque giorni di traversata è contestata dall’agente in base all’osservazione della barba, che sembra essere un dato inconfutabile. Ma quando la donna interpreta quel segno attraverso il riferimento all’età e ai caratteri fenotipici, mettendo quindi in dubbio il criterio della barba come prova della durata della traversata, l’agente ripiega affermando: “non siamo qui per accertare”. Tuttavia il fatto che non si possa accertare non sospende comunque il giudizio sulla falsità delle dichiarazioni dei migranti, almeno rispetto alla durata della traversata. Questa impossibilità di accertare, con dati oggettivi, ciò che i migranti hanno dichiarato (24), non permette di sondare, altrettanto oggettivamente, il livello del loro presunto disagio, della loro stanchezza, e di conseguenza, rende immune l’operato della macchina dello sbarco da qualsiasi contestazione.
E comunque, a prescindere dalle questioni relative alla velocità di ricrescita della barba legate a fattori genetici o all’età, ciò che viene esclusa è la possibilità che i migranti possano radersi a bordo. Anche se, in altri casi, la narrazione della fase di recupero in mare da parte di alcuni agenti della Guardia di Finanza lascia trapelare l’infondatezza di questo principio, come mostra questo dialogo tra me, tre agenti della Guardia di Finanza e il medico di MSF:

Agente 1: «Ma dove credono di andare?! Si fanno la barba, mettono il gel!»;
Io: «Io una volta ho visto su un barcone un barattolo di lucido per scarpe; e un uomo mi ha anche chiesto del deodorante»;
Agente 2: «Devono andare a ballare!!!»;
Io: «Forse non vogliono apparire sporchi»;
Agente 1: «Si preparano a festa…»;
Io: «Ma questo avviene una volta che sono saliti sulle vostre navi?»;
Agente 3: «No, no, sul loro barcone, già sul barcone loro; io prima stavo sul loro barcone e tutti quanti si facevano la barba»;
Io: «Ma allora è vero che riescono a radersi a bordo?!»;
Agente 3: «Sì, perché si fanno tutti la barba al momento»;
Io: «Allora dire che sono in mare da poco perché hanno la barba rasata è sbagliato?»;
Agente 3: «Se la fanno, se la fanno! Hanno le lamette usa e getta, a secco… ce n’era uno che faceva così [mima il gesto di una persona che si rade con forza]»;
Io: «A secco?!»;
Agente 3: «A ripetizione, sì! faceva così… si stava proprio distruggendo la faccia!»;
Agente 1: «Solo che loro sono… cioè non hanno una barba folta»;
Medico: «Alcuni sono anche minorenni…»;
Agente 1: «Eh!».

È evidente che il criterio corporale usato per contraddire le dichiarazioni dei migranti è tutt’altro che oggettivo. È probabile che a favorire il suo uso da parte del maresciallo della Guardia Costiera abbia contribuito il cliché miserabilista frequentemente associato alle persone sbarcate, quello che dipinge i migranti come dei (reali, ma più spesso presunti) disperati che fanno di tutto per impietosire la società di ricezione. Questo stereotipo esclude a priori un ruolo creativo dei migranti nella gestione della rappresentazione del sé, che invece è un aspetto basilare della negoziazione simbolica della presenza stessa dei migranti sul territorio nazionale. Fotografie come quella che segue (Foto 3) – un uomo sbarcato con vestito e panciotto – e altri frammenti etnografici (lucido per scarpe trovato sui barconi, migranti che al loro arrivo si pettinano o fanno richiesta di deodorante), illuminano delle pratiche di cura del sé che scheggiano l’immagine di una disperazione passiva.


Eppure in entrambi i casi, che prevalga una immagine di prostrazione o di decoro, i migranti sono oggetto di biasimo o derisione. Nella prima direzione abbiamo le eloquenti parole di Angela Maraventano, la famosa lampedusana della Lega Nord:

«Queste persone vanno aiutate. Però poi che gli rimane? Prostituzione, droga… organi! Perché questi qua non hanno cultura… a loro non frega niente… non è che hanno un senso… non si amano! Perché io dico che se si amassero un minimo si ribellerebbero un poco no? Cioè, ce l’avrebbero questo coraggio… un po’. Cioè se tu non ti vuoi bene pensi: “lascia, che me ne frega… quando muoio muoio!”, non è così? Invece, se tu ci tieni, a volerti bene e ad apprezzare chi sei, fai di tutto per migliorare, no? A queste persone non frega niente» (25).

Corpi miserabili, senza cultura, destinati a disfarsi nella droga, a trasformarsi in oggetto di piacere, a frantumarsi in organi da commercializzare o a perire in mare, l’arrivo di queste persone che non si impegnano a “migliorare” risulta riprovevole, da evitare. Sull’altro versante, quello di corpi curati, manipolati per apparire “a posto”, abbiamo, come si è visto nel dialogo precedente con le forze dell’ordine, la derisione scandalizzata da parte di chi giustifica il proprio lavoro come salvataggio di disperati e arresto di clandestini: “dove devono andare? Devono andare a ballare! Si preparano a festa!”. Alla battaglia tra corpo e parola che caratterizza la relazione tra migranti e forze dell’ordine, si affianca qui un confronto, mai definitivo, tra diverse immagini del corpo.

Biopolitica e produzione della “illegalità”

Negoziare la pena

Durante la mia esperienza etnografica ho notato che l’accusa di mentire era una costante nel giudizio delle forze dell’ordine sui migranti. Essi applicavano questo paradigma anche a ciò che rientrava nell’ambito della sfera umanitaria: la cura del corpo. Nella interazione tra guardie, migranti e medici c’era, infatti, un sottile gioco di definizioni della realtà della malattia e del disagio. Un giorno una dottoressa di MSF mi rivelò:

«A volte i migranti ci mostrano le cicatrici di vecchie ferite che non costituiscono un’emergenza medica, ma sono usate per soddisfare il loro bisogno di attenzione».

In questo caso, l’ambiguità di quel segno – le cicatrici di vecchie ferite – spingeva i medici a includere la richiesta dei migranti in un più generale bisogno di cura, considerando le condizioni psicologiche e le relazioni di potere presenti in quella particolare situazione. Dal canto loro, invece, le forze dell’ordine premevano per l’applicazione di criteri diagnostici più oggettivi, in accordo con un paradigma biomedico ormai superato (PIZZA G. 2005, SANTOSUOSSO A. 2003). C’è una zona grigia tra espressione della malattia (come illness) e menzogna intorno alla quale avveniva una negoziazione tra migranti, medici e forze dell’ordine. Quando, ad esempio, i migranti richiedevano l’aiuto di un medico perché avvertivano dei dolori articolari dovuti alla posizione disagevole assunta sulla barca, gli operatori di Medici Senza Frontiere si sentivano in dovere di riformulare il proprio ruolo di fronte a quel genere di problemi. Perché questo tipo di disagio non rientra nella categoria delle patologie e dei traumi rilevanti dal punto di vista del primo soccorso (l’unica prospettiva che legittimava la presenza di MSF sulla banchina). Esso è, al contrario, più vicino alla prostrazione che alla malattia, anche se non può essere facilmente considerato, come per le vecchie cicatrici, una simulazione, cioè un uso strategico e ingannevole del proprio corpo da parte dei migranti. In casi del genere, le forze dell’ordine mettevano in campo un sapere pratico costruitosi con l’esperienza in situazioni analoghe, sapere che permetteva loro di esprimere giudizi sullo stato di salute dei migranti. Di fronte a corpi inerti, stesi in terra disidratati o in stato di ipotermia e avvolti in teli termici – quelle immagini della disperazione oggetto dello sguardo mediatico – ho spesso ascoltato giudizi del genere da parte delle forze dell’ordine: «Non ha niente, questo domani starà meglio di me!!».
A volte l’individuazione e l’“accertamento” della menzogna sullo stato di salute dei migranti venivano operati dalle forze dell’ordine su altri piani che non implicassero un giudizio clinico. La menzogna, cioè, non era svelata sostenendo da un punto di vista medico l’insussistenza del malessere, ma, senza entrare nel merito della relazione medico/paziente, individuando degli atteggiamenti sospetti che tradissero, all’interno della relazione controllore/controllato, le intenzioni mendaci dei soggetti. Uno di questi piani era quello gestuale, come mostra l’esempio che segue. Durante le operazioni di sbarco un migrante mi fece segno che la gamba gli doleva, così attirai l’attenzione del maresciallo della Guardia Costiera che si trovava lì a due passi. Nel frattempo si era avvicinato anche un funzionario della polizia giudiziaria adibita alle indagini sul traffico dei migranti. Quest’ultimo, riferendosi all’uomo steso a terra con la gamba dolorante, chiese: «Ma questo pure è ammalato? Ha problemi?»; «Sì, gli fa male la gamba» risposi io; l’uomo, da terra, indicò la propria gamba. Notato quel gesto, il maresciallo della Guardia Costiera intervenne con tono tra il sarcastico e l’indispettito: «Dice “la gamba”! Lui parla italiano, eh?! Perciò ti capisce, già ti ha fatto il segno originale di “gamba dolorante”!». Poi rivolgendosi al migrante il poliziotto chiese: «Quale ti fa male la destra o la sinistra?», ma l’uomo disse qualcosa e fece segno di non capire; «You speak english?» replicò il poliziotto; «No, arab» rispose l’uomo, e così iniziarono a parlare in arabo. Nel caso appena illustrato la comprensione dimostrata dal migrante – facilmente giustificabile come decodificazione di codici extralinguistici, gesti, intonazione della voce, sguardi – è utilizzata come prova di una menzogna: parla italiano, capisce quello che dici e adotta lo stratagemma consueto che consiste nell’usare strumentalmente il proprio corpo per raggirare le forze dell’ordine e impietosire medici e osservatori. Ancora una volta il paradigma della menzogna fornisce all’agente il quadro di riferimento per proporre la sua “diagnosi”, ricavata questa volta dall’osservazione dei codici gestuali usati dal migrante per attirare l’attenzione sul proprio disagio. Agli occhi delle forze dell’ordine, l’attività di Medici Senza Frontiere trovava legittimazione nella sua autorità biomedica, un sapere/potere di separare il sano dal malato. Tuttavia abbiamo visto come gli operatori agissero su un confine opaco, in cui lo stato di malessere era oggetto di una negoziazione peculiare collegata alla specifica relazione di potere tra i migranti e le strutture di ricezione della società di arrivo.
Questi nodi chiamano in causa la riflessione antropologica sulla medicina, che avvalendosi della pratica etnografica ha sottoposto a critica le pretese oggettivanti della medicina ufficiale occidentale (biomedicina) (PIZZA G. 2005). Problematizzare la sua razionalità universalizzante, significa trattare la “medicina occidentale” come un “sistema culturale” da rapportare alle forme altre di cura e guarigione e al vissuto e alle rappresentazioni dei “pazienti” (PIZZA G. 2005: 126). Quest’opera di decostruzione del «riduzionismo biologico nella definizione del corpo» (PIZZA G. 2005: 250), insito nell’approccio oggettivante della biomedicina, ha permesso così di ridefinire in senso dialogico i concetti di cura e di malessere e di riconsiderare il rapporto medico/paziente nei contesti sociali ed economici in cui esso ha luogo e nell’alveo delle relazioni di potere in cui è imbricato. Come sostiene Giovanni Pizza, da cui traggo la maggior parte di queste considerazioni:

«La concezione antropologica del concetto di “cura” (…) si definisce come una tecnica dell’attenzione, dell’ascolto e del dialogo, basata sulla dialettica fra la prossimità e la distanza, fra la parola e il silenzio, sulla consapevolezza dell’impossibilità di separare nel gesto l’aspetto tecnico da quello simbolico ed emozionale, su una comunicazione corporea e sulla dimensione emozionale e politica che questa relazione comporta» (PIZZA G. 2005: 229).

Questa concezione di cura si differenzia da quella oggettivante di terapia che si basa soltanto sulla visione razionale che del malessere ha il medico (26). A Lampedusa, con la loro opera di sdrammatizzazione le forze dell’ordine si inserivano come voce esterna nel delicato processo di negoziazione del significato del malessere tra il medico e il paziente, cercando di ripristinare una oggettività diagnostica che gli stessi medici (e ancor di più gli osservatori esterni) tendevano spesso a relativizzare.
L’attenzione “umana” al vissuto del soggetto in preda al malessere non consiste però in un semplice addolcimento dell’approccio medico, ad es. impiegando tecniche relazionali e psicologiche che in maniera paternalistica rendano la diagnosi e il trattamento medico più accettabili e meno invasivi per il paziente, come un certo discorso interno al paradigma bio-medico propone. Riscoprire il lato umano del rapporto medico/paziente significa, invece, riflettere radicalmente sullo statuto di realtà del vissuto soggettivo del paziente e, da qui, instaurare un dialogo che nella situazione specifica permetta di definire la cura. Un tale approccio critico, secondo Pizza, deve mettere in discussione:

«due assunti paradossali: da un lato, l’illusione di una neutralità del medico nel rapporto con il paziente; dall’altro, la pretesa, impossibile, di isolare nello spazio ristretto dell’interazione medico-paziente i più estesi significati sociopolitici e i più complessi rapporti di forza nei quali entrambi i poli della relazione agiscono e sono agiti, in rapporto alle istituzioni sanitarie e, attraverso di esse, con lo Stato e il mercato» (PIZZA G. 2005: 247).

D’altronde l’esperienza concreta dei medici e degli etnografi conferma come nella pratica molti medici lavorino in questa direzione vivendo le contraddizioni tra ideologia istituzionale ed esperienza diretta della relazione. La specifica situazione di Lampedusa rappresenta un luogo privilegiato di osservazione di queste dinamiche relazionali. Infatti, in questo caso risultano evidenti le contiguità e gli intrecci di sistemi di relazione multipli: migranti-forze dell’ordine, migranti-medici, forze dell’ordine-medici, e tutti questi alla presenza di osservatori esterni. D’altronde, come ha sostenuto in modo pregnante l’antropologo medico Byron J. Good:

«La malattia non si verifica solo nel corpo – nel senso di un ordine ontologico nella grande catena dell’essere – ma nel tempo, in un luogo, nella storia, nel contesto dell’esperienza vissuta e nel mondo sociale. Il suo effetto è sul corpo nel mondo!» (GOOD B. 1999 [1994]: 204).

Nell’atteggiamento delle forze dell’ordine di fronte alle condizioni dei migranti durante gli sbarchi, l’opera di individuazione della menzogna nei discorsi si intrecciava con la sdrammatizzazione del loro disagio psico-fisico. Un meccanismo direttamente collegato al tema dello “spettacolo del trattamento” affrontato sopra, quando ho esaminato il ruolo dinamico delle forze dell’ordine nella produzione della narrazione dell’evento e nel controllo dell’equilibrio tra immagine dell’assistenza e quella della repressione. Un controllo che avveniva a monte attraverso la gestione degli spazi concessi agli osservatori esterni – presenza sulla banchina, regolazione della vicinanza ai migranti, ecc. – ma anche a valle, attraverso l’espressione di giudizi di merito, soprattutto circa le condizioni fisiche dei migranti. Un esempio chiarirà quanto detto.

Il 19 settembre 2005 ci fu uno sbarco particolarmente importante, sia per il numero di persone sbarcate sia per la presenza della portavoce italiana dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), Laura Boldrini, che in quei giorni stava conducendo accompa- gnata da un cameraman una visita di monitoraggio a Lampedusa. Per l’occasione speciale, quella sera sul molo del porto di Lampedusa erano intervenuti contemporaneamente Guardia Costiera, Guardia di Finanza e Polizia. Tra le persone sbarcate c’erano anche diversi bambini, di cui alcuni molto piccoli, e un certo numero di persone in stato di ipotermia. Subito lo sguardo delle varie telecamere e macchine fotografiche si concentrò su di essi. Questo fatto, aggiunto alla presenza dell’UNHCR, rischiava di sbilanciare la rappresentazione dello sbarco sul versante umanitario. Le forze dell’ordine, quindi, tesero a fornire elementi interpretativi per evitare che alcune immagini potessero, secondo loro, far sovrastimare il “dramma” dei migranti. Il Comandante della Guardia Costiera, guardando un ragazzo che era stato messo in cura per ipotermia e che in quel momento era inquadrato da una telecamera (Foto 4), esclamò sorridendo: «questo trema con tutte ‘ste telecamere puntate contro!». Con quella espressione icastica, l’ufficiale mise in discussione con sottile ironia il rapporto tra la realtà del malessere e la sua rappresentazione mediatica, ribaltando cioè l’ordine logico di ciò che stava accadendo: “trema perché e ripreso” al posto di “è ripreso perché trema”.

…e il nostro di disagio?

La pretesa da parte delle forze dell’ordine di possedere la verità degli sbarchi, e di gestirne la rappresentazione, si fonda sulla prossimità tra i loro corpi e quelli dei migranti, condizione che dà vita a una sorta di intimità rivelatrice e pericolosa. In alcune circostanze i corpi del controllore e del controllato, che sono contestualmente anche salvatore e salvato, rischiano di sovrapporsi. Ciò dà vita a una serie di discorsi e pratiche che mirano a ridefinire e negoziare i confini tra i diversi soggetti.
Traggo un altro esempio dallo sbarco in cui i migranti arrivati furono trattenuti per diverse ore sulla banchina in attesa che il CPT fosse svuotato e la fotografa francese e il maresciallo della Guardia Costiera ebbero un battibecco sulla “questione barba”. Quando la ragazza lasciò la banchina l’uomo si rivolse a me:

Maresciallo: «La signora se n’è andata contenta?»;
Io: «Non lo so»;
Mar.: «Una rottura di coglioni questa qua! Ma è fuori di testa comunque! Cioè, non per qualcosa, però m’è venuta a fa un discorso: “stanno da tante ore… sembrano stanchi! Magari so stati cinque giorni a mare! Si sentono male, poi li tieni sopra la banchina”; senti ma che vuoi? Ci stavo pure io sopra la banchina o me ne sono andato? No! Loro sono stanchi, io no!».

Questo confronto della sua condizione con quella dei migranti, e la polemica nei confronti di chi dall’esterno chiede spiegazioni su quel ritardo, potrebbero essere interpretati semplicemente come un arroccamento del militare in difesa dell’intera macchina dello sbarco. Tuttavia la situazione è più complessa, lo stesso maresciallo qualche ora prima, quando gli avevo chiesto il motivo di quel ritardo nel trasferimento, mi aveva risposto che era in corso lo svuotamento del Centro e la situazione era ingarbugliata:

«Praticamente il Centro di accoglienza è diventato… è diventato una schifezza completa, perché ci sono Carabinieri e Polizia e non riescono… non hanno la mente aperta per gestire diverse cose, sono.. così! [fa il gesto dei paraocchi], deve finire prima la bottiglia d’acqua per passare alla bottiglia d’acqua successiva, capito? Allora è complicato!».

Questa polemica esplicita esprime il disagio di chi, per colpa di qualcun altro, è costretto a rallentare il proprio lavoro, con effetti negativi sui migranti e sull’immagine del salvataggio. Tuttavia, in una situazione così critica, mostrare una solidarietà eccessiva nei confronti dei migranti avrebbe aumentato il rischio di far saltare i delicati equilibri simbolici tra salvataggio e arresto, minando alla base l’intera struttura della macchina dello sbarco. È qui che lo spirito di sacrificio, mostrare la sofferenza dell’agente di fianco a quella dei migranti, serve a smorzare questa tensione. Il seguente dialogo illustra questa presa di distanza dai colleghi così come dai migranti:

Maresciallo: «…poi ci facciamo le risate, intanto io mando un certificato medico dove dico che mi avete tenuto sotto al sole, a me come a loro, però se mi sento male da solo, viene qualcuno e dice: “guarda a questo, un militare che abbiamo buttato nel deserto e ora sul molo si è sentito male!”, cioè non posso farlo, invece se si sentivano male anche loro [i migranti], almeno due o tre… infatti mi volevo mettere d’accordo, però poi te la cantano…»;
Io: «Poi magari nessuno gli crede»;
Mar.: «No, no… si mettono d’accordo, poi al Centro cantano tutto, dicono: “quello m’ha detto, quello, quell’altro”».

Porre semplicemente il disagio dei migranti al centro delle critiche mosse ai colleghi sarebbe eccessivo e pericoloso, quindi è l’agente che diventa il perno intorno a cui si articola la critica, egli è chiaramente vittima dell’imperizia degli altri agenti, ma deve subire anche l’inaffidabilità (data per scontata) dei migranti, con cui è impensabile poter solidarizzare e da cui deve quindi prendere le distanze, rimarcando un confine che quella situazione anomala aveva rischiato di stemperare.
Anche l’esempio seguente mostra questo processo di ridefinizione dei confini. Il 15 settembre 2005 una delegazione di dodici parlamentari europei (della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni) si recò in visita al CPT di Lampedusa (PARLAMENTO EUROPEO 2005). Le dichiarazioni sulle gravi irregolarità e violazioni delle leggi nazionali e degli accordi internazionali in materia di diritti umani nel centro, fatte alla stampa da alcuni membri della Commissione, in particolare Giusto Catania di Rifondazione Comunista, provocarono un certo malcontento tra le forze dell’ordine. Anche la Guardia Costiera si sentì travolta da quelle critiche, come dimostra questo dialogo tra me, due uomini della Guardia Costiera e il medico di MSF:

Agente1: «Ma Gatto [sic!], lei studia… non si può avere il suo lavoro? Per dire: “questa persona ha studiato il fenomeno e ha capito certe cose”… nel bene e nel male, per carità!»;
Io: «Certo… e poi in altri paesi – Usa, Gran Bretagna… – lo “studio di polizia” è considerato un indice di democrazia ed è accettato dalle forze dell’ordine»;
Agente1: «Ma se ci trovassimo negli Usa, con gli immigrati, dovremmo spogliarli, disinfettarli, mettergli una tuta arancione numerata, ecc.»;
Medico: «Ma qui al Centro succede così, no?»;
Agente1: «Ma no! Io ci lavoro, ti posso dire che li trattano meglio di noi, certo bisogna perquisirli per vedere se hanno armi, ma poi li nutrono, li lavano, le schede telefoniche, le sigarette… Eppure c’è stato uno della commissione parlamentare che ha offeso le forze dell’ordine, non dico chi è, davanti ai parlamentari stranieri. Invece di difendere l’Italia! È vero che io sono fascista naturale, estrema destra… destra consentita ovviamente, ma lui da italiano doveva evitare di parlare in quel modo! Io gli vorrei dire, ma avrebbe dovuto dirglielo qualcun altro: “Vieni a lavorare un anno qui e poi parli! Vieni a vedere di cosa si tratta!»;
Agente2: «Vieni durante un salvataggio, quando le onde alzano i barconi due metri sopra la nostra nave e poi sprofondano giù! A un nostro collega il barcone ha schiacciato la gamba, non perché l’ha messa fuori, ma perché le onde hanno sollevato il barcone che si è accavallato alla nostra nave. Poi loro vogliono salire a bordo tutti insieme, poi a volte, senza scarpe, scivolano… altri rischiano di essere schiacciati tra la nave e la barca… noi cerchiamo di tenerli seduti, di fargli capire che li prenderemo tutti…»;
Agente1: «Una volta c’erano dei trasferimenti dal Centro, nel frattempo ci fu uno sbarco e bisognò aspettare un po’ prima di effettuare i trasferimenti: ci fu un caso politico! Dissero che non era giusto farli aspettare lì due ore! Ma perché gli ho detto io di venire? E io non aspetto lì? Che quella volta tornai a casa con le bolle sotto ai piedi, con un mal di testa tremendo!»;

C’è da notare come in questo discorso il tema del controllo, dell’arresto (“certo bisogna perquisirli per vedere se hanno armi…”), venga subito coperto e rimpiazzato da quello della cura, del salvataggio (“ma poi li nutrono, li lavano, le schede telefoniche, le sigarette”), che diventa preponderante. Quando il parlamentare, che non ha alcuna esperienza prolungata del lavoro svolto dalle forze dell’ordine lì a Lampedusa, esprime delle critiche sulle condizioni di detenzione nel Centro e sull’assenza di tutela giuridica dei soggetti detenuti, è ancora una volta l’esperienza del salvataggio, e il sacrificio delle forze dell’ordine, ad essere chiamato in causa: “Vieni durante un salvataggio, quando le onde alzano i barconi due metri sopra la nostra nave e poi sprofondano giù!”. Sono i pericoli e i disagi “corporei” connessi a un certo tipo di lavoro – dalla perdita di una gamba, al rischio di fallimento nel salvataggio anche a causa del comportamento dei migranti, fino alle bolle sotto ai piedi e al mal di testa da insolazione – che costituiscono la falange retorica opposta ai tentativi di critica del meccanismo di arresto dei migranti e degli abusi del concetto di ordine pubblico.
Lo spirito di sacrificio, che si può considerare proprio delle operazioni in mare – il soccorso, ben diverso dall’ordine pubblico – finisce per estendersi alle intere operazioni, e in generale a qualsiasi attività eseguita dalle forze dell’ordine, che in determinati casi, nonostante le tensioni tra i diversi corpi (GC, Finanza, Polizia, Carabinieri), come abbiamo visto poco fa, fanno corpo contro i tentativi di individuare l’elemento repressivo all’interno delle operazioni connesse all’arrivo dei migranti (dal mare al Centro e oltre). Uno dei meccanismi per innalzare questo spirito di sacrificio a valore assoluto, sacro, incontestabile, è il mescolamento della condizione dei migranti con quella degli operatori: “li trattano meglio di noi!”.

Pericolosità e utilità dei migranti

Il braccio di ferro tra migranti e forze dell’ordine ha risultati incerti. Si tratta di una partita giocata su corpi che sicuramente necessitano di essere “salvati”, ma con altrettanta certezza sono condannati a restare impigliati nel loro espediente di essere arrivati in pericolo di morte. La precarietà del corpo biologico fa il paio con il carattere menzognero della “parola” espressa, sono facce opposte di una stessa medaglia. La nuda vita deve necessariamente essere anche muta vita. L’ambivalenza del “trattamento” ha forti ripercussioni sui giudizi espressi da soggetti esterni alla macchina anti-immigrazione e sul senso comune che rielabora queste vicende. La disciplina e la cura di corpi pericolosi in pericolo stimola, su un versante, la reificazione di un pericolo non meglio specificato e, sull’altro, il rilascio di un desiderio di utilizzo dei corpi che stanno passando attraverso un meccanismo medico e simbolico di purificazione. Vorrei qui menzionare brevemente due giudizi esemplari espressi da soggetti esterni alla relazione triangolare tra migranti, forze dell’ordine e medici. Durante uno sbarco, alcuni turisti si trovavano nel punto di accesso alla banchina osservando le operazioni e chiacchierando con me e un agente della Guardia Costiera, che era lì per impedire ai curiosi di inoltrarsi più avanti sul molo. Dopo un po’ una donna di mezza età del Nord Italia affermò: «Pensando a questi poveri diavoli mi dispiace, ma in mezzo a questi purtroppo c’è altro!». Alludeva al pericolo potenziale di infiltrazioni terroristiche o criminali. La seconda affermazione proviene da un pescatore lampedusano che, in un’altra occasione, osservava le operazioni insieme a un amico. Un agente della Guardia Costiera aveva appena terminato di contare e separare dagli uomini le nove donne sbarcate, quando il pescatore esclamo divertito: «Marescià… otto, una la prendiamo noi!!». Poi, indicando alcuni giovani africani accovacciati e disciplinati in file ordinate, secondo la procedura, l’uomo confessò all’amico: «Ne prenderei proprio qualcuno, questi sono intelligenti, quanto ci vuole per insegnargli a fare qualcosa, magari il pane o altro, dieci giorni? E dopo lavorano bene!».
Se il “trattamento” è anche un “modo di trattare specialmente una sostanza o un materiale per conferirgli determinate caratteristiche”, le pratiche messe in atto e osservate sulla banchina degli sbarchi hanno l’effetto di produrre corpi pericolosi ma controllati e utili. Il meccanismo di controllo crea il pericolo, un pericolo tanto certo quanto nascosto, nel momento in cui si propone di arginarlo. In questo modo esso crea le condizioni di possibilità per mettere a valore quei corpi docili e sani. Si tratta di una profilassi che consente di dare libero sfogo, in sicurezza, al desiderio di sfruttamento, intervenendo in quel processo che Appadurai definisce il “sofisticato gioco delle traiettorie indigene di paure e desideri intrecciati con i flussi globali di persone e cose” (APPADURAI A. 2001 [1996]: 47). In questo modo la pericolosità e l’utilità formano un circolo rappresentativo in cui i migranti, privati di “voce”, restano inevitabilmente incastrati.

Note

(1) Una prima versione di questo saggio è stata scritta nel 2009. Nel frattempo il quadro geopolitico mediterraneo ha subito delle trasformazioni significative (basti pensare alle rivolte arabe e alla guerra in Libia), tuttavia per evitare eccessive alterazioni del testo, e poiché gran parte delle analisi etnografiche in esso contenute conservano una certa validità autonoma dalle trasformazioni in atto, si è preferito rimandare ad altri testi recenti per approfondimenti relativi alle vicende degli ultimi due o tre anni (GATTA G. 2011a, 2011b). I lavori citati affrontano anche il tema dell’uso politico della “questione clandestini” da parte della popolazione lampedusana.

(2) Un’istituzione particolarmente ambigua e quasi impossibile da “penetrare” da parte di un occhio esterno (in alcuni casi neanche da parte di membri del Parlamento italiano) (AMNESTY INTERNATIONAL 2005, ANDRIJASEVIC R. 2006, DENTICO N. – GRESSI M. curr. 2006, MEDICI SENZA FRONTIERE 2005, PARLAMENTO EUROPEO 2005).

(3) La Misericordia era l’ente gestore del Centro di permanenza temporanea e assistenza (CPTA) dell’isola nel periodo della mia ricerca (febbraio-ottobre 2005). Precedentemente gestito dalla Croce Rossa (dal 1998), il Centro era passato nelle mani della Misericordia nel 2002 e, quando nell’estate del 2007 fu attivata una nuova struttura, trasformata in Centro di soccorso e prima accoglienza (CSPA), la gestione passò a “Lampedusa accoglienza”, società consortile formata da due cooperative legate a Legacoop: Sisifo e Blucoop. Medici Senza Frontiere, invece, iniziò a lavorare nel CPTA di Lampedusa nel 2002. Nel gennaio 2004 pubblicò un rapporto piuttosto critico sullo stato dei CPT in Italia (MEDICI SENZA FRONTIERE 2005), qualche mese dopo il Ministero dell’Interno negò all’organizzazione l’accesso al Centro. Negli anni successivi MSF ha potuto però svolgere attività di primo soccorso sulla banchina del porto durante gli sbarchi. Il 31 ottobre 2008, in seguito alla decisione del Ministero dell’Interno di non firmare un nuovo Protocollo d’Intesa con l’organizzazione, le attività furono sospese. Ci fu un ritorno nella primavera-estate del 2009, prima che la stretta sicuritaria avviata dal Ministro Maroni e la “politica dei respingimenti” producessero un quasi totale annullamento degli arrivi. Con i nuovi sbarchi del 2011, in seguito alla rivoluzione tunisina e alla guerra in Libia, l’organizzazione ha ripreso a prestare servizio sull’isola.

(4) Intervista del 12 agosto 2005.

(5) Sayad definisce la pensée d’Etat come «una forma di pensiero che riflette, mediante le proprie strutture (mentali), le strutture dello stato, che così prendono corpo» (SAYAD A. 2002 [1999]: 367). Cfr. anche Bourdieu (BOURDIEU P. 1993).

(6) Mi rifaccio qui principalmente ai seguenti lavori: CALAVITA K. 2005, COUTIN S. B. 2005, DAL LAGO A. 2006, DE GENOVA N. 2002, 2004, 2005, DÜVELL F. 2004, 2008, FASSIN D. 2001, 2005, INDA J. X. 2006, MEZZADRA S. 2001, 2004, 2006, PANDOLFI M. 2005.

(7) Nell’economia di questo testo non è possibile approfondire l’importante questione metodologica della relazione dialogica con i migranti. Un rapporto che nel mio caso, dati i peculiari rapporti di forza presenti nella situazione analizzata, è stato impossibile. Nel mio lavoro ho cercato di evitare di considerare questa impossibilità come un semplice ostacolo alla ricerca, cioè come un qualcosa che mi impedisse di giungere a una presunta essenza rappresentata dal “punto di vista dei migranti”, ma ho invece ritenuto che fosse una condizione meritevole di essere analizzata in quanto tale. Per un interessante discorso sui rischi che l’oggettivazione antropologica e la sua divulgazione possano diventare veri e propri strumenti di controllo in determinate situazioni, e sulla necessità di tenere ben distinti lo studio delle persone senza documenti, da un lato, e quello della «illegalità» e della «deportabilità», dall’altro cfr. DE GENOVA N. 2002: 420-423.

(8) Si tratta di un modello euristico, necessariamente semplificato e basato sull’esperienza in un dato periodo. L’uso del tempo presente risponde quindi a criteri espositivi e di semplificazione e non vuole suggerire l’idea di una realtà sempre uguale a sé stessa. C’è da dire, però, che le variazioni nelle modalità di sbarco verificatesi nel corso di questi ultimi anni non influiscono significativamente sulle interpretazioni che seguono.

(9) Per triage s’intende una tecnica di pronto soccorso che prevede una primissima selezione e classificazione dei pazienti mediante una scheda di accettazione e un sistema di indici cromatici che permette ai medici di segnalare in maniera immediata il livello di gravità del disagio.

(10) Per una definizione di comportamento profilmico, come forma più o meno cosciente di auto messa in scena da parte dei soggetti che si trovano di fronte a una macchina fotografica o telecamera cfr. FAETA F. 2003: 115-116.

(11) Uso il termine mediazione nella specifica accezione fornita da Appadurai per indicare i pro- cessi di comunicazione mediatica (APPADURAI A. 2001 [1996]: 16).

(12) Le definizioni sono tratte dal Dizionario della lingua italiana di De Mauro (DE MAURO T. 2000).

(13) Sullo stesso tema cfr. anche Chavez (CHAVEZ L. R. 2008).

(14) Come si vedrà fra poco il carattere “razziale” della produzione dell’illegalità risulta in maniera molto chiara quando gli attori sono portati ad attribuire lo status di rifugiato o profugo.

(15) www.guardiacostiera.it/mezzi/stendardo.cfm (ultimo accesso: 22 dicembre 2011).

(16) www.guardiacostiera.it/mezzi/stendardo.cfm (ultimo accesso: 22 dicembre 2011).

(17) www.guardiacostiera.it/organizzazione/antimmigrazione.cfm (ultimo accesso: 22 dicembre 2011).

(18) Come accennato prima, ho potuto riscontrare la presenza di fotografie dello stesso genere – sia della fase di trasbordo dai barconi alle navi, in cui i migranti apparivano in quanto gruppo, sia nella fase a terra, con primi piani di donne e bambini, spesso accompagnati da agenti – incorniciate alle pareti delle caserme di Guardia di Finanza e Guardia Costiera.

(19) Nel linguaggio marittimo per “unità” (navale) si intende qualsiasi costruzione destinata alla navigazione.

(20) Che include: sicurezza della navigazione, protezione dell’ambiente marino, controllo sulla pesca marittima, ecc.

(21) www.guardiacostiera.it/organizzazione/ricercaesoccorso.cfm (ultimo accesso: 22 dicembre 2011).

(22) Quando una volta chiesi a un ufficiale della Guardia Costiera il permesso di salire sulle loro motovedette durante una operazione di soccorso dei migranti, l’uomo rispose tra il serio e il faceto: “se sgozzano me, pazienza, è il mio lavoro! Ma se sgozzano lei è un problema!”.

(23) Su temi analoghi, in particolare sulla individuazione della verità “dal corpo” dei richiedenti asilo mediante le certificazioni mediche cfr. FASSIN D. – D’HALLUIN E. 2005.

(24) L’accertamento dell’età dei presunti minori avveniva nel CPT mediante una tecnica che resta comunque imprecisa: la radiografia del polso.

(25) Intervista concessa all’autore il 22 giugno 2005.

(26) Questa differenza richiama la distinzione in uso prevalentemente nell’antropologia medica statunitense tra illness – l’esperienza soggettiva del malessere vissuta dal paziente – e disease – la definizione oggettiva del malessere, in quanto alterazione dell’organismo, fornita dalla biomedicina –, una ripartizione terminologica che permette di rinominare «il fenomeno indicato dalla biomedicina come “malattia”, restituendo ad esso la pienezza multidimensionale di una complessità insieme esistenziale, sociale e culturale» (PIZZA G. 2005: 83). Bisogna sottolineare, inoltre, che il concetto di cura ha delle radici filosofiche che travalicano l’ambito della medicina “scientifico-tecnologica” (TORALDO DI FRANCIA M. 2003). Si può, infatti, ricondurre questa nozione a quegli indirizzi filosofici che hanno decostruito la separazione cartesiana tra psiche e soma, e hanno proposto una visione globale dell’uomo. Il pensiero femminista (nelle sue varie ramificazioni) e la bioetica sono gli ambiti che, più di recente, hanno accolto questo concetto, approfondendo l’analisi del «“prendersi cura” come pratica relazionale, […] scambio comunicativo, i cui fini sono plurimi e mutevoli, indipendentemente dal diverso status dei soggetti della relazione e delle situazioni particolari» (TORALDO DI FRANCIA M. 2003: 132).

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Riassunto

Corpi di frontiera. Etnografia del trattamento dei migranti al loro arrivo a Lampedusa.

Il saggio presenta alcune riflessioni intorno alla gestione biopolitica dei migranti al momento del loro arrivo sul territorio italiano. Le interpretazioni si basano su una ricerca di terreno condotta a Lampedusa a partire dal 2005. Il “corpo” dei migranti, ma anche degli altri soggetti impegnati nella loro gestione, costituirà il fulcro per un’analisi delle dinamiche in atto sulla banchina del porto durante la fase di sbarco gestita dalle forze dell’ordine e dagli operatori umanitari. Nella prima parte saranno illustrate le procedure di sbarco, con una particolare attenzione al ruolo attivo delle guardie nella produzione di un’immagine specifica degli “arrivi”. In seguito, si procederà all’analisi del discorso della Guardia Costiera sull’azione umanitaria, un tema che oscilla tra salvaguardia della vita e controllo del confine. Inoltre, saranno analizzate le pratiche di negoziazione della sofferenza da parte di migranti, forze dell’ordine, attori umanitari e osservatori esterni, e, più in generale, la relazione biopolitica tra questi soggetti in campo, con particolare attenzione ai problemi del corpo e della soggettività.

Parole chiave: biopolitica; clandestinità; corpo; migrazioni; trattamento; intervento umanitario.

Résumé

Corps frontaliers. Ethnographie du traitement des migrants à leur arrivée à Lampedusa.

Cet essai présente des réflexions sur la gestion biopolitique des migrants lors de leur arrivée sur le territoire italien. Les interprétations ont été développées à partir d’observations effectuées lors d’un travail de terrain mené aà Lampedusa à partir de 2005. Le corps des migrants, mais aussi ceux des autres sujets impliqués dans leur gestion, constituera le cœur de l’analyse des dynamiques en jeu sur les quais du port de l’île durant les opérations de débarquement géreées par les gardes et les opérateurs humanitaires. Dans la première partie, nous examinerons les procédures de débarquement, en portant une attention particulière au rôle actif des gardes dans la production d’une image spécifique des «arrivées». Par la suite, nous poursuivrons avec l’analyse du discours de la garde côtière au sujet de l’action humanitaire, lequel oscille entre la problématique de sauvegarde de la vie et celle du contrôle des frontières. Par ailleurs, nous analyserons les pratiques de négociation de la souffrance par les migrants, les gardes, les acteurs humanitaires ainsi que les observateurs extérieurs, et, plus généralement, la relation biopolitique entre ces sujets, en nous concentrant en particulier sur les thématiques du corps et de la subjectivité.

Mots clés: biopolitique; clandestinité; corps; migration; traitement; intervention humanitaire.

Resumen

Cuerpos fronterizos. Etnografía del tratamiento de los inmigrantes a su llegada a Lampedusa.

El ensayo presenta algunas reflexiones sobre la gestión biopolítica de los inmigrantes en el momento de su llegada al territorio italiano. Las interpretaciones se basan en un trabajo de campo realizado en Lampedusa a partir de 2005. El “cuerpo” de los inmigrantes, así como el de los otros sujetos involucrados en su gestión, constituirá la piedra de toque para analizar las dinámicas en acción en los mulles del puerto durante la fase de desembarco gestionada por las fuerzas del orden publico y los trabajadores humanitarios. En la primera parte se ilustrarán las prácticas de desembarco, prestando especial atención al papel activo de los agentes en la produción de una imagen específica de las “llegadas” de los inmigrantes. Seguidamente se procederá al analisis del discurso de la Guardia Costera sobre la acción humanitaria, un argumento que oscila entre la salvaguardia de la vida y el control fronterizo. Adicionalmente serán analizadas las prácticas de negociación del sufrimiento entre los inmigrantes, las fuerzas del orden público, los actores humanitarios y observadores externos, y, en general, la relación biopolítica entre los sujetos operantes, prestando particular atención a los problemas del cuerpo y de la subjetividad.

Palabras clave: biopolítica; clandestinidad; cuerpo; migración; tratamiento; intervención humanitaria.

Abstract

Border bodies. Ethnography of the treatment of migrants on their arrival in Lampedusa.

This essay will discuss the biopolitical management of migrants entering the Italian territory. The interpretations presented are based on fieldwork conducted on the island of Lampedusa since 2005. The analysis of the dynamics at work on the har- bour dock during the “landing” phase, which is managed by border guards and humanitarian workers, will focus on the “body” of migrants as well as on the “bodies” of the other actors involved. The first part will concentrate on “landing” procedures. Particular attention will be paid to the active role of border guards in producing a specific image of the “arrivals”. Subsequently, the Coast Guard’s discourse on humanitarian action will be examined and tensions between the issue of life protection and that of borders control will be analysed. In addition, practices of negotiating pain enacted by migrants, border guards, humanitarian workers and external observers will be investigated, as well as the more general biopolitical relationship between these subjects, with a focus on matters of body and subjectivity.

Keywords: biopolitics; clandestinity; body; migration; treatment; humanitarian intervention.