Corpi di frontiera. Etnografia del trattamento dei migranti al loro arrivo a Lampedusa

di Gianluca Gatta

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Introduzione

L’arrivo dei migranti in alcuni punti nevralgici della frontiera Sud d’Europa è uno degli eventi mediatici più ricorrenti nelle cronache degli ultimi quindici-venti anni. Grazie alla ciclicità del fenomeno e della sua rappresentazione una immagine automaticamente riconoscibile degli “sbarchi” è pian piano affiorata nel senso comune. Nonostante gli arrivi via mare siano quantitativamente inferiori alle altre modalità di ingresso (MONZINI P. 2008, SCIORTINO G. 2004), gli sbarchi sono diventati un vero e proprio emblema dell’intero fenomeno migratorio. Lampedusa, al pari di altri famosi luoghi d’arrivo di migranti non autorizzati – Las Palmas, Tijuana, Ceuta e Melilla, le isole Ashmore e Cartier ecc. – rappresenta una location privilegiata (GUPTA A. – FERGUSON J. curr. 1997) per l’analisi etnografica di quelle pratiche e quei discorsi che contribuiscono alla produzione di un certo immaginario sulle migrazioni, pratiche e discorsi che fanno perno intorno ai corpi dei soggetti in questione: i migranti.
Lampedusa è una piccola isola al centro del Mediterraneo, in quella porzione di acqua che separa la Sicilia dalla Tunisia e dalla Libia. In passato, l’economia isolana si basava sulla pesca e sulla produzione di pesce in scatola. Nella metà degli anni Ottanta del Novecento, l’isola fu “scoperta” dal mercato turistico e attualmente è un’ambita destinazione per vacanzieri in cerca di relax e di un mare cristallino. Da allora un’economia turistica è cresciuta rapidamente e senza una pianificazione integrata. Il fenomeno dell’arrivo dei boat people iniziò a coinvolgere Lampedusa nei primi anni Novanta. In una prima fase, dal 1993 al 1998, con arrivi “diretti” e per certi versi “spontanei” di tunisini o marocchini partiti dalle coste tunisine a bordo delle cosiddette “carrette del mare”. In una seconda fase, dal 2002 ai giorni nostri, con arrivi di persone da un più ampio spettro di paesi africani e asiatici, attraverso la rotta libica. Quest’ultima rimpiazzò infatti gli altri percorsi migratori mediterranei – da Tunisia, Turchia, Canale di Suez, Albania – nel frattempo estintisi per effetto di alcuni accordi intergovernativi e del rafforzamento delle politiche di controllo dei confini (MONZINI P. 2004, PASTORE F. 2006, PUGH M. 2000) (1). A Lampedusa il passaggio da una fase all’altra ha coinciso con un periodo intermedio in cui ha avuto luogo una progressiva strutturazione di un meccanismo burocratico, repressivo e diplomatico di controllo delle migrazioni. Chiamo questo processo “istituzionalizzazione di una macchina anti-immigrazione”. Un fenomeno che è stato capace di ridurre drasticamente l’arrivo dei migranti nel triennio 1999-2001, prima dello comparsa della nuova rotta libica. L’istituzionalizzazione è caratterizzata da tre elementi:

1)  l’installazione di un Centro per la ricezione e la reclusione dei migranti(2);
2)  l’arrivo sull’isola di agenti specificamente dedicati al controllo di confine e alla gestione della migrazione irregolare (Guardia Costiera, Guardia di Finanza, Polizia, Carabinieri);
3)  la presenza di organizzazioni umanitarie, tra cui Croce Rossa, Confraternita della Misericordia, Medici Senza Frontiere, più o meno collegate al lavoro delle forze dell’ordine(3).

Il processo appena illustrato ha finito per sottrarre la gestione del “problema clandestini” alla popolazione lampedusana per affidarlo a dei soggetti specializzati.
In questo saggio presenterò alcune riflessioni che si basano sulla mia esperienza etnografica a Lampedusa. Osserveremo da vicino alcune dinamiche in atto sulla banchina del porto durante la fase di sbarco. Il corpo dei migranti, ma anche degli altri soggetti impegnati nella loro gestione, costituirà il referente privilegiato dell’analisi.
Quando durante un’intervista provai a interpellare il Comandante della Guardia Costiera sulle modalità di organizzazione delle procedure di salvataggio in mare, l’uomo, incapace di articolare un discorso che nominasse le diverse fasi, rispose:

«Questo è troppo… certo c’è un’organizzazione, questa è un’organizzazione molto asettica, è come quello del… non… cioè… una volta avvistati, si prendono… si recuperano… si portano a bordo… poi c’è il trasferimento a Lampedusa. Dalla banchina al Centro il trasferimento è un fatto puramente materiale» (4).

Agli occhi del Comandante, il salvataggio mostra la sua natura di arte, di tecnica consuetudinaria, i cui principi si sono strutturati nel tempo e sono stati interiorizzati attraverso le pratiche corporee dell’addestramento, senza alcuna formalizzazione discorsiva. Parlare di quel “fatto puramente materiale” risultava impossibile e tutto sommato inutile a fronte delle dinamiche strategiche, diplomatiche e politiche sulle quali l’uomo avrebbe desiderato intrattenersi. E invece, la mia ricerca era indirizzata proprio verso l’analisi ostinata di quella materialità indicibile, nel tentativo di cogliere le modalità attraverso le quali il potere, la naturalizzazione dei fenomeni sociali e il “pensiero di Stato” si manifestano sin nelle forme più capillari di gestualità (5). Le interpretazioni che seguono si basano su tre presupposti teorici (6):

1)  Gli effetti del regime di controllo delle migrazioni non consistono nel blocco degli arrivi ma, piuttosto, in un filtraggio che crea soggetti il cui status giuridico è differente da quello dei cittadini.
2)  La condizione di clandestinità non è un effetto collaterale dei sistemi di controllo dei movimenti di popolazione, ma è direttamente prodotta dalle norme e dalle prassi di gestione delle migrazioni.
3)  L’immagine mediatica degli sbarchi è funzionale all’ideologia della gestione delle migrazioni; tale immagine – permeata dall’imperativo di fare qualcosa – favorisce l’indistinzione tra logiche umanitarie e sicuritarie.

Cercherò di affrontare alcuni temi collegati a quella che chiamo la scena dell’arrivo, quel particolare setting etnografico in cui ho potuto osservare ciò che accadeva sulla banchina degli sbarchi e interagire parzialmente con i soggetti coinvolti nelle operazioni. Una particolare attenzione è indirizzata all’interpretazione del lavoro delle forze dell’ordine e degli attori umanitari (7). Inizierò col presentare le procedure di sbarco, mostrando il ruolo attivo degli agenti anti-immigrazione nella produzione di un’immagine specifica degli arrivi. In seguito, analizzerò il discorso della Guardia Costiera sull’azione umanitaria, un tema che oscilla tra salvaguardia della vita e controllo del confine. Infine, proporrò alcune osservazioni sulla relazione biopolitica tra migranti, forze dell’ordine, attori umanitari e osservatori esterni, con particolare attenzione ai problemi del corpo e della soggettività.

La scena dell’arrivo

La struttura dello sbarco

Vorrei qui presentare brevemente le principali attività e operazioni di quella che possiamo chiamare la struttura dello sbarco, un modello di ciò che avveniva a Lampedusa durante la mia ricerca (8). Le operazioni hanno inizio con la segnalazione, il salvataggio in mare dei migranti e il loro trasferimento al porto. Chiunque avvisti una barca di migranti alla deriva è tenuto a informare via radio la Guardia Costiera segnalando il punto di avvistamento, dopo di che le motovedette della Guardia Costiera o della Guardia di Finanza si attivano per effettuare il recupero in mare, anche a parecchie miglia di distanza. Giunti al porto, i migranti sono condotti giù dalle navi uno per uno. In questa fase di discesa ha luogo un primo conteggio e a volte gli agenti scattano qualche fotografia. Sulla banchina, i migranti sono organizzati in file parallele di cinque persone ognuna, essi devono mantenere la posizione assegnata loro dalle forze dell’ordine, accovacciati o seduti a terra, non possono quindi muoversi liberamente sul molo. Se qualcuno ha bisogno di assistenza medica viene condotto presso gli operatori di Medici Senza Frontiere, in quello che potremmo definire un “punto di cura”, separato dal “punto di raccolta”. Ma l’attività di MSF ha inizio precedentemente, già nei primi momenti della discesa, quando i medici effettuano un prima ricognizione dei possibili casi di emergenza medica, cercando di stabilire le priorità, secondo i criteri del triage (9). Quando il medico pensa che il migrante non abbia più bisogno di assistenza, o che necessiti di un esame approfondito nell’ambulatorio del CPT, la persona converge nel flusso di trasferimento al Centro.
Dopo la fase di discesa, quando i ranghi sono stabilizzati e le emergenze mediche valutate, gli operatori di MSF e le guardie iniziano a distribuire bottiglie di acqua, biscotti, bicchieri di tè. Poi, le persone che hanno bisogno di urinare sono condotte, una alla volta, in alcuni bagni chimici. Prima della loro installazione, nel giugno del 2005, i migranti venivano portati in un punto della banchina, poco distante dal punto di raccolta, dove potevano urinare in mare. In alcuni casi, sulla banchina sono presenti anche agenti di polizia giudiziaria, che effettuano interrogatori preliminari nell’ambito delle indagini sullo smuggling. Alcuni di essi sono capaci di parlare la lingua araba. Quando le fasi di discesa, di organizzazione dei ranghi, di valutazione delle emergenze mediche e di rifocillamento sono terminate, e dopo un successivo conteggio delle persone sbarcate, il trasferimento al CPT ha inizio. Gruppi di dieci, quindici migranti sono condotti, in fila indiana, ai furgoncini di Guardia Costiera, Guardia di Finanza o della Misericordia, che fanno la spola tra la banchina e il centro.

Lo spettacolo del “trattamento”

Una prima considerazione da fare rispetto a questo processo riguarda la sua visibilità. Infatti, a differenza di ciò che avveniva nel CPT, una zona di eccezione oscura e parzialmente impenetrabile, la fase della gestione dei corpi sulla banchina del porto era aperta allo sguardo mediatico. La sua esposizione aveva l’effetto di produrre una rappresentazione stereotipata dell’arrivo dei migranti, una di quelle immagini che nel discorso pubblico assumono dei connotati simbolici molto densi e finiscono per denotare l’intero fenomeno migratorio. Prima della scomparsa dei migranti dietro il filo spinato del campo, il “trattamento” dei loro corpi era quindi apertamente esibito da parte della “macchina anti-immigrazione”. Interpretare questo dato come una mera concessione – un nulla osta che gli agenti del controllo avrebbero accordato, con infastidita tolleranza, alla “volontà di vedere” di un pubblico scopofilo – ha il limite di occultare la funzione positiva, produttiva di tale esposizione mediatica. Al contrario, dall’osservazione diretta delle dinamiche in atto sulla banchina mi è parso di rilevare che i soggetti assegnati al controllo e alla cura dei migranti fossero coscienti di partecipare attivamente al processo di documentazione visuale. Diverse volte, dopo aver scattato fotografie delle operazioni, gli agenti mi hanno chiesto con curiosità dove sarebbero state pubblicate le immagini. Inoltre, dalle pareti degli uffici o dei corridoi delle caserme di Guardia Costiera e Guardia di Finanza dell’isola pendevano, come attestati di orgogliosa professionalità, diverse fotografie che ritraevano scene di salvataggio e gestione dei migranti. Le fotografie che seguono sono due ottimi esempi di vero e proprio comportamento profilmico(10), della manifestazione di un desiderio di partecipare attivamente alla rappresentazione da parte degli agenti.

Foto 1 © G. Gatta                                                   Foto 2 © G. Gatta

Nella prima circostanza – Foto 1 – stavo per scattare una fotografia al gruppo di migranti in piedi e appoggiati al muretto della banchina, quando un agente della Guardia di Finanza attraversò la scena e, notato quello che stavo per fare, si fermò proprio di fronte a me. Quando allontanai la macchina fotografica dal viso in attesa che si spostasse, l’uomo esclamò: «ah scusa, pensavo volessi fotografare me!», «puoi restare se vuoi», replicai. Il risultato finale dello scatto può essere osservato nell’immagine: l’uomo posa in primo piano per l’etnografo. In un’altra circostanza – Foto 2 – un agente della Guardia di Finanza si prestò a riprodurre un gesto che aveva compiuto qualche secondo prima senza che io riuscissi a ritrarlo: gettare un guanto di lattice in un punto di raccolta dell’immondizia. Ritengo che una tale disponibilità alla fiction non sia semplicemente il frutto di un atteggiamento tollerante nei confronti del fotografo, ma confermi, invece, l’importanza che le forze dell’ordine attribuiscono alla visualizzazione e mediazione (11) delle proprie attività. Più avanti fornirò qualche altro esempio di questa articolazione tra controllo, cura e rappresentazione visiva degli sbarchi.
La mia ipotesi generale è che la “macchina anti-immigrazione” sia direttamente coinvolta nel bilanciamento della rappresentazione di questa fase, così da favorire il delinearsi di un’immagine dello sbarco fondata sulla nozione di trattamento, una categoria che sussume le sfere dell’umanitario e del securitario in una zona grigia dove le diverse attività appaiono indistinte. Un’immagine che può rispondere contemporaneamente alle diverse istanze che nella sfera pubblica ruotano intorno al tema degli sbarchi: salvaguardia dei diritti umani, repressione della criminalità e del terrorismo, lotte per la cittadinanza e la libera circolazione delle persone. Sollecitazioni che provengono da direzioni diverse e da sensibilità politiche opposte e che fanno emergere tutta l’ambivalenza dell’intervento su un fenomeno come quello degli sbarchi. La polisemia del termine trattamento è molto utile per cogliere l’ambivalenza delle relazioni tra i soggetti degli sbarchi. I significati del verbo “trattare” (12) sono vari, quello più generico riguarda l’ambito dell’interazione sociale: “comportarsi in un certo modo, tenere un certo atteggiamento nei riguardi di qualcuno”; ma vi sono anche altri due significati più specifici, attinenti alla sfera medica: “curare un disturbo con rimedi adeguati” e a quella ergologica: “lavorare un materiale, sottoporlo a una lavorazione oppure a un’azione chimica o fisica”. Le definizioni del sostantivo “trattamento” – “maniera di accogliere, di comportarsi, modo di offrire ospitalità”, “insieme delle terapie praticate e dei provvedimenti adottati nella cura di una malattia”, «modo di trattare specialmente una sostanza o un materiale per conferirgli determinate caratteristiche» – sono ancora più utili a significare quella pluralità di attività che caratterizzano la macchina anti-immigrazione. Possiamo inoltre citare un altro ambito molto interessante per gli etnografi: “trattare” nel senso di «discutere, esporre, sviluppare un certo argomento, specialmente parlando o scrivendo». Accoglienza, cura/profilassi, manipolazione, discorso. Tutti questi campi non possono emergere separatamente dalla rappresentazione ma devono confluire in una immagine unitaria e sfocata del trattamento.
Sulla banchina del porto di Lampedusa ha luogo una nuova forma di spettacolarizzazione del potere, nuova rispetto alla moderazione che, seguendo Foucault, caratterizza le moderne discipline (FOUCAULT M. 1976 [1975]), una performance giocata in una zona grigia tra umanitario e sicuritario. L’antropologo statunitense Nicholas De Genova, a proposito di analoghe situazioni sul confine tra Messico e Stati Uniti, ha parlato di un vero e proprio «spettacolo del confine» (DE GENOVA N. 2002, 2004), un processo che permette di naturalizzare la «illegalità e deportabilità» dei migranti, occultando le cause giuridiche e socio-politiche che producono tale condizione e inducendo una sovraesposizione del corpo ambivalente dei migranti(13). Questa concezione del rapporto tra migranti e contesto di arrivo getta una nuova luce sull’accezione tradizionale della nozione di esclusione. Coutin considera quest’ultima come una legal fiction, e analizza la clandestinità come una «dimensione nascosta, ma conosciuta, della realtà sociale» (COUTIN S. B. 2005: 196):

«È la visibilità non ufficiale delle pratiche clandestine la controparte della invisibilità ufficiale o produzione dell’assenza [absenting] delle migrazioni non autorizzate» (COUTIN S. B. 2005: 198).

L’esclusione, quindi, non è l’effetto più o meno inevitabile e in negativo di una sorta di saturazione economico-demografica dei paesi di arrivo, ma un meccanismo che produce in positivo la specifica condizione socio-economica e giuridica dei “clandestini”. Questa impostazione offre degli elementi di riflessione pertinenti rispetto al carattere simbolico degli arrivi a Lampedusa. Questi ultimi sono “lo spettacolo del confine”, un processo fondamentale nel plasmare discorsi e pratiche sulla gestione delle migrazioni:

«È proprio “il confine” a fornire il teatro esemplare per rappresentare lo spettacolo del «clandestino» che la legge produce. Infatti, l’“illegalità” sembra essere più una trasgressione positiva – e può perciò essere equiparata al comportamento dei migranti messicani piuttosto che all’azione strumentale della legge sull’immigrazione – proprio quando è assoggettata al controllo di polizia al confine tra Stati Uniti e Messico. La vaghezza della legge, e la sua relativa invisibilità nella produzione di “illegalità”, richiede questo spettacolo del “rendere effettivo” il confine, proprio perché rende visibile un’“illegalità” razzializzata dei migranti messicani, e le conferisce l’aria da senso comune di un fatto “naturale”» (DE GENOVA N. 2004: 206) (14).

Tale spettacolo si nutre proprio dell’ambivalenza di quelle procedure di gestione dei corpi dei migranti che hanno luogo nella “zona di indistinzione” tra sfere dell’umanitario e del sicuritario. Ritorneremo su questo punto più avanti.
L’effetto di naturalizzazione della clandestinità che lo spettacolo del confine sortisce è alimentato da uno dei principali caratteri della disciplina moderna, cioè l’automatismo, o meglio l’oggettivazione di procedure asettiche che rendono sostituibili i soggetti adibiti al controllo. Come ci ricorda Foucault, è questa la geniale novità dei meccanismi panottici, l’automatizzazione e deindividualizzazione del potere:

«Poco importa (…) chi esercita il potere. Un individuo qualunque, quasi scelto a caso, può far funzionare la macchina: in assenza del direttore, la sua famiglia, gli amici, i visitatori, perfino i domestici. Così come è indifferente il motivo che lo muove: la curiosità di un indiscreto, la malizia di un bambino, l’appetito di sapere di un filosofo che vuole percorrere questo museo della natura umana, o la cattiveria di coloro che provano piacere a spiare e punire» (FOUCAULT M. 1976 [1975]: 220).

Nonostante il dispositivo dello sbarco sia più fluido, meno articolato, ma allo stesso tempo svolga anche funzioni ulteriori rispetto alle istituzioni totali che ha in mente Foucault, questo ragionamento ha la sua pertinenza anche in quel caso. È infatti possibile, e probabile, che gli altri soggetti presenti sulla banchina, con scopi diversi da quelli delle forze dell’ordine, siano risucchiati nel meccanismo disciplinante, diventino cioè essi stessi dei sorveglianti. E ciò non come messa in atto di un’ingiunzione esplicita da parte delle forze dell’ordine, ma per l’effetto impersonale del meccanismo stesso. Questo può valere per gli operatori di MSF, per i giornalisti, per i migranti stessi, e ne ho avuto esperienza diretta su me stesso. Mi è capitato, infatti, di trovarmi davanti dei migranti che, senza essere visti dagli agenti, si erano alzati ed erano fuoriusciti dai ranghi, muovendosi disorientati alla ricerca di un interlocutore – perché ad esempio avevano bisogno del bagno o di mostrare al medico una ferita o altro – e di sorprendermi a indicare automaticamente loro il punto da cui erano fuoriusciti e la posizione da assumere; si trattava di una reazione irriflessa, e perturbante, dettata probabilmente dalla percezione inconscia che quel comportamento avrebbe determinato una reazione sgradevole da parte delle forze dell’ordine. Io che avevo assistito a un certo numero di sbarchi, e quindi avevo assimilato il modello ideale di coloro che in quella situazione esercitavano il potere disciplinante, mi ritrovavo quasi automaticamente a contribuire al mantenimento di quella struttura.
Questo punto ci impone una riflessione sul tema della “padronanza della regola”, perché la spersonalizzazione che il meccanismo dello sbarco produce, e soprattutto la sua ripetitività, hanno l’effetto di reificare la figura del “clandestino”, appiattendo le specificità e le differenze, e facendo quasi dimenticare un dato banale, cioè che nella stragrande parte dei casi i migranti che arrivano di volta in volta sono sempre diversi e non hanno un’idea precisa di cosa li aspetterà una volta scesi sulla banchina. Quello che per le forze dell’ordine è una routine, per i migranti è invece un evento di cui non conoscono le regole del gioco. È questa differenza sostanziale – il fatto che la medesima situazione sia esperita dai diversi soggetti alternativamente come routine o come evento – che il meccanismo disciplinante tende a dissimulare, collocando “il clandestino” tra coloro che partecipano a una routine, e presupponendo, quindi, che egli sappia già come comportarsi. Spesso, dalle reazioni delle forze dell’ordine, ho avuto l’impressione che le incertezze, i tentennamenti, lo smarrimento dei migranti al momento del loro inquadramento, fossero in qualche modo biasimate come un’insufficiente applicazione di principi di comportamento trasparenti e ovvi, piuttosto che essere concepite per quello che sono: il disorientamento di chi si trova imbrigliato in un meccanismo di cui nessuno gli ha illustrato le regole. È come se si rimproverasse ai migranti: «Sono anni che arrivate qui, ancora non avete imparato?».

Discorsi e pratiche della Guardia Costiera

L’etica del salvataggio

Nel 2004 la Bandiera del Corpo delle Capitanerie di Porto ha ricevuto una Medaglia d’Oro al Merito Civile per le attività svolte tra il 2001 e il 2003 a Lampedusa e Linosa, con la seguente motivazione:

«Il personale delle Capitanerie di Porto ha fronteggiato le emergenze legate all’enorme flusso dell’immigrazione clandestina via mare, rendendosi protagonista del soccorso, anche in condizioni atmosferiche avverse, dei cittadini extracomunitari presenti sulle imbarcazioni intercettate da unità del Corpo. La molteplicità degli interventi, effettuati con elevata professionalità, sia di giorno che di notte, hanno dato testimonianza di generoso spirito di umana solidarietà, di eccezzionale [sic!] coraggio, e di diffuso senso di abnegazione e dedizione al dovere, contribuendo a rafforzare la fiducia nelle Istituzioni.
Roma, addì 5 luglio 2004» (15).

Il carattere celebrativo del testo non permette di capire più chiaramente quali siano i soggetti in cui tale fiducia si rafforzerebbe: i migranti, per essere stati salvati? O invece quei cittadini che delle istituzioni menzionate sono i referenti legittimi – gli italiani – i quali, oltre che dal salvataggio di vite umane, sarebbero rassicurati dall’idea che esista un efficace meccanismo di controllo delle migrazioni? Ancora più interessante è la motivazione di un’analoga onorificenza assegnata nel 2000, per le operazioni svolte nel Canale di Otranto nei dieci anni precedenti:

«In occasione dei massicci e reiterati episodi di immigrazione clandestina il personale del Corpo, con grande tempestività e encomiabile professionalità, interveniva in soccorso dei numerosissimi profughi abbandonati in mare aperto o lungo i litorali. Operando generosamente per il superiore fine di salvaguardare comunque la vita umana, offriva alla Nazione tutta splendido esempio di umana solidarietà ed elevato spirito di sacrificio.
Roma, addì 11 maggio 2000» (16).

Anche in questo caso sembra esserci un tacito compromesso tra appartenenza nazionale ed estraneità, tutto depositato in quel comunque che pare sottintendere un implicito nonostante, relativo al carattere clandestino, quindi abusivo, di quelle presenze. Tutto ciò consente di mettere in risalto la natura doppiamente straordinaria delle gesta celebrate: il salvataggio anche di ciò che non appartiene al corpo della nazione, di persone che sono soltanto ma comunque “vita umana”, finisce per contribuire alla esaltazione della “Nazione tutta”, vivificando il confine su cui si gioca l’appartenenza. Un altro elemento che emerge dal confronto tra i due encomi è la differenza tra l’uso dell’espressione “profughi” nel caso albanese e quella di “cittadini extracomunitari” per i più recenti arrivi nelle isole Pelagie. Probabilmente questo spostamento semantico è dovuto all’assuefazione nei confronti degli arrivi, che da eventi spontanei ed emergenziali finiscono per essere percepiti come consuetudine ormai standardizzata, in cui l’evocazione dei contesti storico-geografici di partenza, che il termine profughi suggerisce, si perde nella espressione negativa ed etnocentrica di extracomunitari. Ad ogni modo, “spirito di sacrificio”, “umana solidarietà” e “salvaguardia comunque della vita umana” sarebbero i valori espliciti che guidano l’attività della Guardia Costiera.
Ma vediamo ora, più da vicino, qual è il ruolo che i membri della Guardia Costiera, nelle rappresentazioni del proprio compito, assegnano alla sacralità della vita, a quel “supremo valore della vita umana” che muove l’azione umanitaria. Sollecitato da me su questo tema, il Comandante della Guardia Costiera mi spiegò:

«In queste cose ci sono le mosse e le contro mosse. Ecco, c’è sicuramente un’organizzazione, ormai abbiamo capito che non è un fatto episodico, un fatto non organizzato. L’immigrazione clandestina è un fatto organizzato, il passaggio delle frontiere dev’essere consentito dagli stati rivieraschi che fanno da seconda sponda, no? Ecco, la sponda di arrivo è sicuramente la società organizzata, le società di tipo occidentale, che sono le attuali civiltà custodi del benessere. Allora l’organizzazione che c’è alle spalle sicuramente si basa anche sull’obbligo morale degli stati occidentali, che è quello del supremo rispetto e salvaguardia della vita umana – la salvaguardia suprema, il bene della vita – che poi la salvaguardia sia solo una questione di forma e non di sostanza questo non importa. Avendo noi quest’obbligo, loro giustamente sanno che se noi ci troviamo davanti a una situazione di soccorso, una situazione di pericolo per la vita umana in genere, ci prodighiamo per risolverla nel migliore dei modi. Quindi, noi abbiamo un’organizzazione che è messa lì a custodia non della frontiera ma della salvaguardia, a custodia della vita, del supremo interesse della vita, e quindi noi li andiamo a prendere ancora prima che arrivino. E questo lei crede che non faccia parte del disegno, cioè non sia stato inserito nell’organizzazione di chi organizza i viaggi?».

Queste parole mostrano come le forze dell’ordine si trovino al centro di due fuochi, scissi tra due diverse istanze. Da un lato viene loro richiesta l’applicazione di un potere di salvataggio che confermi la superiorità morale della nazione, ma, d’altro canto, esse sono chiamate ad arrestare quella che viene dipinta come una minaccia al welfare. Il trattamento dei migranti deve apparire funzionante in entrambe le direzioni. Nonostante le parole del Comandante sembrino sovrastimare il carattere umanitario del lavoro della Guardia Costiera, altri elementi ci permettono di cogliere quel difficile equilibrio tra le sfere dell’umanitario e del sicuritario che serve a legittimare il compito assegnato al Corpo. L’indistinzione tra questi due ambiti – un’opacità che caratterizza il salvataggio nell’ambito delle operazioni anti immigrazione ed è invece assente nel salvataggio ordinario – emerge anche dall’apparato iconografico che correda il sito web della Guardia Costiera; o meglio, risulta dal rapporto tra immagini e didascalie (17).
Il primo scatto mostra una donna e un bambino “neri” accompagnati da un agente durante, si presume, la fase di discesa dall’imbarcazione della Guardia Costiera. L’immagine rientra a pieno titolo nella retorica della salvaguardia della vita dei soggetti considerati deboli per eccellenza: donne e bambini (18). Inoltre la componente razziale gioca un ruolo importante nella legittimazione dell’arrivo da parte degli agenti: durante gli sbarchi ho notato una tendenza generale a considerare bisognosi di protezione umanitaria soltanto i “neri”, mentre si riteneva che le persone maghrebine e mediorientali fossero prevalentemente dei semplici migranti economici che tentavano di entrare abusivamente in Italia. La seconda fotografia ritrae, invece, la fase di intercettazione di un barcone di “clandestini”, questa volta uomini osservati collettivamente da una certa distanza. Visto il sovraffollamento della barca l’immagine trasmette l’idea del salvataggio, ma può anche essere percepita come un fermo. Tuttavia, ed è questo il punto importante del discorso, l’elemento interessante di entrambe le foto, che corredano il testo della sezione “anti immigrazione” del sito, è il loro rapporto con le didascalie. La prima recita: “Un’operazione anti immigrazione”, espressione negativa che stride con il carattere esplicitamente umanitario dello scatto. La seconda riporta invece: “Intercettazione delle unità clandestine” (19), laddove la clandestinità dei singoli soggetti viene unificata e traslata, per metonimia, sul mezzo di trasporto. Quindi, se le immagini, almeno la prima in maniera inequivocabile, trasmettono l’idea di protezione e salvaguardia della vita, il testo che le accompagna gioca sul registro del contenimento e del controllo: “anti immigrazione”, “intercettazione”, “unità clandestine”.
Un’altra foto invece, posta nella sezione Ricerca e Soccorso in mare (S.A.R. – Search and Rescue), che figura come prima voce nell’elenco delle “principali linee di attività del Corpo” (20), ritrae un salvataggio “ordinario” (21). Le persone salvate sono evidentemente dei bagnanti, e la prima cosa da notare è la loro disposizione libera sull’imbarcazione: sono in piedi, chiacchierano tra loro, si muovono; tutte attività che non sono permesse ai migranti, sottoposti invece a un’irreggimentazione spaziale durante il trasporto in mare e le attività di soccorso a terra. È probabile che questo dato marchi la differenza tra corpi innocui in pericolo e corpi pericolosi in pericolo (22).

Osservare i corpi

Chiaramente la salvaguardia della vita umana non va confusa con il riconoscimento della soggettività dei migranti. Al contrario, come gli studi sulla biopolitica hanno sottolineato, l’umanitario può avere l’effetto di mortificare la soggettività delle cosiddette “popolazioni target” (AGAMBEN G. 1995, 2003, AGIER M. 2002, FASSIN D. 2001, 2005, PANDOLFI M. 2003, 2005, TURNER S. 2005). Nel seguente frammento dell’intervista al Comandante della Guardia Costiera, l’ufficiale spiega l’inesorabile percorso che i migranti sono forzati a intraprendere:

Comandante: «Il loro mentire, mentire sulla nazionalità, è un elemento che alla fine di un processo previsto per legge ha due conseguenze: 1) l’identificazione certa e l’espulsione in virtù di un accordo di riammissione con lo Stato d’origine; 2) il cosiddetto “rilascio”, cioè la disposizione di una misura di polizia che dice: “devi lasciare il paese in tot giorni”. Ma il clandestino cosa fa? Prende questo documento, se lo mette in tasca, e se ne va in giro, con le conseguenze previste dalla legge in caso di nuovo arresto. Ma in quel momento egli diventa un libero di essere clandestino».
Io: «Un “clandestino soggiornante” potremmo dire».
Comandante: «No, “libero di essere clandestino” è meglio, perché il “clandestino soggiornante” è qualcuno che non è mai stato arrestato. Mentre il “libero di essere clandestino” è quella persona che è già stata arrestata, in ogni caso c’è una identificazione, un’impronta è stata presa, quindi c’è un riconoscimento personale, anche se il suo nome non è Nicola, ma “Sette-cerchi”… “sette cerchi in mezzo al dito”».

Grazie alla produzione di una certa conoscenza rispetto ai corpi dei migranti, supportata dallo spettacolare sviluppo delle tecnologie di controllo dell’identità – quei «dati biometrici considerati indipendenti dalle capacità individuali di dire e fare» (GUILD E. – BIGO D. 2005: 73) – i corpi espulsi, o quelli rilasciati sul territorio nazionale con un ordine di espulsione, sono intrappolati in un sistema di restrizioni alla circolazione interna e alle possibili ammissioni future nello spazio Schengen. Un sistema possibile dal momento che, per poter stabilire questa bio-identità, non si ha bisogno di interpretare e prestare fede al discorso dei soggetti. Le parole del Comandante mostrano come i migranti siano percepiti come soggetti irrazionali che sfruttano il loro diritto di mentire. Ma, seguendo il filo del discorso, pare che questo gioco non porti a nulla, perché il “libero di essere clandestino” è in ultima istanza agganciato alla norma come nuda vita con una bioidentità certificata.
La condizione di precarietà o meglio di totale invisibilità politica dei migranti non autorizzati appare quindi come una conseguenza naturale della loro menzogna, della loro stolta furbizia. L’espressione “libero di essere clandestino” si riferisce a una qualche forma di normalizzazione della presenza dei migranti, e nasconde quei processi di “produzione giuridica dell’illegalità” che caratterizza il soggetto “clandestino”, quel meccanismo di esclusione inclusiva costituito dalla produzione attiva della irregolarità migrante da parte dei sistemi giuridici e delle pratiche amministrative dei paesi di ricezione. “Sette-cerchi” non è un corpo straniero che soggiorna all’insaputa delle autorità dei territori nazionali di arrivo, ma è qualcuno che è stato “rilasciato” dopo essere stato assoggettato a una pratica di pseudo-identificazione, l’individuazione di un segno – le impronte digitali – attraverso il quale la norma avvinghia definitivamente il suo corpo (AGAMBEN G. 1995). Si tratta di una persona “libera” di circolare, ma tale libertà è decisamente diversa da quella ratificata per legge, si tratta piuttosto di una libertà per abbandono, un gioco alla libertà su cui continuamente e arbitrariamente incombe la possibilità della deportazione.
Così, il “clandestino” prodotto a Lampedusa diventa il simbolo di un corpo estraneo che vuole ad ogni costo penetrare l’area protetta di Schengen, un Icaro tanto impavido quanto ingenuo che sfida con cocciutaggine le leggi immutabili dell’ordine nazionale delle cose (MALKKI L. 1995). Egli è fondamentalmente un soggetto irrazionale, che rischia la vita in mare, mente, si sottopone allo sfruttamento, delinque. È il soggetto di una immagine molto utile per legittimare quel processo di “inclusione selettiva e differenziale”, la “produzione permanente di una pluralità di status” (MEZZADRA S. 2006: 39) da parte di quel nuovo regime di controllo delle migrazioni che non ha l’obiettivo di arrestare i migranti ma di renderli docili e utili, come ha sottolineato, tra gli altri, Sandro Mezzadra. Se ciò che può emergere dal discorso del migrante è soltanto la menzogna, allora la vita biografica, il bios, di un tale soggetto non può essere considerata da parte degli addetti al controllo come un utile punto di contatto nella relazione tra migranti e strutture di ricezione. Plasmate da quest’ottica, le forze dell’ordine sentono il bisogno di cercare delle modalità di relazione con i migranti che eludano il ricorso alla “parola”.
Sottolineato questo, ritorniamo sulla banchina del porto. Con l’obiettivo di stabilire definitivamente la certezza della menzogna, i controllori si mettono alla ricerca di elementi oggettivi che permettano di fare a meno dell’interpretazione delle dichiarazioni dei “clandestini”. Mediante l’osservazione dei corpi, le forze dell’ordine conducono una preselezione dei migranti, collocandoli idealmente in varie categorie e mostrando una certa diligenza nel raccogliere ogni indizio che possa contraddire le poche dichiarazioni da loro rilasciate in quel contesto. La prova della falsità delle dichiarazioni delle persone sbarcate è ricercata nei corpi, secondo gli standard di un “paradigma indiziario” (GINZBURG C. 1986). L’ispezione corporale permette di operare un spostamento da un’ermeneutica del discorso a un’ermeneutica del corpo (23).
Un esempio illuminante di questo processo di produzione della verità da parte delle forze dell’ordine riguarda le obiezioni alle dichiarazioni dei migranti circa la durata della traversata. Durante la mia ricerca ho potuto osservare come, per contestare le dichiarazioni dei migranti appena arrivati, le forze dell’ordine operassero una valutazione della lunghezza della barba dei migranti, un “segno irrefutabile” per stabilire la durata della traversata, “oggettivamente” più breve, secondo l’interpretazione delle forze dell’ordine, di quella dichiarata. Il contesto del dialogo che segue è quello di uno sbarco piuttosto problematico. In quei giorni il CPT era affollatissimo, Polizia e Carabinieri si stavano adoperando per effettuare lo svuotamento mediante la deportazione dei migranti in altri centri italiani o in Libia. Intorno alle dieci del mattino la Guardia Costiera “sbarcò” sulla banchina circa centosettanta migranti, ma poiché le operazioni di svuotamento del centro erano ancora in corso, la Polizia fece pressione affinché si posticipasse l’ingresso nel CPT dei nuovi arrivati. Il risultato fu che i centosettanta uomini attesero più di due ore e mezza sulla banchina, sotto un sole cocente. Quello stesso giorno ad assistere alle operazioni c’era anche Elisa, una fotografa marsigliese che stava effettuando un reportage fotografico sul tema dei boat people nel Mediterraneo. Durante quella lunga attesa ci fu un piccolo alterco tra la ragazza e il maresciallo della Guardia Costiera che gestiva le operazioni:

Elisa: «Come mai sono qui dalle dieci?»;
Maresciallo: «Come mai?»;
Elisa: «Aspettano qua dalle dieci»;
Mar.: «Anche noi aspettiamo qua dalle dieci!»;
Elisa: «Ma voi non è che avete fatto cinque giorni di mare no?»;
Mar.: «Ma lei è sicura che hanno fatto cinque giorni nel mare, lei pensa così?»;
Elisa: «Anche se hanno fatto due giorni»;
Mar.: «Allora lei… un momento», [nel frattempo si avvicina a un migrante e gli prende il viso tra le mani], «lei pensa che questa è una barba di cinque giorni? [con tono retorico] O questo se l’è fatta durante la navigazione?»;
Elisa: «Magari tre giorni…»;
Mar.: «Questo qua, questo qua?»;
Elisa: «Ci sono certe persone che sono molto stanche; questi qua per esempio»;
Mar.: «Ma c’è il dottore che accerta se stanno bene o meno»;
Elisa: «Sì, sì, no, lo so, però sono, cioè, dalle dieci che sono qua al sole, cioè comunque dev’essere…»;
Mar.: «Dev’essere?»;
Elisa: «Proprio… stancante. Poi sono arrivati con la nave no? Mi sbaglio magari. Sono arrivati con la nave, o mi sto sbagliando?»;
Mar.: «Sono arrivati con la motovedetta»;
Elisa: «Non è che hanno fatto, via terra, qualche ora di strada, loro erano lì da quattro giorni»;
Mar.: [seccato] «Tutto quello che dice lei…»;
Elisa: «No, io sto facendo delle domande, non sto dicendo niente…»; [prima a me e poi al Mar.] «Poi sono giovani non è che hanno i peli che crescono tanto magari, no? Sono tutti minori quasi no?»;
Mar.: [mostra la sua barba piuttosto lunga] «Io la barba ce l’ho da tre giorni…»;
Elisa: «Sì però magari cresce meno di lei»;
Mar.: «Cresce meno di me?»;
Elisa: «Sono più giovani…»;
Mar.: «Ah, quando si è più giovani cresce di meno e quando si è più vecchi cresce di più?»;
Elisa: «Sì, percheé più ti radi, più cresce di più, no?»;
Mar.: [prendendo di nuovo il viso di un ragazzo] «Questi le sembrano peli? cioè peli di un bambino? oppure una barba radicata, di un uomo ormai?»;
Elisa: «Sì, ma sono marocchini, sono mediterranei, che il pelo è duro no? Cioè non puoi dire la barba, cioè non è una prova che hanno fatto tre, quattro, cinque giorni… non lo so»;
Mar.: «E infatti non siamo qui per accertare…»;
Elisa: [indicando un ragazzo con cui avevamo scambiato due parole poco prima] «Questo, lui sarà molto stanco per il viaggio, no? Cioè ha ventiquattro anni, a te sembra ventiquattro anni? A me no, a me sembra ventinove»;
Mar.: «Quindi?»;
Elisa: «Quindi sembra più vecchio perché magari è stanco no?»;
Mar.: «Magari non ha ventiquattro anni, ma ha ventuno anni, lei lo sa? Lei la conosce la sua età?»;
Elisa: «No, però mi può dire che si può mentire sulla nazionalità, ma sul viaggio non si può mentire, credo»;
Mar.: «Quello lì c’ha il pizzetto, cioè non è che… quello con la maglietta rossa c’ha il pizzetto. Mi dica che crescono quei peli solo lì! È importante che lei me lo dica percheé…»;
Elisa: «Ah… no, no, no… Ma magari loro si sono rasati lì sulla nave, che cosa ne sai?»;
Io: [mostro la mia barba non molto folta] «La mia ad esempio è di tre giorni!»;
Elisa: [a me] «La tua è di tre giorni? Ecco, vedi?!».

La veridicità delle dichiarazioni dei migranti sui quattro o cinque giorni di traversata è contestata dall’agente in base all’osservazione della barba, che sembra essere un dato inconfutabile. Ma quando la donna interpreta quel segno attraverso il riferimento all’età e ai caratteri fenotipici, mettendo quindi in dubbio il criterio della barba come prova della durata della traversata, l’agente ripiega affermando: “non siamo qui per accertare”. Tuttavia il fatto che non si possa accertare non sospende comunque il giudizio sulla falsità delle dichiarazioni dei migranti, almeno rispetto alla durata della traversata. Questa impossibilità di accertare, con dati oggettivi, ciò che i migranti hanno dichiarato (24), non permette di sondare, altrettanto oggettivamente, il livello del loro presunto disagio, della loro stanchezza, e di conseguenza, rende immune l’operato della macchina dello sbarco da qualsiasi contestazione.
E comunque, a prescindere dalle questioni relative alla velocità di ricrescita della barba legate a fattori genetici o all’età, ciò che viene esclusa è la possibilità che i migranti possano radersi a bordo. Anche se, in altri casi, la narrazione della fase di recupero in mare da parte di alcuni agenti della Guardia di Finanza lascia trapelare l’infondatezza di questo principio, come mostra questo dialogo tra me, tre agenti della Guardia di Finanza e il medico di MSF:

Agente 1: «Ma dove credono di andare?! Si fanno la barba, mettono il gel!»;
Io: «Io una volta ho visto su un barcone un barattolo di lucido per scarpe; e un uomo mi ha anche chiesto del deodorante»;
Agente 2: «Devono andare a ballare!!!»;
Io: «Forse non vogliono apparire sporchi»;
Agente 1: «Si preparano a festa…»;
Io: «Ma questo avviene una volta che sono saliti sulle vostre navi?»;
Agente 3: «No, no, sul loro barcone, già sul barcone loro; io prima stavo sul loro barcone e tutti quanti si facevano la barba»;
Io: «Ma allora è vero che riescono a radersi a bordo?!»;
Agente 3: «Sì, perché si fanno tutti la barba al momento»;
Io: «Allora dire che sono in mare da poco perché hanno la barba rasata è sbagliato?»;
Agente 3: «Se la fanno, se la fanno! Hanno le lamette usa e getta, a secco… ce n’era uno che faceva così [mima il gesto di una persona che si rade con forza]»;
Io: «A secco?!»;
Agente 3: «A ripetizione, sì! faceva così… si stava proprio distruggendo la faccia!»;
Agente 1: «Solo che loro sono… cioè non hanno una barba folta»;
Medico: «Alcuni sono anche minorenni…»;
Agente 1: «Eh!».

È evidente che il criterio corporale usato per contraddire le dichiarazioni dei migranti è tutt’altro che oggettivo. È probabile che a favorire il suo uso da parte del maresciallo della Guardia Costiera abbia contribuito il cliché miserabilista frequentemente associato alle persone sbarcate, quello che dipinge i migranti come dei (reali, ma più spesso presunti) disperati che fanno di tutto per impietosire la società di ricezione. Questo stereotipo esclude a priori un ruolo creativo dei migranti nella gestione della rappresentazione del sé, che invece è un aspetto basilare della negoziazione simbolica della presenza stessa dei migranti sul territorio nazionale. Fotografie come quella che segue (Foto 3) – un uomo sbarcato con vestito e panciotto – e altri frammenti etnografici (lucido per scarpe trovato sui barconi, migranti che al loro arrivo si pettinano o fanno richiesta di deodorante), illuminano delle pratiche di cura del sé che scheggiano l’immagine di una disperazione passiva.


Eppure in entrambi i casi, che prevalga una immagine di prostrazione o di decoro, i migranti sono oggetto di biasimo o derisione. Nella prima direzione abbiamo le eloquenti parole di Angela Maraventano, la famosa lampedusana della Lega Nord:

«Queste persone vanno aiutate. Però poi che gli rimane? Prostituzione, droga… organi! Perché questi qua non hanno cultura… a loro non frega niente… non è che hanno un senso… non si amano! Perché io dico che se si amassero un minimo si ribellerebbero un poco no? Cioè, ce l’avrebbero questo coraggio… un po’. Cioè se tu non ti vuoi bene pensi: “lascia, che me ne frega… quando muoio muoio!”, non è così? Invece, se tu ci tieni, a volerti bene e ad apprezzare chi sei, fai di tutto per migliorare, no? A queste persone non frega niente» (25).

Corpi miserabili, senza cultura, destinati a disfarsi nella droga, a trasformarsi in oggetto di piacere, a frantumarsi in organi da commercializzare o a perire in mare, l’arrivo di queste persone che non si impegnano a “migliorare” risulta riprovevole, da evitare. Sull’altro versante, quello di corpi curati, manipolati per apparire “a posto”, abbiamo, come si è visto nel dialogo precedente con le forze dell’ordine, la derisione scandalizzata da parte di chi giustifica il proprio lavoro come salvataggio di disperati e arresto di clandestini: “dove devono andare? Devono andare a ballare! Si preparano a festa!”. Alla battaglia tra corpo e parola che caratterizza la relazione tra migranti e forze dell’ordine, si affianca qui un confronto, mai definitivo, tra diverse immagini del corpo.

Biopolitica e produzione della “illegalità”

Negoziare la pena

Durante la mia esperienza etnografica ho notato che l’accusa di mentire era una costante nel giudizio delle forze dell’ordine sui migranti. Essi applicavano questo paradigma anche a ciò che rientrava nell’ambito della sfera umanitaria: la cura del corpo. Nella interazione tra guardie, migranti e medici c’era, infatti, un sottile gioco di definizioni della realtà della malattia e del disagio. Un giorno una dottoressa di MSF mi rivelò:

«A volte i migranti ci mostrano le cicatrici di vecchie ferite che non costituiscono un’emergenza medica, ma sono usate per soddisfare il loro bisogno di attenzione».

In questo caso, l’ambiguità di quel segno – le cicatrici di vecchie ferite – spingeva i medici a includere la richiesta dei migranti in un più generale bisogno di cura, considerando le condizioni psicologiche e le relazioni di potere presenti in quella particolare situazione. Dal canto loro, invece, le forze dell’ordine premevano per l’applicazione di criteri diagnostici più oggettivi, in accordo con un paradigma biomedico ormai superato (PIZZA G. 2005, SANTOSUOSSO A. 2003). C’è una zona grigia tra espressione della malattia (come illness) e menzogna intorno alla quale avveniva una negoziazione tra migranti, medici e forze dell’ordine. Quando, ad esempio, i migranti richiedevano l’aiuto di un medico perché avvertivano dei dolori articolari dovuti alla posizione disagevole assunta sulla barca, gli operatori di Medici Senza Frontiere si sentivano in dovere di riformulare il proprio ruolo di fronte a quel genere di problemi. Perché questo tipo di disagio non rientra nella categoria delle patologie e dei traumi rilevanti dal punto di vista del primo soccorso (l’unica prospettiva che legittimava la presenza di MSF sulla banchina). Esso è, al contrario, più vicino alla prostrazione che alla malattia, anche se non può essere facilmente considerato, come per le vecchie cicatrici, una simulazione, cioè un uso strategico e ingannevole del proprio corpo da parte dei migranti. In casi del genere, le forze dell’ordine mettevano in campo un sapere pratico costruitosi con l’esperienza in situazioni analoghe, sapere che permetteva loro di esprimere giudizi sullo stato di salute dei migranti. Di fronte a corpi inerti, stesi in terra disidratati o in stato di ipotermia e avvolti in teli termici – quelle immagini della disperazione oggetto dello sguardo mediatico – ho spesso ascoltato giudizi del genere da parte delle forze dell’ordine: «Non ha niente, questo domani starà meglio di me!!».
A volte l’individuazione e l’“accertamento” della menzogna sullo stato di salute dei migranti venivano operati dalle forze dell’ordine su altri piani che non implicassero un giudizio clinico. La menzogna, cioè, non era svelata sostenendo da un punto di vista medico l’insussistenza del malessere, ma, senza entrare nel merito della relazione medico/paziente, individuando degli atteggiamenti sospetti che tradissero, all’interno della relazione controllore/controllato, le intenzioni mendaci dei soggetti. Uno di questi piani era quello gestuale, come mostra l’esempio che segue. Durante le operazioni di sbarco un migrante mi fece segno che la gamba gli doleva, così attirai l’attenzione del maresciallo della Guardia Costiera che si trovava lì a due passi. Nel frattempo si era avvicinato anche un funzionario della polizia giudiziaria adibita alle indagini sul traffico dei migranti. Quest’ultimo, riferendosi all’uomo steso a terra con la gamba dolorante, chiese: «Ma questo pure è ammalato? Ha problemi?»; «Sì, gli fa male la gamba» risposi io; l’uomo, da terra, indicò la propria gamba. Notato quel gesto, il maresciallo della Guardia Costiera intervenne con tono tra il sarcastico e l’indispettito: «Dice “la gamba”! Lui parla italiano, eh?! Perciò ti capisce, già ti ha fatto il segno originale di “gamba dolorante”!». Poi rivolgendosi al migrante il poliziotto chiese: «Quale ti fa male la destra o la sinistra?», ma l’uomo disse qualcosa e fece segno di non capire; «You speak english?» replicò il poliziotto; «No, arab» rispose l’uomo, e così iniziarono a parlare in arabo. Nel caso appena illustrato la comprensione dimostrata dal migrante – facilmente giustificabile come decodificazione di codici extralinguistici, gesti, intonazione della voce, sguardi – è utilizzata come prova di una menzogna: parla italiano, capisce quello che dici e adotta lo stratagemma consueto che consiste nell’usare strumentalmente il proprio corpo per raggirare le forze dell’ordine e impietosire medici e osservatori. Ancora una volta il paradigma della menzogna fornisce all’agente il quadro di riferimento per proporre la sua “diagnosi”, ricavata questa volta dall’osservazione dei codici gestuali usati dal migrante per attirare l’attenzione sul proprio disagio. Agli occhi delle forze dell’ordine, l’attività di Medici Senza Frontiere trovava legittimazione nella sua autorità biomedica, un sapere/potere di separare il sano dal malato. Tuttavia abbiamo visto come gli operatori agissero su un confine opaco, in cui lo stato di malessere era oggetto di una negoziazione peculiare collegata alla specifica relazione di potere tra i migranti e le strutture di ricezione della società di arrivo.
Questi nodi chiamano in causa la riflessione antropologica sulla medicina, che avvalendosi della pratica etnografica ha sottoposto a critica le pretese oggettivanti della medicina ufficiale occidentale (biomedicina) (PIZZA G. 2005). Problematizzare la sua razionalità universalizzante, significa trattare la “medicina occidentale” come un “sistema culturale” da rapportare alle forme altre di cura e guarigione e al vissuto e alle rappresentazioni dei “pazienti” (PIZZA G. 2005: 126). Quest’opera di decostruzione del «riduzionismo biologico nella definizione del corpo» (PIZZA G. 2005: 250), insito nell’approccio oggettivante della biomedicina, ha permesso così di ridefinire in senso dialogico i concetti di cura e di malessere e di riconsiderare il rapporto medico/paziente nei contesti sociali ed economici in cui esso ha luogo e nell’alveo delle relazioni di potere in cui è imbricato. Come sostiene Giovanni Pizza, da cui traggo la maggior parte di queste considerazioni:

«La concezione antropologica del concetto di “cura” (…) si definisce come una tecnica dell’attenzione, dell’ascolto e del dialogo, basata sulla dialettica fra la prossimità e la distanza, fra la parola e il silenzio, sulla consapevolezza dell’impossibilità di separare nel gesto l’aspetto tecnico da quello simbolico ed emozionale, su una comunicazione corporea e sulla dimensione emozionale e politica che questa relazione comporta» (PIZZA G. 2005: 229).

Questa concezione di cura si differenzia da quella oggettivante di terapia che si basa soltanto sulla visione razionale che del malessere ha il medico (26). A Lampedusa, con la loro opera di sdrammatizzazione le forze dell’ordine si inserivano come voce esterna nel delicato processo di negoziazione del significato del malessere tra il medico e il paziente, cercando di ripristinare una oggettività diagnostica che gli stessi medici (e ancor di più gli osservatori esterni) tendevano spesso a relativizzare.
L’attenzione “umana” al vissuto del soggetto in preda al malessere non consiste però in un semplice addolcimento dell’approccio medico, ad es. impiegando tecniche relazionali e psicologiche che in maniera paternalistica rendano la diagnosi e il trattamento medico più accettabili e meno invasivi per il paziente, come un certo discorso interno al paradigma bio-medico propone. Riscoprire il lato umano del rapporto medico/paziente significa, invece, riflettere radicalmente sullo statuto di realtà del vissuto soggettivo del paziente e, da qui, instaurare un dialogo che nella situazione specifica permetta di definire la cura. Un tale approccio critico, secondo Pizza, deve mettere in discussione:

«due assunti paradossali: da un lato, l’illusione di una neutralità del medico nel rapporto con il paziente; dall’altro, la pretesa, impossibile, di isolare nello spazio ristretto dell’interazione medico-paziente i più estesi significati sociopolitici e i più complessi rapporti di forza nei quali entrambi i poli della relazione agiscono e sono agiti, in rapporto alle istituzioni sanitarie e, attraverso di esse, con lo Stato e il mercato» (PIZZA G. 2005: 247).

D’altronde l’esperienza concreta dei medici e degli etnografi conferma come nella pratica molti medici lavorino in questa direzione vivendo le contraddizioni tra ideologia istituzionale ed esperienza diretta della relazione. La specifica situazione di Lampedusa rappresenta un luogo privilegiato di osservazione di queste dinamiche relazionali. Infatti, in questo caso risultano evidenti le contiguità e gli intrecci di sistemi di relazione multipli: migranti-forze dell’ordine, migranti-medici, forze dell’ordine-medici, e tutti questi alla presenza di osservatori esterni. D’altronde, come ha sostenuto in modo pregnante l’antropologo medico Byron J. Good:

«La malattia non si verifica solo nel corpo – nel senso di un ordine ontologico nella grande catena dell’essere – ma nel tempo, in un luogo, nella storia, nel contesto dell’esperienza vissuta e nel mondo sociale. Il suo effetto è sul corpo nel mondo!» (GOOD B. 1999 [1994]: 204).

Nell’atteggiamento delle forze dell’ordine di fronte alle condizioni dei migranti durante gli sbarchi, l’opera di individuazione della menzogna nei discorsi si intrecciava con la sdrammatizzazione del loro disagio psico-fisico. Un meccanismo direttamente collegato al tema dello “spettacolo del trattamento” affrontato sopra, quando ho esaminato il ruolo dinamico delle forze dell’ordine nella produzione della narrazione dell’evento e nel controllo dell’equilibrio tra immagine dell’assistenza e quella della repressione. Un controllo che avveniva a monte attraverso la gestione degli spazi concessi agli osservatori esterni – presenza sulla banchina, regolazione della vicinanza ai migranti, ecc. – ma anche a valle, attraverso l’espressione di giudizi di merito, soprattutto circa le condizioni fisiche dei migranti. Un esempio chiarirà quanto detto.

Il 19 settembre 2005 ci fu uno sbarco particolarmente importante, sia per il numero di persone sbarcate sia per la presenza della portavoce italiana dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), Laura Boldrini, che in quei giorni stava conducendo accompa- gnata da un cameraman una visita di monitoraggio a Lampedusa. Per l’occasione speciale, quella sera sul molo del porto di Lampedusa erano intervenuti contemporaneamente Guardia Costiera, Guardia di Finanza e Polizia. Tra le persone sbarcate c’erano anche diversi bambini, di cui alcuni molto piccoli, e un certo numero di persone in stato di ipotermia. Subito lo sguardo delle varie telecamere e macchine fotografiche si concentrò su di essi. Questo fatto, aggiunto alla presenza dell’UNHCR, rischiava di sbilanciare la rappresentazione dello sbarco sul versante umanitario. Le forze dell’ordine, quindi, tesero a fornire elementi interpretativi per evitare che alcune immagini potessero, secondo loro, far sovrastimare il “dramma” dei migranti. Il Comandante della Guardia Costiera, guardando un ragazzo che era stato messo in cura per ipotermia e che in quel momento era inquadrato da una telecamera (Foto 4), esclamò sorridendo: «questo trema con tutte ‘ste telecamere puntate contro!». Con quella espressione icastica, l’ufficiale mise in discussione con sottile ironia il rapporto tra la realtà del malessere e la sua rappresentazione mediatica, ribaltando cioè l’ordine logico di ciò che stava accadendo: “trema perché e ripreso” al posto di “è ripreso perché trema”.

…e il nostro di disagio?

La pretesa da parte delle forze dell’ordine di possedere la verità degli sbarchi, e di gestirne la rappresentazione, si fonda sulla prossimità tra i loro corpi e quelli dei migranti, condizione che dà vita a una sorta di intimità rivelatrice e pericolosa. In alcune circostanze i corpi del controllore e del controllato, che sono contestualmente anche salvatore e salvato, rischiano di sovrapporsi. Ciò dà vita a una serie di discorsi e pratiche che mirano a ridefinire e negoziare i confini tra i diversi soggetti.
Traggo un altro esempio dallo sbarco in cui i migranti arrivati furono trattenuti per diverse ore sulla banchina in attesa che il CPT fosse svuotato e la fotografa francese e il maresciallo della Guardia Costiera ebbero un battibecco sulla “questione barba”. Quando la ragazza lasciò la banchina l’uomo si rivolse a me:

Maresciallo: «La signora se n’è andata contenta?»;
Io: «Non lo so»;
Mar.: «Una rottura di coglioni questa qua! Ma è fuori di testa comunque! Cioè, non per qualcosa, però m’è venuta a fa un discorso: “stanno da tante ore… sembrano stanchi! Magari so stati cinque giorni a mare! Si sentono male, poi li tieni sopra la banchina”; senti ma che vuoi? Ci stavo pure io sopra la banchina o me ne sono andato? No! Loro sono stanchi, io no!».

Questo confronto della sua condizione con quella dei migranti, e la polemica nei confronti di chi dall’esterno chiede spiegazioni su quel ritardo, potrebbero essere interpretati semplicemente come un arroccamento del militare in difesa dell’intera macchina dello sbarco. Tuttavia la situazione è più complessa, lo stesso maresciallo qualche ora prima, quando gli avevo chiesto il motivo di quel ritardo nel trasferimento, mi aveva risposto che era in corso lo svuotamento del Centro e la situazione era ingarbugliata:

«Praticamente il Centro di accoglienza è diventato… è diventato una schifezza completa, perché ci sono Carabinieri e Polizia e non riescono… non hanno la mente aperta per gestire diverse cose, sono.. così! [fa il gesto dei paraocchi], deve finire prima la bottiglia d’acqua per passare alla bottiglia d’acqua successiva, capito? Allora è complicato!».

Questa polemica esplicita esprime il disagio di chi, per colpa di qualcun altro, è costretto a rallentare il proprio lavoro, con effetti negativi sui migranti e sull’immagine del salvataggio. Tuttavia, in una situazione così critica, mostrare una solidarietà eccessiva nei confronti dei migranti avrebbe aumentato il rischio di far saltare i delicati equilibri simbolici tra salvataggio e arresto, minando alla base l’intera struttura della macchina dello sbarco. È qui che lo spirito di sacrificio, mostrare la sofferenza dell’agente di fianco a quella dei migranti, serve a smorzare questa tensione. Il seguente dialogo illustra questa presa di distanza dai colleghi così come dai migranti:

Maresciallo: «…poi ci facciamo le risate, intanto io mando un certificato medico dove dico che mi avete tenuto sotto al sole, a me come a loro, però se mi sento male da solo, viene qualcuno e dice: “guarda a questo, un militare che abbiamo buttato nel deserto e ora sul molo si è sentito male!”, cioè non posso farlo, invece se si sentivano male anche loro [i migranti], almeno due o tre… infatti mi volevo mettere d’accordo, però poi te la cantano…»;
Io: «Poi magari nessuno gli crede»;
Mar.: «No, no… si mettono d’accordo, poi al Centro cantano tutto, dicono: “quello m’ha detto, quello, quell’altro”».

Porre semplicemente il disagio dei migranti al centro delle critiche mosse ai colleghi sarebbe eccessivo e pericoloso, quindi è l’agente che diventa il perno intorno a cui si articola la critica, egli è chiaramente vittima dell’imperizia degli altri agenti, ma deve subire anche l’inaffidabilità (data per scontata) dei migranti, con cui è impensabile poter solidarizzare e da cui deve quindi prendere le distanze, rimarcando un confine che quella situazione anomala aveva rischiato di stemperare.
Anche l’esempio seguente mostra questo processo di ridefinizione dei confini. Il 15 settembre 2005 una delegazione di dodici parlamentari europei (della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni) si recò in visita al CPT di Lampedusa (PARLAMENTO EUROPEO 2005). Le dichiarazioni sulle gravi irregolarità e violazioni delle leggi nazionali e degli accordi internazionali in materia di diritti umani nel centro, fatte alla stampa da alcuni membri della Commissione, in particolare Giusto Catania di Rifondazione Comunista, provocarono un certo malcontento tra le forze dell’ordine. Anche la Guardia Costiera si sentì travolta da quelle critiche, come dimostra questo dialogo tra me, due uomini della Guardia Costiera e il medico di MSF:

Agente1: «Ma Gatto [sic!], lei studia… non si può avere il suo lavoro? Per dire: “questa persona ha studiato il fenomeno e ha capito certe cose”… nel bene e nel male, per carità!»;
Io: «Certo… e poi in altri paesi – Usa, Gran Bretagna… – lo “studio di polizia” è considerato un indice di democrazia ed è accettato dalle forze dell’ordine»;
Agente1: «Ma se ci trovassimo negli Usa, con gli immigrati, dovremmo spogliarli, disinfettarli, mettergli una tuta arancione numerata, ecc.»;
Medico: «Ma qui al Centro succede così, no?»;
Agente1: «Ma no! Io ci lavoro, ti posso dire che li trattano meglio di noi, certo bisogna perquisirli per vedere se hanno armi, ma poi li nutrono, li lavano, le schede telefoniche, le sigarette… Eppure c’è stato uno della commissione parlamentare che ha offeso le forze dell’ordine, non dico chi è, davanti ai parlamentari stranieri. Invece di difendere l’Italia! È vero che io sono fascista naturale, estrema destra… destra consentita ovviamente, ma lui da italiano doveva evitare di parlare in quel modo! Io gli vorrei dire, ma avrebbe dovuto dirglielo qualcun altro: “Vieni a lavorare un anno qui e poi parli! Vieni a vedere di cosa si tratta!»;
Agente2: «Vieni durante un salvataggio, quando le onde alzano i barconi due metri sopra la nostra nave e poi sprofondano giù! A un nostro collega il barcone ha schiacciato la gamba, non perché l’ha messa fuori, ma perché le onde hanno sollevato il barcone che si è accavallato alla nostra nave. Poi loro vogliono salire a bordo tutti insieme, poi a volte, senza scarpe, scivolano… altri rischiano di essere schiacciati tra la nave e la barca… noi cerchiamo di tenerli seduti, di fargli capire che li prenderemo tutti…»;
Agente1: «Una volta c’erano dei trasferimenti dal Centro, nel frattempo ci fu uno sbarco e bisognò aspettare un po’ prima di effettuare i trasferimenti: ci fu un caso politico! Dissero che non era giusto farli aspettare lì due ore! Ma perché gli ho detto io di venire? E io non aspetto lì? Che quella volta tornai a casa con le bolle sotto ai piedi, con un mal di testa tremendo!»;

C’è da notare come in questo discorso il tema del controllo, dell’arresto (“certo bisogna perquisirli per vedere se hanno armi…”), venga subito coperto e rimpiazzato da quello della cura, del salvataggio (“ma poi li nutrono, li lavano, le schede telefoniche, le sigarette”), che diventa preponderante. Quando il parlamentare, che non ha alcuna esperienza prolungata del lavoro svolto dalle forze dell’ordine lì a Lampedusa, esprime delle critiche sulle condizioni di detenzione nel Centro e sull’assenza di tutela giuridica dei soggetti detenuti, è ancora una volta l’esperienza del salvataggio, e il sacrificio delle forze dell’ordine, ad essere chiamato in causa: “Vieni durante un salvataggio, quando le onde alzano i barconi due metri sopra la nostra nave e poi sprofondano giù!”. Sono i pericoli e i disagi “corporei” connessi a un certo tipo di lavoro – dalla perdita di una gamba, al rischio di fallimento nel salvataggio anche a causa del comportamento dei migranti, fino alle bolle sotto ai piedi e al mal di testa da insolazione – che costituiscono la falange retorica opposta ai tentativi di critica del meccanismo di arresto dei migranti e degli abusi del concetto di ordine pubblico.
Lo spirito di sacrificio, che si può considerare proprio delle operazioni in mare – il soccorso, ben diverso dall’ordine pubblico – finisce per estendersi alle intere operazioni, e in generale a qualsiasi attività eseguita dalle forze dell’ordine, che in determinati casi, nonostante le tensioni tra i diversi corpi (GC, Finanza, Polizia, Carabinieri), come abbiamo visto poco fa, fanno corpo contro i tentativi di individuare l’elemento repressivo all’interno delle operazioni connesse all’arrivo dei migranti (dal mare al Centro e oltre). Uno dei meccanismi per innalzare questo spirito di sacrificio a valore assoluto, sacro, incontestabile, è il mescolamento della condizione dei migranti con quella degli operatori: “li trattano meglio di noi!”.

Pericolosità e utilità dei migranti

Il braccio di ferro tra migranti e forze dell’ordine ha risultati incerti. Si tratta di una partita giocata su corpi che sicuramente necessitano di essere “salvati”, ma con altrettanta certezza sono condannati a restare impigliati nel loro espediente di essere arrivati in pericolo di morte. La precarietà del corpo biologico fa il paio con il carattere menzognero della “parola” espressa, sono facce opposte di una stessa medaglia. La nuda vita deve necessariamente essere anche muta vita. L’ambivalenza del “trattamento” ha forti ripercussioni sui giudizi espressi da soggetti esterni alla macchina anti-immigrazione e sul senso comune che rielabora queste vicende. La disciplina e la cura di corpi pericolosi in pericolo stimola, su un versante, la reificazione di un pericolo non meglio specificato e, sull’altro, il rilascio di un desiderio di utilizzo dei corpi che stanno passando attraverso un meccanismo medico e simbolico di purificazione. Vorrei qui menzionare brevemente due giudizi esemplari espressi da soggetti esterni alla relazione triangolare tra migranti, forze dell’ordine e medici. Durante uno sbarco, alcuni turisti si trovavano nel punto di accesso alla banchina osservando le operazioni e chiacchierando con me e un agente della Guardia Costiera, che era lì per impedire ai curiosi di inoltrarsi più avanti sul molo. Dopo un po’ una donna di mezza età del Nord Italia affermò: «Pensando a questi poveri diavoli mi dispiace, ma in mezzo a questi purtroppo c’è altro!». Alludeva al pericolo potenziale di infiltrazioni terroristiche o criminali. La seconda affermazione proviene da un pescatore lampedusano che, in un’altra occasione, osservava le operazioni insieme a un amico. Un agente della Guardia Costiera aveva appena terminato di contare e separare dagli uomini le nove donne sbarcate, quando il pescatore esclamo divertito: «Marescià… otto, una la prendiamo noi!!». Poi, indicando alcuni giovani africani accovacciati e disciplinati in file ordinate, secondo la procedura, l’uomo confessò all’amico: «Ne prenderei proprio qualcuno, questi sono intelligenti, quanto ci vuole per insegnargli a fare qualcosa, magari il pane o altro, dieci giorni? E dopo lavorano bene!».
Se il “trattamento” è anche un “modo di trattare specialmente una sostanza o un materiale per conferirgli determinate caratteristiche”, le pratiche messe in atto e osservate sulla banchina degli sbarchi hanno l’effetto di produrre corpi pericolosi ma controllati e utili. Il meccanismo di controllo crea il pericolo, un pericolo tanto certo quanto nascosto, nel momento in cui si propone di arginarlo. In questo modo esso crea le condizioni di possibilità per mettere a valore quei corpi docili e sani. Si tratta di una profilassi che consente di dare libero sfogo, in sicurezza, al desiderio di sfruttamento, intervenendo in quel processo che Appadurai definisce il “sofisticato gioco delle traiettorie indigene di paure e desideri intrecciati con i flussi globali di persone e cose” (APPADURAI A. 2001 [1996]: 47). In questo modo la pericolosità e l’utilità formano un circolo rappresentativo in cui i migranti, privati di “voce”, restano inevitabilmente incastrati.

Note

(1) Una prima versione di questo saggio è stata scritta nel 2009. Nel frattempo il quadro geopolitico mediterraneo ha subito delle trasformazioni significative (basti pensare alle rivolte arabe e alla guerra in Libia), tuttavia per evitare eccessive alterazioni del testo, e poiché gran parte delle analisi etnografiche in esso contenute conservano una certa validità autonoma dalle trasformazioni in atto, si è preferito rimandare ad altri testi recenti per approfondimenti relativi alle vicende degli ultimi due o tre anni (GATTA G. 2011a, 2011b). I lavori citati affrontano anche il tema dell’uso politico della “questione clandestini” da parte della popolazione lampedusana.

(2) Un’istituzione particolarmente ambigua e quasi impossibile da “penetrare” da parte di un occhio esterno (in alcuni casi neanche da parte di membri del Parlamento italiano) (AMNESTY INTERNATIONAL 2005, ANDRIJASEVIC R. 2006, DENTICO N. – GRESSI M. curr. 2006, MEDICI SENZA FRONTIERE 2005, PARLAMENTO EUROPEO 2005).

(3) La Misericordia era l’ente gestore del Centro di permanenza temporanea e assistenza (CPTA) dell’isola nel periodo della mia ricerca (febbraio-ottobre 2005). Precedentemente gestito dalla Croce Rossa (dal 1998), il Centro era passato nelle mani della Misericordia nel 2002 e, quando nell’estate del 2007 fu attivata una nuova struttura, trasformata in Centro di soccorso e prima accoglienza (CSPA), la gestione passò a “Lampedusa accoglienza”, società consortile formata da due cooperative legate a Legacoop: Sisifo e Blucoop. Medici Senza Frontiere, invece, iniziò a lavorare nel CPTA di Lampedusa nel 2002. Nel gennaio 2004 pubblicò un rapporto piuttosto critico sullo stato dei CPT in Italia (MEDICI SENZA FRONTIERE 2005), qualche mese dopo il Ministero dell’Interno negò all’organizzazione l’accesso al Centro. Negli anni successivi MSF ha potuto però svolgere attività di primo soccorso sulla banchina del porto durante gli sbarchi. Il 31 ottobre 2008, in seguito alla decisione del Ministero dell’Interno di non firmare un nuovo Protocollo d’Intesa con l’organizzazione, le attività furono sospese. Ci fu un ritorno nella primavera-estate del 2009, prima che la stretta sicuritaria avviata dal Ministro Maroni e la “politica dei respingimenti” producessero un quasi totale annullamento degli arrivi. Con i nuovi sbarchi del 2011, in seguito alla rivoluzione tunisina e alla guerra in Libia, l’organizzazione ha ripreso a prestare servizio sull’isola.

(4) Intervista del 12 agosto 2005.

(5) Sayad definisce la pensée d’Etat come «una forma di pensiero che riflette, mediante le proprie strutture (mentali), le strutture dello stato, che così prendono corpo» (SAYAD A. 2002 [1999]: 367). Cfr. anche Bourdieu (BOURDIEU P. 1993).

(6) Mi rifaccio qui principalmente ai seguenti lavori: CALAVITA K. 2005, COUTIN S. B. 2005, DAL LAGO A. 2006, DE GENOVA N. 2002, 2004, 2005, DÜVELL F. 2004, 2008, FASSIN D. 2001, 2005, INDA J. X. 2006, MEZZADRA S. 2001, 2004, 2006, PANDOLFI M. 2005.

(7) Nell’economia di questo testo non è possibile approfondire l’importante questione metodologica della relazione dialogica con i migranti. Un rapporto che nel mio caso, dati i peculiari rapporti di forza presenti nella situazione analizzata, è stato impossibile. Nel mio lavoro ho cercato di evitare di considerare questa impossibilità come un semplice ostacolo alla ricerca, cioè come un qualcosa che mi impedisse di giungere a una presunta essenza rappresentata dal “punto di vista dei migranti”, ma ho invece ritenuto che fosse una condizione meritevole di essere analizzata in quanto tale. Per un interessante discorso sui rischi che l’oggettivazione antropologica e la sua divulgazione possano diventare veri e propri strumenti di controllo in determinate situazioni, e sulla necessità di tenere ben distinti lo studio delle persone senza documenti, da un lato, e quello della «illegalità» e della «deportabilità», dall’altro cfr. DE GENOVA N. 2002: 420-423.

(8) Si tratta di un modello euristico, necessariamente semplificato e basato sull’esperienza in un dato periodo. L’uso del tempo presente risponde quindi a criteri espositivi e di semplificazione e non vuole suggerire l’idea di una realtà sempre uguale a sé stessa. C’è da dire, però, che le variazioni nelle modalità di sbarco verificatesi nel corso di questi ultimi anni non influiscono significativamente sulle interpretazioni che seguono.

(9) Per triage s’intende una tecnica di pronto soccorso che prevede una primissima selezione e classificazione dei pazienti mediante una scheda di accettazione e un sistema di indici cromatici che permette ai medici di segnalare in maniera immediata il livello di gravità del disagio.

(10) Per una definizione di comportamento profilmico, come forma più o meno cosciente di auto messa in scena da parte dei soggetti che si trovano di fronte a una macchina fotografica o telecamera cfr. FAETA F. 2003: 115-116.

(11) Uso il termine mediazione nella specifica accezione fornita da Appadurai per indicare i pro- cessi di comunicazione mediatica (APPADURAI A. 2001 [1996]: 16).

(12) Le definizioni sono tratte dal Dizionario della lingua italiana di De Mauro (DE MAURO T. 2000).

(13) Sullo stesso tema cfr. anche Chavez (CHAVEZ L. R. 2008).

(14) Come si vedrà fra poco il carattere “razziale” della produzione dell’illegalità risulta in maniera molto chiara quando gli attori sono portati ad attribuire lo status di rifugiato o profugo.

(15) www.guardiacostiera.it/mezzi/stendardo.cfm (ultimo accesso: 22 dicembre 2011).

(16) www.guardiacostiera.it/mezzi/stendardo.cfm (ultimo accesso: 22 dicembre 2011).

(17) www.guardiacostiera.it/organizzazione/antimmigrazione.cfm (ultimo accesso: 22 dicembre 2011).

(18) Come accennato prima, ho potuto riscontrare la presenza di fotografie dello stesso genere – sia della fase di trasbordo dai barconi alle navi, in cui i migranti apparivano in quanto gruppo, sia nella fase a terra, con primi piani di donne e bambini, spesso accompagnati da agenti – incorniciate alle pareti delle caserme di Guardia di Finanza e Guardia Costiera.

(19) Nel linguaggio marittimo per “unità” (navale) si intende qualsiasi costruzione destinata alla navigazione.

(20) Che include: sicurezza della navigazione, protezione dell’ambiente marino, controllo sulla pesca marittima, ecc.

(21) www.guardiacostiera.it/organizzazione/ricercaesoccorso.cfm (ultimo accesso: 22 dicembre 2011).

(22) Quando una volta chiesi a un ufficiale della Guardia Costiera il permesso di salire sulle loro motovedette durante una operazione di soccorso dei migranti, l’uomo rispose tra il serio e il faceto: “se sgozzano me, pazienza, è il mio lavoro! Ma se sgozzano lei è un problema!”.

(23) Su temi analoghi, in particolare sulla individuazione della verità “dal corpo” dei richiedenti asilo mediante le certificazioni mediche cfr. FASSIN D. – D’HALLUIN E. 2005.

(24) L’accertamento dell’età dei presunti minori avveniva nel CPT mediante una tecnica che resta comunque imprecisa: la radiografia del polso.

(25) Intervista concessa all’autore il 22 giugno 2005.

(26) Questa differenza richiama la distinzione in uso prevalentemente nell’antropologia medica statunitense tra illness – l’esperienza soggettiva del malessere vissuta dal paziente – e disease – la definizione oggettiva del malessere, in quanto alterazione dell’organismo, fornita dalla biomedicina –, una ripartizione terminologica che permette di rinominare «il fenomeno indicato dalla biomedicina come “malattia”, restituendo ad esso la pienezza multidimensionale di una complessità insieme esistenziale, sociale e culturale» (PIZZA G. 2005: 83). Bisogna sottolineare, inoltre, che il concetto di cura ha delle radici filosofiche che travalicano l’ambito della medicina “scientifico-tecnologica” (TORALDO DI FRANCIA M. 2003). Si può, infatti, ricondurre questa nozione a quegli indirizzi filosofici che hanno decostruito la separazione cartesiana tra psiche e soma, e hanno proposto una visione globale dell’uomo. Il pensiero femminista (nelle sue varie ramificazioni) e la bioetica sono gli ambiti che, più di recente, hanno accolto questo concetto, approfondendo l’analisi del «“prendersi cura” come pratica relazionale, […] scambio comunicativo, i cui fini sono plurimi e mutevoli, indipendentemente dal diverso status dei soggetti della relazione e delle situazioni particolari» (TORALDO DI FRANCIA M. 2003: 132).

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Riassunto

Corpi di frontiera. Etnografia del trattamento dei migranti al loro arrivo a Lampedusa.

Il saggio presenta alcune riflessioni intorno alla gestione biopolitica dei migranti al momento del loro arrivo sul territorio italiano. Le interpretazioni si basano su una ricerca di terreno condotta a Lampedusa a partire dal 2005. Il “corpo” dei migranti, ma anche degli altri soggetti impegnati nella loro gestione, costituirà il fulcro per un’analisi delle dinamiche in atto sulla banchina del porto durante la fase di sbarco gestita dalle forze dell’ordine e dagli operatori umanitari. Nella prima parte saranno illustrate le procedure di sbarco, con una particolare attenzione al ruolo attivo delle guardie nella produzione di un’immagine specifica degli “arrivi”. In seguito, si procederà all’analisi del discorso della Guardia Costiera sull’azione umanitaria, un tema che oscilla tra salvaguardia della vita e controllo del confine. Inoltre, saranno analizzate le pratiche di negoziazione della sofferenza da parte di migranti, forze dell’ordine, attori umanitari e osservatori esterni, e, più in generale, la relazione biopolitica tra questi soggetti in campo, con particolare attenzione ai problemi del corpo e della soggettività.

Parole chiave: biopolitica; clandestinità; corpo; migrazioni; trattamento; intervento umanitario.

Résumé

Corps frontaliers. Ethnographie du traitement des migrants à leur arrivée à Lampedusa.

Cet essai présente des réflexions sur la gestion biopolitique des migrants lors de leur arrivée sur le territoire italien. Les interprétations ont été développées à partir d’observations effectuées lors d’un travail de terrain mené aà Lampedusa à partir de 2005. Le corps des migrants, mais aussi ceux des autres sujets impliqués dans leur gestion, constituera le cœur de l’analyse des dynamiques en jeu sur les quais du port de l’île durant les opérations de débarquement géreées par les gardes et les opérateurs humanitaires. Dans la première partie, nous examinerons les procédures de débarquement, en portant une attention particulière au rôle actif des gardes dans la production d’une image spécifique des «arrivées». Par la suite, nous poursuivrons avec l’analyse du discours de la garde côtière au sujet de l’action humanitaire, lequel oscille entre la problématique de sauvegarde de la vie et celle du contrôle des frontières. Par ailleurs, nous analyserons les pratiques de négociation de la souffrance par les migrants, les gardes, les acteurs humanitaires ainsi que les observateurs extérieurs, et, plus généralement, la relation biopolitique entre ces sujets, en nous concentrant en particulier sur les thématiques du corps et de la subjectivité.

Mots clés: biopolitique; clandestinité; corps; migration; traitement; intervention humanitaire.

Resumen

Cuerpos fronterizos. Etnografía del tratamiento de los inmigrantes a su llegada a Lampedusa.

El ensayo presenta algunas reflexiones sobre la gestión biopolítica de los inmigrantes en el momento de su llegada al territorio italiano. Las interpretaciones se basan en un trabajo de campo realizado en Lampedusa a partir de 2005. El “cuerpo” de los inmigrantes, así como el de los otros sujetos involucrados en su gestión, constituirá la piedra de toque para analizar las dinámicas en acción en los mulles del puerto durante la fase de desembarco gestionada por las fuerzas del orden publico y los trabajadores humanitarios. En la primera parte se ilustrarán las prácticas de desembarco, prestando especial atención al papel activo de los agentes en la produción de una imagen específica de las “llegadas” de los inmigrantes. Seguidamente se procederá al analisis del discurso de la Guardia Costera sobre la acción humanitaria, un argumento que oscila entre la salvaguardia de la vida y el control fronterizo. Adicionalmente serán analizadas las prácticas de negociación del sufrimiento entre los inmigrantes, las fuerzas del orden público, los actores humanitarios y observadores externos, y, en general, la relación biopolítica entre los sujetos operantes, prestando particular atención a los problemas del cuerpo y de la subjetividad.

Palabras clave: biopolítica; clandestinidad; cuerpo; migración; tratamiento; intervención humanitaria.

Abstract

Border bodies. Ethnography of the treatment of migrants on their arrival in Lampedusa.

This essay will discuss the biopolitical management of migrants entering the Italian territory. The interpretations presented are based on fieldwork conducted on the island of Lampedusa since 2005. The analysis of the dynamics at work on the har- bour dock during the “landing” phase, which is managed by border guards and humanitarian workers, will focus on the “body” of migrants as well as on the “bodies” of the other actors involved. The first part will concentrate on “landing” procedures. Particular attention will be paid to the active role of border guards in producing a specific image of the “arrivals”. Subsequently, the Coast Guard’s discourse on humanitarian action will be examined and tensions between the issue of life protection and that of borders control will be analysed. In addition, practices of negotiating pain enacted by migrants, border guards, humanitarian workers and external observers will be investigated, as well as the more general biopolitical relationship between these subjects, with a focus on matters of body and subjectivity.

Keywords: biopolitics; clandestinity; body; migration; treatment; humanitarian intervention.

Per un archivio delle memorie migranti

di Alessandro Triulzi

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Negli ultimi anni l’Italia, insieme alla Spagna, è diventata uno dei paesi di più forte immigrazione in Europa; tale situazione ha comportato grandi difficoltà di accoglienza e valutazione che impongono oggi, e sarà sempre più necessario in futuro, una riflessione collettiva su questa delicata vicenda storica. Di qui la necessità di raccogliere fonti, tracce e testimonianze in grado di rappresentare un processo storico che caratterizza come pochi altri la nostra epoca: registrare, archiviare e condividere tali fonti permette di partecipare criticamente a un processo globale che sta cambiando il volto del nostro paese, e non solo di subirlo o assistervi passivamente. Di qui la registrazione e raccolta – avviata fin dal 2005 all’interno di una piccola associazione di settore, Asinitas Onlus, con le sue scuole di italiano e i progetti di educazione attiva con stranieri migranti (www.asinitas.org) – di testi, narrazioni orali, canti, scritti e testimonianze audio e video sulla condizione di rifugiati e richiedenti asilo in Italia. Raccogliere le voci di migranti “irregolari”, definiti “clandestini” per legge, senza rimuovere o acutizzare i traumi dell’abbandono iniziale e la violenza del viaggio e dell’arrivo, e farne oggetto di narrazione-testimonianza, solleva problemi etici e metodologici che caratterizzano ogni testimonianza da trauma nella nostra epoca, definita da Annette Wieviorka, «l’era del testimone» (Cfr. Wievorka, 1999). I migranti e richiedenti asilo oggi tra noi richiedono infatti non solo diritti e cittadinanza, ma ci chiedono di dare cittadinanza, e dunque dignità, alla loro storia, la storia dell’emarginazione e dell’emigrazione, della diaspora e dell’esilio, che è parte del vissuto quotidiano, e storia viva, della società in cui viviamo.

Ascoltare, raccogliere e archiviare testimonianze di migranti e richiedenti asilo è tuttavia un’azione che richiede attenzione, sensibilità, capacità di ascolto, partecipazione. È un lavoro difficile e impegnativo, uno stare insieme del ricercatore con il proprio soggetto di ricerca all’interno di un percorso condiviso e partecipato, un progetto di ricerca-azione che è alla base dell’Archivio delle memorie migranti e che aspira a lasciare traccia dei processi migratori in corso e allo stesso tempo di permettere l’inserimento di memorie “altre” nel patrimonio collettivo della memoria nazionale contribuendo a slabbrarne i margini. Creare un contesto di ascolto partecipato e condiviso con migranti arrivati da poco in Italia introduce una serie di nuove domande – e di sfide – a cui non è facile trovare una risposta. Per un immigrato visto come “clandestino” in qualunque città italiana, prendere un autobus, aspettare in fila, entrare in un luogo pubblico, fare la spesa in un negozio o un supermercato, o richiedere i servizi di una struttura pubblica, vuol dire essere continuamente circondato da occhi distratti, indifferenti o malevoli che lo fanno sentire estraneo fino nelle ossa, impaurito, spaesato, insicuro, una persona senza-luogo senza-casa senza-lavoro che brucia la propria stagione della migrazione in zone e luoghi costantemente temporanei e «in eccesso» (Rahola) in un continuo alternarsi di aspettative cui corrispondono solo snervanti attese e rinvii (cfr. Rahola, 2003).

Di qui la difficoltà dell’ascolto di voci straniate e straniere, per quanto empatico ci sforziamo di rendere il nostro sguardo, ai nostri occhi e ai loro. L’ascolto di voci che provengono dall’esterno del proprio mondo e esprimono parole, gesti e riferimenti simbolici diversi dai propri è sempre e comunque destabilizzante, sia per chi parla che per chi ascolta. L’ascolto di voci di migranti, in particolare quelle di richiedenti asilo in attesa di “giudizio” (dove il “diniego” o l’accettazione della condizione di rifugiato nell’Italia di oggi è una vera e propria condanna o assoluzione di pena), è pertanto un ascolto filtrato, ostacolato, cifrato; c’è bisogno di una mediazione linguistica, affettiva, di attenzione e rispetto particolari. Esso deve essere preceduto dalla individuazione di uno spazio comune, una condivisione di piani di discorso e di idealità, un lavorare non solo tra ma con i migranti affinché loro stessi possano diventare protagonisti delle loro storie, in grado di padroneggiare gli strumenti per l’espressione di sé. Senza tutto questo, non è possibile che si stabilisca quella “forma di oblio condiviso” delle disuguaglianze esistenti tra intervistato e intervistatore che per Sayad è il necessario “prodotto della fiducia che è all’origine dell’indagine più proficua” (Sayad 2002, p. 218). Né può avere luogo quel “patto sacro” spinoziano di cui riferisce Pierre Bourdieu sul dovere di non giudicare (non condannare, non ridere, non detestare, ma capire [Bourdieu 2007, p.10. Traduzione mai]) chi rivela un segreto, chi parla «di ciò di cui non si vuole parlare» perché ai limiti di ciò che è «vietato», e allo stesso tempo «prezioso», per la propria vita e quella altrui (Sayad 2002, p. 217).

Per permettere la riappropriazione di un’identità personale e di gruppo occorre pertanto contribuire alla costruzione di una memoria collettiva che non sia solo di colpa o di sofferenza, e recuperarne la dimensione positiva come strategia di vita attiva, e non di semplice sopravvivenza, come è pure per ogni popolo migrante. Il problema è molto vasto e coinvolge una riappropriazione della memoria collettiva che non è esente da ambiguità e contraddizioni. Le voci dei migranti (distorte dai media e spesso spettacolarizzate per usi interni o fini di parte) sono oggi sommerse dal clamore esterno suscitato intorno alla loro presenza tra noi, vista (da pochi) come grande occasione e (dai più) come minaccia per il proprio benessere e sicurezza.

Negli ultimi anni, la letteratura delle migrazioni ha cominciato a trasmetterci forme di auto-rappresentazione di questo mondo sommerso. Ma delle voci dei migranti in transito, quelle dei “clandestini” irregolari come anche dei rifugiati e richiedenti asilo, che sostano a volte per anni tra noi, non c’è traccia se non nelle cronache cittadine sempre più esasperate nei toni, e nelle scarne “memorie integrative” vistosamente artefatte che i richiedenti asilo affidano alla attenzione di avvocati e commissioni governative chiamate a decidere, attraverso le loro sentenze, della continuazione o interruzione – cioè della vita e della morte – dei progetti migratori dei richiedenti. Le loro voci e soggettività reali sono così sommerse nella paura e nell’insicurezza di esiti quasi sempre negativi.

Di qui la necessità di registrare voci diverse e più articolate coinvolgendo i migranti in nuovi modi auto-narrativi (artistici, musicali, audiovisivi) e nell’espressione di desideri e bisogni maturati nei nuovi contesti di comunità, aggregazioni spontanee, scuole o gruppi di ascolto in cui percorsi e obiettivi migratori vengano visti come scelte consapevoli di superamento dei margini limitati o costrittivi delle comunità di origine per poter ampliare e perseguire le proprie scelte di vita. Non si tratta solo di registrare un fenomeno epocale di enorme portata per la nostra società, ma di costruire insieme griglie interpretative e strumenti di comprensione per una realtà di attraversamenti e condizionamenti multipli che ormai caratterizzano non solo le nostre società ma gli stessi paesi di origine, spesso attraversati più dei nostri da flussi migratori e forme di mobilità che appaiono sempre più imponenti e duraturi nel tempo.

Tutto questo ci proponiamo di raccogliere nel nuovo Archivio delle memorie migranti (Amm) da attivare collegando e mettendo in rete realtà ad esso affini e vicine – dal progetto Storie migranti portato avanti da Federica Sossi all’Università di Bergamo ai materiali raccolti da Gabriele Del Grande per Fortress Europe, dai documenti audio di Passepartù trasmessi dalle reti radiofoniche di Amisnet alle testimonianze di migranti raccolte da Roman Herzog per Audio.doc, dai frammenti di vite migranti dispersi o travolti negli sbarchi a Lampedusa e raccolti dalla Associazione locale Askavusa fino ai film, i documentari, le interviste, le immagini in movimento impresse nei cellulari e nelle pellicole dei nostri volontari e filmmaker migranti. In un paese diviso tra emigrazione e immigrazione – un paese in cui troppo spesso ci si dimentica che il binomio noi/loro è una costruzione fittizia che ha bisogno di una costante messa in discussione, e in cui troppo spesso al termine migranti/immigrati si associa un fastidioso turbamento della propria quotidianità – l’idea di dare vita alla raccolta viva, dinamica e partecipata di testimonianze migranti sembra a tutti noi oggi più che mai necessaria. E non solo per loro, che si accingono a confrontarsi con qualcosa di quasi sempre traumatico e indicibile, ma anche per i destinatari delle loro testimonianze, per chi intende predisporsi all’ascolto senza filtri o allarmi mediatici, per chi arriva e per chi parte, insomma, per tutti noi.

L’Archivio risponde pertanto alla volontà di lasciare traccia nella coscienza e nella consapevolezza della società del vissuto collettivo di alterità in cammino e di imprenditorialità umana che esprime il fenomeno migratorio oggi in Italia colpito da una legislazione fortemente discriminatoria e dal rifiuto di estendere ai migranti, anche se di seconda generazione, i diritti civili e politici. Il lavoro intorno all’Archivio e ai materiali che raccoglie mira a far sì che la condizione migrante possa essere delineata in tutta la sua umana e diversificata capacità di azione (agency) e di auto-rappresentazione. Di queste rappresentazioni, dei racconti autobiografici, delle memorie e testimonianze nella loro molteplicità e nel rispetto delle differenze di generi e opinioni, l’Archivio vuole essere dunque garante, tutela, ma anche dimora, luogo di nascita e spazio d’ascolto. Esso non vuole farsi involucro di una memoria preconfezionata, ma spazio (e “bene”) comune in cui poter condividere – in modo partecipato e interattivo – tenendo gli occhi aperti e vivi sulla memoria porosa che sta nascendo all’interno del paese.

Costruire l’Archivio insieme ai soggetti e agli attori della migrazione, nonché agli operatori, ricercatori, volontari, è infatti per noi prassi educativa e insieme accoglienza, è testimoniare e permettere che si faccia testimonianza, è ascoltare la voce di chi non ha diritto ad averla permettendo che sia espressa e si faccia riconoscere, è lasciare traccia di sé in un noi transnazionale che faticosamente, e malgrado tutto, si va formando in Italia. La stessa indicibilità nel parlare di sé dei migranti, l’impossibilità, a volte, di dire “io” nel “dopo” di un viaggio fortemente traumatico o di un approdo ancora più spaesante, può annullarsi o scomparire in presenza di un ascolto partecipato. L’esperienza diventa tale solo se la si condivide e diventa racconto: per questo l’archivio, che i racconti rende possibili, è una vera e propria azione sulla memoria, uno spazio in cui narrazioni condivise diventano a loro volta reciproche. E dove forse quel noi/ loro comincia a vacillare.

In tale modo fare archivio in rete è un agire politico al di fuori degli schemi usuali della politica. Costruire una rete di memorie migranti in Italia costituisce una potenziale rilettura della vita e della cultura nazionale in dimensione passata, presente e futura: è completamento critico della memoria coloniale e delle sue molte rimozioni, spazio d’origine di contronarrazioni che si oppongono al discorso dominante sulla migrazione – pericolosamente infarcito di cecità, pre-giudizi e razzismo –, ma anche contributo alla elaborazione di una memoria culturale transnazionale. L’archiviazione dinamica di questo pezzo di storia del presente permetterà, cioè, di collegare, in maniera meno superficiale di quanto avviene sul piano retorico, l’esperienza migratoria di oggi proveniente dall’esterno con quella passata europea e italiana verso l’esterno (emigrazione e colonie), sottolineandone difficoltà e sofferenze ma anche gli esiti, i lasciti e le ramificazioni nella vita della nazione e del suo diversificato incontro con l’Altro.

Affinché l’Archivio sia spazio e principio di una condivisione di memoria, ossia di cultura come insieme di pratiche sociali e rappresentazioni mentali, occorrono trasparenza e accessibilità. In un archivio raggiungibile, condivisibile, usabile, la memoria diviene funzionale, viva, e non museale. L’Amm non vuole avere né una superficie polverosa, né un carattere di impenetrabilità, tutt’altro: siamo convinti che debba rispecchiare i caratteri di apertura, gratuità e trasparenza del cosiddetto copyleft applicato agli archivi digitali di nuova formazione. L’Archivio dev’essere cioè capace di rispondere alla nuova grammatica di gestione del sapere e delle sue modalità di comunicazione e di trasmissione on line, accostandosi ad altre realtà sviluppatesi in rete ma non per questo dimenticando l’importanza della tangibilità dei materiali che raccoglie, o la sensibilità necessaria nel metterli a disposizione.

I materiali del nostro Archivio sono tuttora in formazione e si prevede che essi siano resi accessibili dall’estate 2012. Le importanti collaborazioni nel passato avviate con Associazioni culturali e Onlus (soprattutto Asinitas, ma anche la Comunità di base di San Paolo, Cemea del Mezzogiorno, Medici contro la tortura), con Fondazioni pubbliche e private (Unicredit, Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, lettera27, Open Society Foundations) ci hanno consentito negli anni di accumulare esperienze e professionalità, e di ospitare fisicamente e sostenere l’archivio mobile e le sue attività. La recente collaborazione con il Circolo Gianni Bosio ci ha permesso di portare avanti una serie di iniziative comuni sul tema delle musiche e memorie migranti e ci ha generosamente offerto ospitalità e appoggio operativo presso la sede del Circolo alla Casa della memoria e della storia di Roma. È in tale ambito che è nata l’idea di cercare sostegno per una rete di archivi sulla migrazione presso istituzioni nazionali quali l’Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi (ex-Discoteca di stato) di Roma e l’università “L’Orientale” di Napoli. Il sostegno di queste due importanti istituzioni permetterà il deposito in copia degli archivi “migranti”, la formazione di operatori, e la messa in sicurezza delle memorie e testimonianze raccolte.

La Rete di Archivi delle memorie migranti intende essere il punto di riferimento di chi voglia condividere e rendere accessibili al pubblico testi, film, registrazioni di storie di vita e video-narrazioni che testimonino un nuovo modo di comunicare, partecipato e interattivo, unendo gruppi misti di educatori, operatori di terreno e migranti in un lavoro comune di rappresentazione e di sollecitazione nell’opinione pubblica di temi, situazioni e diritti relativi alla condizione migrante. Tra i principali obiettivi perseguiti si ricordano in modo particolare: la creazione di una rete nazionale di sostegno e di empowerment dei migranti e dei loro diritti in Italia attraverso modalità di condivisione, consapevolezza e auto-rappresentazione delle nuove identità in cammino; e la speranza di dare dignità di memoria del paese a queste memorie altre, istituzionalizzando e professionalizzando un processo finora portato avanti in modo autonomo ma spesso frammentario dai soli soggetti della società civile.

La Rete verrà attivata a seguito dell’accordo di collaborazione in corso di finalizzazione tra l’Amm, il Circolo Gianni Bosio, l’Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi, Ministero per i beni e le attività culturali, e l’università degli studi di Napoli “L’Orientale”. L’accordo intende dare vita e formalizzazione alla Rete e alla conservazione, archiviazione e messa in sicurezza dei materiali sonori e audiovisivi prodotti, realizzati e gestiti dai partner in piena autonomia. L’accordo di collaborazione è aperto e del tutto inclusivo, in modo da permettere l’adesione di qualunque altro ente o centro che ne condividerà modalità e obiettivi.

Oltre a questi luoghi fisici, lavoriamo affinché l’Archivio sia almeno parzialmente accessibile in rete, e contribuisca ai criteri di open access e di visibilità oggi richiesti per ogni importante iniziativa culturale. Il grado di profondità raggiunto nella relazione con i testimoni e la particolare attenzione che l’Amm presta al rispetto dei loro interessi e della volontà di diffondere le loro narrazioni, impone una cautela particolare nel decidere cosa rendere pubblico e secondo quali modalità. In particolare, i ricercatori che accederanno ai materiali dell’archivio saranno invitati a condividere le finalità, i metodi e i risultati dei loro lavori, facendoli confluire nell’archivio. In questo modo si cerca di equilibrare lo spirito dell’Open Archive con la necessaria cura che queste storie e testimonianze impongono necessariamente. Le collaborazioni in atto hanno permesso l’avvio di percorsi comuni culminati in mostre, laboratori narrativi, e azioni di advocacy nonché la produzione di film (Come un uomo sulla terra, 2008; Una scuola italiana, 2009; C.A.R.A. Italia, 2010; Soltanto il mare e Benvenuti in Italia, 2011) e cd musicali (Istaraniyeri, 2011, raccolta di canti e musiche di migranti a Roma) che hanno permesso di mettere a fuoco modalità incisive di condivisione e diffusione alla rete sociale e alla società civile della co-produzione audiovisiva di testimonianze di vita e di viaggio dei migranti e del loro difficile inserimento nella società italiana, ma anche di straordinarie capacità espressive che una società disattenta rischia di mortificare.

Bilbiografia

Bourdieu P., La misère du monde, Seuil, 2007 (I ed. 1993).

Rahola F., Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell’umanità in eccesso, ombre corte, 2003.

Sayad A., La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina, 2002 (I ed. Paris, 1999).

Wievorka A., L’era del testimone, Raffaello Cortina, 1999.

“Voci, racconti e testimonianze dall’Italia delle migrazioni. L’Archivio delle memorie migranti”

di Alessandro Triulzi

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Abstract

L’Archivio delle memorie migranti (AMM) nasce all’interno di un progetto di educazione attiva presso l’associazione Asinitas Onlus e la scuola di italiano per rifugiati e richiedenti asilo di Via Ostiense a Roma. Nel gennaio 2012 l’Archivio si è costituito in Associazione di promozione sociale. AMM si compone di due aree di lavoro: il Gruppo Ricerche, che si occupa della produzione e archiviazione di testimonianze scritte e orali, e il Gruppo Audiovisivi impegnato nella realizzazione di produzioni audio e video documentarie. Dal 2011 AMM ha avviato la raccolta e l’archiviazione sistematica, sia in forma scritta che audiovisiva, di storie e testimonianze di migranti, in particolare rifugiati e richiedenti asilo, con la partecipazione attiva di migranti appositament e formati. AMM promuove progetti in rete, la realizzazione di laboratori di video-formazione e la produzione di documentari e cortometraggi realizzati da migranti.

Presentare un archivio di memorie per loro definizione ‘migranti’, per di più nato da poco, senza una sede fissa e con scarsi mezzi, vuol dire parlare di qualcosa che è ancora in larga misura ‘in cammino’, e di cui le prime realizzazioni permettono di delineare il percorso di marcia più che mostrare consolidati risultati di ricerca o raccolta di fonti. Il tentativo di rintracciare voci e memorie di migranti dal Corno d’Africa – mio tradizionale terreno di ricerca – si è imposto al termine e come proseguimento dell’insegnamento di Storia dell’Africa Subsahariana tenuto per più di trent’anni all’Università di Napoli “L’Orientale” dopo aver visto, in un improvviso ribaltamento dei flussi migratori e coloniali europei nell’Africa di fine Ottocento, i propri soggetti di studio sbalzati un secolo dopo all’interno della società italiana. La scelta iniziale, presto condivisa da un gruppo di volontari, studenti e ricercatori, è stata una decisione che si è imposta allora a livello etico-culturale e allo stesso tempo come rinnovamento di campi disciplinari. Avendo descritto altrove il processo di maturazione e di forte coinvolgimento di gruppo (Triulzi & Carsetti 2007), non intendo soffermarmi su ragioni che a loro volta articolavano una richiesta di sapere e un bisogno collettivo di cambiamento che si andavano allora imponendo, sia pure tortuosamente, nella società italiana di accoglienza. È da queste richieste e bisogni che occorre partire per arrivare nel gennaio 2012 all’atto di fondazione dell’Archivio delle memorie migranti (AMM) come Associazione di promozione sociale a sé stante.

Origini e percorso di gestazione dell’Archivio

L’Archivio delle memorie migranti nasce inizialmente come deposito (repository) di storie, narrazioni e testimonianze raccolte all’interno di una Scuola di italiano per migranti (www.asinitas.org), con cui avevo iniziato a collaborare per affiancare una sperimentazione terapeutica inizialmente portata avanti da un gruppo di volontari in collaborazione con Medici contro la Tortura. La raccolta di storie e narrazioni per ricostruire i tessuti comunitari di migranti sopravvissuti ai traumi dell’esodo forzato inizia a prendere forma nel 2004 tra gli occupanti stranieri dei Magazzini di Tiburtina, un ampio spazio allora presidiato da alcune centinaia di richiedenti asilo e rifugiati politici provenienti dal Dar Fur e dalle regioni del Corno d’Africa, poi sgombrato con la forza dal Comune di Roma nel 2005. È qui, tra i vestiti e le fotografie rase al suolo dalle ruspe insieme a quello che restava della prima comunità autonoma di accoglienza per migranti nata a Roma, allora denominat a ‘Hotel Africa’, che è nata nel gruppo l’idea di conservare le tracce, le narrazioni e le testimonianze di viaggio e dell’arrivo per registrare la tortuosa accoglienza riservata agli ‘ospiti’ stranieri di Tiburtina (Triulzi 2013). Nella scuola Asinitas fondata sui lasciti di questa esperienza, le storie dei migranti, espresse in modo incerto e con le poche parole di italiano conosciute, venivano usate in attività didattiche come tracce di memoria, e di riconoscimento, della propria identità culturale e di miglioramento nella conoscenza dell’italiano da parte di st ranieri migrant i resident i a Roma e provincia.

Il lavoro presso la Scuola Asinitas di Via Ostiense a Roma dà inizio alla prima fase dell’Archivio portato avanti insieme agli operatori didattici con cui vengono condivisi gli anni di formazione (2005-2011) e la prima sperimentazione di progetti di raccolta e diffusione di testimonianze audiovisive. Tale lavoro è stato fondamentale per i volontari e i ricercatori dell’Archivio non meno che per i migranti-studenti alcuni dei quali sono poi diventati mediatori culturali e della comunicazione. La Scuola di Via Ostiense, terreno di raccolta e allo stesso tempo laboratorio di esperienze di formazione e ricerca, era allora frequentata da migranti provenienti soprattutto dalle regioni del Corno d’Africa martoriate da conflitti intestini mescolati a povertà e autoritarismo, e ospitava principalmente studenti rifugiati dall’Eritrea, Somalia, Etiopia e dal Dar Fur sudanese arrivati in Italia da poco. Fin dall’inizio l’insegnamento della lingua italiana era intessuto con le tracce di memoria che si voleva conservare: “A scuola le lezioni seguono le ‘tracce’ degli studenti. Si fa lezione raccogliendo e soffermandosi su ciascuna parola che imprevedibilmente loro pronunciano. All’inizio la partecipazione degli studenti alle lezioni d’italiano sono parole senza sintassi, intenzioni di discorso, abbozzi di frase, pensieri incompleti. Le parole evocano però interi discorsi, producono linguaggi. È da lì che si parte” (Triulzi e Carsetti 2007, 108).

Il lavoro della scuola consisteva proprio in questo: dare spazio autonomo alle voci narranti dei diretti interessati nella necessaria ricostruzione/ricomposizione delle loro identità dopo lo spaesamento dell’arrivo. Seguendo l’annotazione di Abdelmalek Sayad (2002) che immigrazione e emigrazione sono ‘due facce della stessa medaglia’, si ricostruire la complessità del percorso migrat orio nella sua ‘interezza’, e ricollegare pertanto chi arrivava con la propria società di origine, il qui con il là del loro peregrinare: “A scuola questo è possibile perché è uno spazio aperto dove provare a pronunciare il proprio discorso in prima persona e in mezzo agli altri, in un ambiente significativo di apprendimento, dove riannodare i fili, riordinare le tracce, esplorare i contorni e le radici della propria esperienza migratoria” (Triulzi e Carsetti 2007, 108). Al termine di ogni anno, i materiali raccolti diventavano libro di letture per gli studenti-migranti e forma di auto-riconoscimento per la comunità mista di studenti, volontari e ricercatori. I ‘libretti’ di Asinitas con le testimonianze vive, i prodotti artigianali e i disegni degli studenti raccolti nella collana “Percorsi”, segnavano il progressivo avanzamento nelle pratiche di educazione attiva e la prima raccolta di materiali di archivio che univano produzioni audiovisive e laboratori informatici sui temi della migrazione (www.asinitas.org/produzioni/).

Facevano parte di questi percorsi nuove aggregazioni di saperi e pratiche di interscambio culturale che, con il sostegno di Fondazioni bancarie (Monte dei Paschi di Siena) e private (AAMOD-Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, Fondazione lettera27) si concretizzarono in un progetto formativo denominato “Confini” che includeva, oltre all’insegnamento della lingua italiana, cerchi narrativi con ragazzi migranti realizzati in collaborazione con le scrittrici di origine somala Cristina Ali Farah e Igiaba Scego (Carsetti, Scego, Triulzi 2009), elaborazioni plastiche di micro-paesaggi e luoghi della migrazione miste a memorie di arrivo e di transito come nella Mostra Geografie extra-vaganti allestita presso la Città dell’Altra Economia a Roma nel giugno 2010 (Borella, Carsetti, Mammarella 2010), e soprattutto la produzione dei primi video partecipati (Il deserto e il mare, 2007; Come un uomo sulla terra, 2009; C.A.R.A. Italia, 2010; Una scuola italiana, 2011) che, condotti da Asinitas insieme a registi italiani e migranti, tracceranno il solco futuro di AMM come produttore e non solo raccoglitore di fonti audiovisive.

Immagini in movimento: la produzione filmica di AMM

Il 2012 apre la seconda fase dell’Archivio, trasformato in Associazione autonoma, produttrice e raccoglitrice di memorie e testimonianze audiovisive sulla migrazione, che nasce in stretta collaborazione con l’Archivio sonoro Franco Coggiola e gli operatori del Circolo Gianni Bosio presso la Casa della Memoria e della Storia del Comune di Roma. In questo periodo si annodano collaborazioni fruttuose da un lato con l’Ente universitario di origine,  l’Università di Napoli “L’Orientale” e con Istituti e Biblioteche romane (ICBSA-Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi, Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea, Biblioteche di Roma) dando avvio a una Rete di archivi e memorie migranti (RAMM), dall’altro con Fondazioni internazionali (OSF-Open Society Foundations), archivi consolidati (Archivio Franco Coggiola, AAMOD, Archivio storico Luce) e con le organizzazioni della società civile attive sul territorio a Napoli e Roma per avviare percorsi comuni e progetti di comunicazione e/o raccolta di fonti in ambito interculturale.

In questa fase l’Archivio aderisce al progetto di condivisione delle fonti coloniali Returning and Sharing Memories avviato da Paolo Bertella Farnetti all’Università di Modena e Reggio Emilia e si fa portatore presso altri Atenei e istituzioni culturali dell’apertura di un portale sulle fonti coloniali da condividere con gli studenti e gli studiosi dei paesi già sotto amministrazione italiana (Bertella Farnetti 2009).

Rientra in questa fase la produzione di documentari e video partecipativi (PV) che, sulla scia dell’antropologia condivisa di Jean Rouch (Grisolia 1988), condividono pratiche e forme dell’ “atto di rappresentazione tra un’istanza rappresentante e un’istanza rappresentata” (Moraldi 2013, 221-226), non solo spostando l’accento dal prodotto al processo ma insistendo nella direzione della piena promozione di autorialità della regia migrante (dalla scelta dei soggetti alla effettiva esecuzione dei lavori). Negli anni 2011-2013 l’Archivio produce tre film documentari diretti o co-diretti da registi migranti che vanno in questa direzione. Il primo, Soltanto il mare (2011), diretto da Dagmawi Yimer e Giulio Cederna, si sofferma sugli abitanti di Lampedusa visti attraverso la cinepresa di un migrante sbarcato alcuni anni prima da ‘clandestino’ e tornato sull’isola come regista. Il secondo, Benvenuti in Italia (2012), è un docu-film in cinque episodi girati da migranti provenienti da Afghanistan, Burkina Faso, Etiopia, Kurdistan e Somalia, coordinati da Renaud Personnaz, al termini di un seminario di formazione sulle modalità di auto-rappresentazione e di video partecipativo. Il terzo, Va’ Pensiero. Storie ambulanti (2013), opera prima di regia autonoma di Dagmawi Yimer, registra le reazioni delle vittime di due gravi attacchi razzisti avvenuti in Italia: il ferimento di Mohamed Ba, un attore e mediatore cult urale senegalese a Milano nel 2009, e l’uccisione in pieno giorno, a Firenze nel 2011, di due venditori ambulanti senegalesi e il ferimento grave di altri tre. Il progetto Va’ pensiero ha ricevuto nel 2011 il premio di produzione Gianandrea Mutti dando via, l’anno seguente, alla partecipazione dell’Archivio all’istituzione del Premio Mutti-AMM, il primo e unico premio in Italia dedicato al cinema migrante, organizzato in collaborazione con l’Associazione Amici di Giana e la Cineteca di Bologna e il sostegno di OSF e lettera27 (www.cinetecaidibologna.it /news_139).

I film di AMM si caratterizzano principalmente per la tendenza a rappresentare l’alterità attraverso l’auto-narrazione e a recepire lo sguardo dell’altro-interno alla società italiana. Sono film di denuncia ma anche di riflessione, a volte drammatica, a volte ironica, su realtà a contatto (e non solo a contrasto) nella vita quotidiana, a scuola, per strada, nei luoghi di frequenza dei migranti, i mercati, i centri di accoglienza e quelli di espulsione. Alla base c’è un racconto per immagini non solo dei e sui migranti e richiedenti asilo ma sull’Italia che cambia ed è vista attraverso gli occhi degli ‘stranieri tra noi’, e sulle pratiche di accoglienza, o di respingimento, del Paese nel suo complesso. Il film che ha dato inizio all’auto-narrazione dei migranti, e che ha portato il regista rifugiato dall’Etiopia Dagmawi Yimer a farsi portavoce dell’Archivio e dei suoi metodi, è stato Come un uomo sulla terra, un film co-diretto insieme a Andrea Segre e Riccardo Biadene nel 2009. Il film “racconta per mezzo di alcuni testimoni, il viaggio impossibile del migrante – che lui stesso [Dagmawi Yimer] anni addietro ha intrapreso – dall’Africa all’Europa. Egli si vede nel film interagire con i soggetti, fare da ‘mediatore interno’, da ‘guida’ nella comunità dei rifugiati; inoltre, è la sua voce fuori campo che introduce all’incontro con i migranti e guida lo sviluppo del film, come a sottolineare la necessità di dare valore testimoniale alle immagini” (Moraldi 2013, 232). Un cinema dunque che è ‘fonte’ di memoria e di testimonianza, ma anche moltiplicazione di voci e di sguardi sulla migrazione e sulla società che la ospita. Fanno parte della produzione di questo cinema-documento, il corto To whom it may concern (2012), un documentario del giornalista somalo Zakaria Mohammed Ali, sbarcato a Lampedusa nel 2008, che ritorna sull’isola quattro anni dopo alla ricerca delle foto e dei documenti che gli sono stati portati via al momento dell’arrivo insieme al suo nome e alla sua identità; l’audio-mappa di Mohammad Aman, oggi mediatore culturale a Lampedusa, che racconta il suo personale ‘ritorno’ sull’isola da uomo libero nell’estate del 2012 (Bandella 2013); e Grooving Lampedusa, dello stesso anno, un foto-racconto per immagini (Badagliacca 2013) che ripercorre con i protagonisti i luoghi del loro primo sbarco tra storia e memoria.

La produzione filmica dell’Archivio, oltre a essere disponibile in rete, viene diffusa secondo modalità di distribuzione civile inaugurate con il film Come un uomo sulla terra (Segre 2009, 119-126), e poi continuate con le produzioni successive, che prevedono ad ogni proiezione la presenza di migranti-testimoni che hanno partecipato al processo produttivo. I film sono consultabili in rete alla voce Immagini sul sito di AMM (www.archiviomemoriemigranti.net/produzioni/). La sezione Mappe del sito presenta invece il progetto “Geografie degli sguardi”, 200 segnalazioni e schede geo-referenziate relative della produzione filmica italiana nel settore delle migrazioni degli ultimi venti anni con particolare riferimento ai film che fuoriescono dai circuiti commerciali e riflettono criticamente sulla condizione migrante con modalità di produzione partecipate da registi, scenografi o scrittori migranti.

Fondi e documenti conservati

L’Archivio conserva copie cartacee e digitali relative a testi audio e video di documentazione e rappresentazione del fenomeno migratorio in Italia, con particolare riguardo alle narrazioni, memorie e testimonianze condivise e partecipate dai migranti stessi. I fondi cartacei dell’Archivio sono in fase di riordino e sono soggetti a restrizioni a garanzia della privacy e riservatezza degli autori. I materiali accessibili in rete sono consultabili sul sito di AMM. Il fondo documentario di AMM include testimonianze in forma orale e scritta, sotto forma di colloqui o interviste (entretiens), narrazioni, racconti: i documenti cartacei raccolti nel fondo sono eclettici ed eterogenei, nascono dalla volontà di testimoniare, dal bisogno di raccontare e di raccontarsi, di far conoscere il punto di vista dei migranti, il loro vissuto, l’espressione della propria creatività, l’acquisizione di una nuova coscienza civile e politica, la voglia di dire in una lingua nuova, il desiderio di comunicare e condividere, e altro ancora. Individuali e partecipate, le scritture e narrazioni migranti di AMM diventano uno strumento per darsi un nome e dare un nome alle cose nell’Italia delle migrazioni e alla loro rappresentazione spesso appiattita dai media e dalla politica. Per questo AMM non segue le categorie di catalogazione tipica degli archivi. Con le sue attività e le sue pratiche, somiglia metaforicamente più a un taccuino che a un armadio, è il quaderno che accoglie le prime parole, i primi tentativi di auto-narrazione, lo spazio in cui prendono forma racconti autobiografici che non solo mettono per iscritto i ricordi, ma che li rendono possibili, narrabili, condivisibili.

I fondi cartacei dell’Archivio descritti sul sito AMM sotto la voce testi è suddiviso nelle sezioni interviste, testimonianze, audio-documenti e saggi e ricerche.

Interviste. La sezione contiene la documentazione relativa a incontri, conversazioni, interviste, cerchi narrativi o colloqui tenuti, svolti o organizzati dai volontari, ricercatori, e soci di AMM. Rientrano in questa sezione scritture creative o autobiografiche di singoli migranti o scrittori che hanno partecipato a seminari, progetti e audizioni (Scego 2009). Rientrano altresì i materiali di backstage di alcune produzioni filmiche (Come un uomo sulla terra, C.A.R.A. Italia, Benvenuti in Italia) con i testi integrali dei documenti di produzione, i soggetti, le interviste di sfondo. Di ogni incontro, colloquio e intervista vengono presentate schede di identificazione e brevi estratti scritti e, quando disponibili, audio. Le interviste includono colloqui e racconti di viaggio e dell’arrivo svolti in gruppi di ascolto con o tra migranti provenienti dalla stessa area (es. Giovani Etiopia, 1-8; Migranti e spazi pubblici, 1-2; Cerchio narrativo con giovani somali, 1-9), interviste lunghe con combattenti eritrei (GT, 1-3) a volte scritti in lingue locali (amarico, tigrino, somalo) da parte di migranti provenienti dalle rispettive regioni. Vista la complessità di problemi che circondano le testimonianze dei migranti, e la necessità di condividere i testi prima di poterli diffondere, non sorprendano i tempi lunghi di produzione di queste ‘traduzioni’ dal vivo. Alcuni di questi scritti pertanto sono tuttora in corso di editing e di condivisione con gli autori. I testi integrali delle singole interviste o colloqui sono consultabili secondo modalità concordate con gli autori e saranno resi disponibili al termine dell’attuale riordino.

Testimonianze. La sezione ‘testimonianze’ riporta le auto-rappresentazioni, prevalentemente scritte – ma spesso corredate di immagini, video, audio – di soggetti migranti che intendono condividere le loro riflessioni sotto forma di diari, racconti, scritture, parole, segni o immagini, sul proprio percorso migratorio, le sue caratteristiche, i suoi lasciti, per intessere e condividere con altri gli intrecci, gli snodi e gli attraversamenti dei propri percorsi di vita individuali e collettivi. Tra le testimonianze più rappresentative vi è la cronaca dettagliata del viaggio Addis Abeba-Lampedusa di Dagmawi Yimer e del gruppo di giovani arrivati nel 2006 tutti provenienti dal quartiere di Qirqos della capitale etiopica (Yimer 2011), un lungo estratto di intervista a Gabriel Tzeggai, un combattente eritreo rifugiato in Italia, sui giovani eritrei in fuga dal loro paese (Tzeggai 2011), oppure il diario di viaggio Mogadiscio-Lampedusa del giornalista somalo Zakaria Mohamed Ali o il glossario di ‘parole narrate’ di Abubakar Mukhtar Jokof, entrambi ancora in fase di scrittura, o la lunga intervista accompagnata da scritti in lingua tigrina dell’ex-militare eritreo, Mahamed Aman, ora operatore di Save the Children sull’Isola, rilasciata all’indomani del suo arrivo in Italia, tutt’ora in fase di editing.

Foto 1 Zakaria Mohamed Ali, Scrittura sul molo di Lampedusa per il corto To whom it may concern, Lampedusa 2012 (©Zakaria Mohamed Ali)

Audio documenti. La sezione raccoglie documenti audio risultanti da accordi, incontri, inchieste, svolti da volontari, ricercatori, giornalisti, appartenenti a AMM o a altri soggetti della rete degli archivi e memorie migranti (RAMM), tesi a rappresentare, ricostruire e documentare vicende, eventi e processi relativi alla condizione migrante in Italia e all’estero. Gli audio-documenti testimoniano l’importanza di raccogliere la produzione audio diffusa nel paese, dalle inchieste di Audiodoc sui progetti di migrazioni interrotti o respinti (Herzog 2011) o sulle memorie dei prigionieri dei campi di internamento italiani in Etiopia (Herzog 2012), le trasmissioni dell’Agenzia Amisnet di radio locali e dei programmi radio di Passepartù riservato ai migranti (Coronati e Melot 2011), o le produzioni di musica migrante della collana Roma Forestiera sui nuovi suoni della città e i loro protagonisti curata dal Circolo Gianni Bosio (Istaraniyeri 2012).

Saggi e ricerche. La sezione è dedicata alla riflessione critica e alle ricerche svolte sul lavoro e le attività di AMM, al suo sviluppo nel tempo, i suoi cambiamenti, la sua storia. È aperta a contributi, saggi, interventi, ma anche interpretazioni e dibattiti sul lavoro di testimonianza, di memoria e di auto-rappresentazione dei soggetti migranti in Italia, così come ai risultati di ricerche e indagini sui processi migratori e la loro rappresentazione nella società contemporanea in Italia e all’estero. In questa serie, accessibile sul sito, l’Archivio intende riflettere criticamente sul suo operato, e recepire contributi esterni, sull’opera di conservazione, archiviazione e diffusione di materiali ‘sensibili quali quelli provenienti da rifugiati e richiedenti asilo, soggetti da un lato alla necessaria azione per la tutela del diritto alla riservatezza di ogni soggetto a rischio, e dall’altro alla non minore necessità di comunicare racconti e immagini per ampliare gli orizzonti di conoscenza e sensibilità di un pubblico spesso disattento e disinformato sulla questione migratoria.

Reti, progetti e laboratori di ricerca

Tra i progetti di rete e i laboratori di ricerca sostenuti dall’Archivio sono da evidenziare in particolare le connessioni transculturali e transnazionali che animano alcune recenti iniziative: l’azione avviata dall’Archivio a favore del Museo diffuso delle migrazioni sull’isola di Lampedusa; l’attività di rete condotta insieme all’Istituto Centrale dei Beni Sonori e Audiovisivi (ICBSA) per reperire la documentazione sulla multiculturalità in atto nel paese; e il progetto di condivisione delle fonti coloniali con gli studiosi e le istituzioni culturali dei paesi già oggetto di amministrazione italiana. I tre progetti, tuttora in fase di elaborazione, riflettono ognuno a loro modo, il tentativo di condividere e ampliare ‘l‘aderenza’ delle fonti audiovisive alla complessità di interpretazione del fenomeno migratorio e della postcolonia nella società contemporanea (De Luna 2004, 110) di cui le auto-narrazioni dei migranti forniscono tracce indispensabili.

Il cantiere di Lampedusa. A Lampedusa, luogo di arrivi e partenze, di occupazioni e di esilii, AMM mantiene dal 2011 un ‘cantiere aperto’ che sostiene azioni di ricerca e avvio di reti a favore dell’isola considerata luogo simbolico e laboratorio di riflessione non solo sui movimenti migratori in corso e sulle regole che tuttora li governano, ma sugli immaginari collettivi che determinano la rappresentazione sulla ‘alterità’ delle ‘genti in cammino’ in un paese come l’Italia con politiche di accoglienza spesso ‘sviate’, in eccesso o difetto, rispetto a quelle, già ristrettive, concordate all’interno della UE. Il ‘cantiere Lampedusa’, iniziato a partire dal film Soltanto il mare girato nel 2010-11 da Yimer e Cederna sull’isola, prevede la raccolta di memorie e testimonianze da parte di migranti sbarcati a Lampedusa e delle loro successive esperienze ‘di ritorno’ sull’isola come persone libere (v. sopra), la collaborazione al progetto di apertura di un Museo diffuso delle migrazioni, e il supporto al Festival estivo di Lampedusa per la parte relativa al cinema migrante. La progettazione del Museo, tuttora in fase di gestazione, avviata in collegamento con l’Associazione Isole (www.associazioneisole.org) e con il Comune di Lampedusa e Linosa, ha preso vita dalla raccolta nella discarica dell’isola da parte dei volontari di Askavusa, un collettivo locale, di reperti, foto e documenti lasciati o tolti ai migranti e abbandonati sul posto (Sferlazzo 2013). Una prima raccolta di testi inter-religiosi e di testimonianze orali di migranti sbarcati a Lampedusa è attualmente in corso di pubblicazione presso l’Editrice Morcelliana (Cacciatore, Mosca Mondadori e Triulzi, in stampa).

Come già fu con i detriti dei Magazzini occupati di Tiburtina che servirono a formulare la prima idea di Archivio di ‘memorie migranti’, gli oggetti d’uso e di affezione dei migranti sbarcati a Lampedusa, insieme ai loro documenti, scritti e testi sacri, sono un formidabile richiamo alla necessità di non disperdere un tale patrimonio pubblico (Gatta e Muzzopappa 2012). Una quarantina di questi reperti sono stati affidati alle cure del Laboratorio di restauro della Biblioteca centrale della regione siciliana a Palermo e temporaneamente esposti in una piccola mostra di ‘oggetti migranti’ allestita in occasione del Festival di Lampedusa nell’estate 2013. All’interno del Festival (di ‘storie, incontri, migrazioni e culture che appartengono al Mediterraneo’) AMM sostiene dal 2011 la sezione dedicata al Cinema delle migrazioni attraverso il sostegno a un premio per il miglior film e la partecipazione di autori e registi di origine migrant e alla giuria coordinata dal regista etiopico Dagmawi Yimer.

La rete di archivi e memorie migranti-RAMM. La Rete, istituita attraverso una convenzione di collaborazione e di scambio stilata con il Circolo Bosio, l’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi del Ministero dei Beni Culturali e l’Università di Napoli “L’Orientale” nel dicembre 2012, è parte di una costruzione di reti tra organismi universitari e culturali di base per l’inserimento di dati e testi audio e video relativi ai processi di multiculturalità in atto nel paese, affinché le memorie ‘altre’ conservate in Italia vengono incluse e registrate nella ‘memoria’ pubblica della nazione. Obiettivo della Rete è collegare e mettere in rete realtà affini che si sono affermate in Italia negli ultimi anni spesso collaborando o in associazione con AMM: dal progetto “Storie migranti” portato avanti da Federica Sossi presso l’Università di Bergamo (www.storiemigranti.org) ai materiali raccolti da Gabriele Del Grande per “Fortress Europe” (fortresseurope.blogspot.com) dai documenti audio di “Passepartù” trasmessi dalle reti radiofoniche collegate all’Agenzia Amisnet (www.amisnet.it) alle testimonianze di internati e profughi raccolte sul terreno da Roman Herzog per Audiodoc (www.audiodoc.it). Volontà della rete è raccogliere, mettere insieme e dare senso alla memoria complessiva del fenomeno migratorio, dai frammenti di vite disperse o travolte dagli sbarchi alle varie forme di creatività autobiografica dei migranti e contribuire alla conservazione e diffusione delle immagini in movimento impresse nei telefoni cellulari e nelle pellicole di volontari e filmmaker migranti.

Attraverso la rete, una volta ultimata, e una serie di postazioni di lavoro dedicate, ogni utente potrà avere accesso ai dati condivisi dai singoli istituti, centri e associazioni partecipanti. La Convenzione RAMM è aperta a successive adesioni; le domande di adesione possono essere inoltrate a uno degli Istituti fondatori; il testo della Convenzione è accessibile sui rispettivi siti.

Il progetto Returning and Sharing Memories. In collegamento con la rete RAMM è il tentativo in parallelo di mettere a disposizione di studenti e studiosi dei paesi che in passato sono stati soggetti all’amministrazione di organi di governo dell’Italia (e cioè Albania, Eritrea, Etiopia, Libia, Somalia, Isole del Dodecanneso, e Tienjin in Cina) un portale unico condiviso dove ogni partecipante al progetto, indipendentemente da dove si trovi, possa avere accesso in rete a informazioni, studi e dati audio e video che saranno riversati dai singoli istituti partecipanti. Il progetto “Returning and Sharing Memories (RSM)”, avviato nel 2008 dalla Università di Modena e Reggio Emilia con il concorso dell’associazionismo locale attraverso un semplice ‘call for memory’ rivolto alle famiglie di coloro che avevano soggiornato o vissuto in Etiopia, ha dato frutti insperati portando alla luce carte, documenti, testimonianze e materiale fotografico che, una volta digitalizzato, ha fatto parte dell’iniziale raccolta ed è stato oggetto di donazione a istituzioni culturali in Etiopia (Bertella Farnetti 2013, 7-11). Al progetto di rete, esteso nel 2012 alle Università di Napoli “L’Orientale” e di Addis Abeba, hanno temporaneamente aderito l’Università di RomaTre e l’Archivio Storico LUCE. Sono in corso adesioni da parte albanese ed eritrea. Una volta perfezionato l’atto convenzionale e le modalità di adesione, il portale della rete RSM potrà ospitare in ingresso i materiali provenienti dalle istituzioni e archivi aderenti e darà ai ricercatori italiani e stranieri accesso alle fonti sui periodi traumatici di storia ‘comune’.

L’insieme di iniziative di raccolta di documentazione nel settore degli audiovisivi permetterà di approfondire il lungo e complesso interfaccia della società italiana con l’alterità ‘esterna’ che ormai – da circa un ventennio, per quello che riguarda l’immigrazione, ma assai di più se si includono emigrazione e espansione coloniale – vive, produce e si confronta con la società italiana e con le sue istituzioni continuando ad essere percepita da entrambe come straniera ed estranea per diritto e provenienza di origine. Di tutto ciò l’Archivio delle memorie migranti, attraverso i suoi video, racconti e testimonianze ‘migranti’ vuole lasciare traccia ricordando alla società civile e alle istituzioni dello Stato l’enorme lavoro di interazione culturale e di condivisione che ancora aspetta, e deve precedere, il sentimento di appartenenza comune. Su questi temi e prospettive AMM intende essere presente nelle scuole, nelle Università e in eventi pubblici attraverso proiezioni e dibattiti, seminari di riflessione, e incontri sulla memoria che coinvolgano e vedano partecipi migranti, rifugiati e immigrati di seconda generazione nati e cresciuti in Italia ma non ancora riconosciuti come cittadini.

Biografia

Alessandro Triulzi ha insegnato Storia dell’Africa Subsahariana e coordinato il Dottorato di ricerca di Africanistica presso l’Università di Napoli “L’Orientale” (1995-2011). Ha svolto ricerche sul terreno in Ghana, Etiopia e Sudafrica. Dal 2008 si interessa di tematiche relative all’immigrazione. È tra i fondatori dell’Archivio delle memorie migranti. Recenti pubblicazioni: Dopo la violenza. Costruzioni di memoria nel mondo contemporaneo (cur., L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2005); Il ritorno della memoria coloniale (dossier “afriche e orienti” 1, 2007). Come un uomo sulla terra (DVD + volume dall’omonimo film, con Marco Carsetti cur., L’Infinito Ed., Roma 2009); Long Journeys. African Migrants on the Road (con Robert McKenzie, cur., Brill, Leiden 2013).

Bibliografia

Badagliacca M.
2013 Grooving Lampedusa. Un foto-racconto, in
www.archiviomemoriemigranti.net

Bandella M. (cur.)
2013 “Ritorno a Lampedusa di Mahamed Aman”, foto di M. Badagliacca, in
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Bertella Farnetti P.
2009 Returning and Sharing Memories. Genesi e sviluppo di un progetto per l’uso del “passato comune” italo-etiope (1935-1941), Materiali di discussione, Università di Modena e Reggio Emilia.

Bertella Farnetti P, Mignemi A., Triulzi A. (cur.)
2013 L’Impero nel cassetto. L’Italia coloniale tra album privati e archivi pubblici, Milano, Mimesis.

Borella G., Carsetti M., Mammarella C. (cur.)
2010 Geografie extravaganti. Luoghi e percorsi della migrazione, Roma, Asinitas.

Carsetti M.
2009 Il tempo dell’arrivo, “Lo straniero” n. 107, maggio.

Coronati M., Melot E. (cur.)
2011 “Attraverso il deserto e il mare”, Amisnet & Active Vision

De Luna G.
2004 La passione e la ragione. Il mestiere dello storico contemporaneo, Milano, Bruno Mondadori.

Gatta G., Muzzopappa G.
2012 Middle Passages. Musealizzazione e soggettività a Bristol e Lampedusa, in “Estetica. Studi e ricerche”, n. 1.

Grisolia R.
1988 Jean Rouch e il cinema del contatto, Roma, Bulzoni.

Herzog R.
2011 “Non te la prendere se non ce l’hai fatta”, Roma, Audiodoc, in collaborazione con Asinitas/AMM, in
www.archiviomemoriemigranti.net

2012 “Stavo cercando le corna e la coda ma non le avevano”. Guerra, deportazione e campi durante l’impero fascista in Etiopia, CD, Roma, Audiodoc.

Moraldi S.
2013 Decolonizzazione, de-gerarchizzazione, condivisione. Pratiche e forme di video partecipativo in Italia tra etnografia e partecipazione, in De Franceschi L. (cur.) Per una controstoria postcoloniale del cinema italiano, Roma, Aracne ed.

Cacciatore A., Mosca Mondadori A., Triulzi A.
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2012 Istaraniyeri. Musiche migranti a Roma, CD, Roma, Circolo G. Bosio.

Sayad A
1999 La double absence, Paris, Seuil, trad. it. La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Milano, Raffaele Cortina.

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2009 Ascoltare, “Lo straniero” n. 107, maggio.

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2009 “La distribuzione civile e le testimonianze di base”, in Carsetti M., Triulzi A. (cur.) Come un uomo sulla terra (Dvd + libro), Castel Gandolfo, Infinito ed.

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2012 “Con gli oggetti”, in www.askavusa.wordpress.com/conglioggetti

Triulzi A., Carsetti M.
2007 Ascoltare voci migranti: riflessioni intorno alle memorie di rifugiati dal Corno d’Africa, “afriche e orienti” n. 1.

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2009 Il cerchio e la scuola, “Lo straniero” n. 107, maggio.

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2013 Listening and archiving migrant voices. How it all began, in Engel U., Ramos M.J. (eds) African Dynamics in a Multipolar World, Leiden, Brill, pp. 51-66.

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2011 Il sapore della libertà, in Chelati Dirar U., Palma S., Triulzi A., Volterra A. (cur.) Colonia e postcolonia come spazi diasporici. Attraversamenti di memorie, identità e confini nel Corno d’Africa, Roma, Carocci, pp. 273-297.

Yimer, D.
2011 Da Addis Abeba a Lampedusa. Cronaca di un viaggio, in Chelati Dirar U., Palma S., Triulzi A., Volterra A. (cur.) Colonia e postcolonia come spazi diasporici. Attraversamenti di memorie, identità e confini nel Corno d’Africa, Roma, Carocci, pp. 335-352.

Siti consigliati

Associazione Archivio delle memorie migranti
www.archiviomemoriemigrant i.net
www.va-pensiero.org

Associazione/Collettivo Askavusa
askavusa.blogspot .com
askavusa.wordpress.com

Associazione Asinitas Onlus, Centri interculturali per migranti
www.asinit as.org

Associazione Isole, Palermo
www.associazioneisole.org
www.progettoisole.org

Associazione audio documentaristi
www.audiodoc.it

Memorie coloniali. Returning and Sharing Memories
www.memoriecoloniali.org

Amisnet, agenzia radiofonica indipendente per l’informazione sociale
Amisnet.org

Produzioni AMM

In questa sezione sono elencati i contributi audiovisivi nati da progetti di AMM e realizzati da o con il contributo di filmmaker migranti.

Per ognuno è possibile consultare l’abstract, il progetto dai quali sono nati e il trailer.

Nessuna delle presenti opere è in commercio, tuttavia su richiesta ad AMM è possibile organizzare proiezioni pubbliche e collettive oppure consultarli individualmente. Le associazioni interessate alle proiezioni possono inoltre invitare gli autori o i protagonisti delle storie raccontate, affinché la visione delle opere possa essere arricchita da uno scambio più diretto tra autori e pubblico.

 

Cinque cortometraggi scritti, girati e diretti da ragazze e ragazzi immigrati in Italia. Un mosaico di piccole storie accomunate dalla ricerca di uno sguardo interno sulla condizione migrante e, insieme, un ritratto composito dell’Italia e del suo sistema di accoglienza.
Dagmawi Yimer ritorna a Lampedusa con una videocamera e un regolare documento d’identità per conoscere e filmare ciò che allora aveva soltanto potuto immaginare attraverso le grate del centro dove era recluso. Il film è un omaggio all’isola e ai suoi abitanti.
Dopo Soltanto il mare, un altro “Diario del ritorno a Lampedusa” firmato questa volta dal giovane giornalista somalo Zakaria Mohamed Ali. Un’occasione per rievocare la sua permanenza nel CIE e andare alla ricerca delle memorie perdute.
Mahamed Aman e Zakaria Ali tornano a Lampedusa per la prima volta dopo essere sbarcati nell’isola nel 2008. L’autore Mario Badagliacca ripercorre insieme ai protagonisti i luoghi del loro primo sbarco, tra racconto e memoria.
Va’ pensiero è il racconto incrociato di due aggressioni razziste a Milano e Firenze e della complicata ricomposizione dei frammenti di vita dei sopravvissuti. Le storie dei tre protagonisti s’incrociano nel racconto delle loro drammatiche esperienze
Dopo il drammatico naufragio del 3 ottobre 2013, in cui hanno perso la vita 368 migranti dal Corno d’Africa, Zakaria Mohamed Ali torna a Lampedusa per ascoltare i racconti di alcuni superstiti incredibilmente ancora trattenuti nel CIE a un mese e 15 giorni dalla tragedia.

Cinema e migrazioni

Sono tantissimi i film che negli ultimi venti anni hanno riportato al centro del campo visivo le vicende dei migranti in Italia. In questa sezione è possibile rintracciare oltre duecento titoli di film girati in tutta Italia a cominciare dai primi anni novanta: lungometraggi, cortometraggi, documentari, reportage, film d’autore. Questa mappatura di lavori che riteniamo interessanti, e che spesso non è possibile trovare nei circuiti di distribuzione principali, risponde all’esigenza di offrire una visione d’insieme della produzione cinematografica che tratta il tema delle migrazioni in Italia.

È possibile effettuare una ricerca dei titoli tramite il sistema dei tag (ad esempio per temi: Roma, Eritrea, Etiopia, Colonialismo, Seconde Generazioni, ecc… per anno di produzione o per autore).

Invitiamo a segnalarci eventuali novità o mancanze.

Per ogni richiesta relativa ai film – visione, consultazione, approfondimento – è necessario rivolgersi direttamente ai produttori o agli autori delle opere. Per le produzioni di AMM scrivete direttamente a noi.

(Sezione in fase di aggiornamento)

 

2017

Sea Sorrow – Il dolore del mare
Vanessa Redgrave
Gran Bretagna – 2017 – 75′

L’altro volto della speranza
Aki Kaurismäki
Helsinki – 2017 – 98′

La consegna – The Delivery
Suranga Deshapriya Katugampala
Lessinia (VR) – 2017 – 15′

L’ordine delle cose
Andrea Segre
Roma, Sicilia, Libia – 2017 – 112′

Io sono qui
Gabriele Gravagna
Palermo – 2017 – 92′

Figli Maestri
Simone Bucri
Acilia (Roma) – 2017 – 16′

Human Flow
Ai Weiwei
2017 – 140′

Pagine nascoste
Sabrina Varani
Italia, Etiopia – 2017 – 67′

Talien
Elia Moutamid
Italia, Marocco – 2017 – 87′

 

2016

C’è un posto per me nel mondo
Nene Grignaffini, Francesco Conversano
Brescia, Moldavia – 2016 – 56′

Fuocoammare
Francesco Rosi
Lampedusa – 2016 – 108′

If I Close my Eyes
Francesca Mannocchi, Alessio Romenzi
Libano – 2016 – 52′

Per un figlio
Suranga Deshapriya Katugampala
Nord Italia – 2016 – 74′

Radio Ghetto Relay
Alessandra Ferrini
Rignano -2016 – 15′ 24”

Se una notte di mezza estate i Bottom Brothers
Adriano Foraggio
Napoli – 2016 – 86′

The Black Sheep
Antonio Martino
Libia – 2016 – 70′

 

2015

Dustur
Marco Santarelli
Bologna – 2015 – 74′

If Only I Were That Warrior
Valerio Ciriaci
Affile (RM), Roma, New York (USA), New Jersey, Addis Abeba, Etiopia – 2015 – 72′

Loro di Napoli
Pierfrancesco Li Donni
Napoli – 2015 – 75′

Luoghi comuni
Angelo Loy
Roma – 2015 – 75′

Flotel Europa
Vladimir Tomić
Copenaghen – 2015 – 70′

La mer ne nous accroche pas
Omar Ba, Malik Nejmi
Tangeri – 2015 – 55′

Negotiating Amnesia
Alessandra Ferrini
Etiopia – 2015 – 29′

 

2014

Asmarina
Alan Maglio, Medhin Paolos
Milano, Bologna – 2014 – 69′

Io sto con la sposa
Gabriele Del Grande, Antonio Augugliaro, Khaled Soliman Al Nassiry
Europa – 2014 – 98′

Napps – Memoire of An Invisible Man
Tami Liberman
Berlino – 2014 – 30′

Samira
Nicola Mai
Marsiglia – 2014 – 28′

L’Abri – The Shelter
Fernand Melgar
Losanna – 2014 – 101′

Sponde. Nel sicuro sole del nord
Irene Dionisio
Zarzis, Tunisia – Lampedusa (Tp) – 2014 – 55′

Cittadini del nulla
Razi Mohebi
Mori (Tn) – 2014 – 52′

La neve, la prima volta
Valerio Cataldi
Lampedusa (Tp), Olanda, Svezia, Norvegia – 2014 – 54,13′

Non morire fino a primavera
Camilla Ruggiero
Roma – 2014 – 32′

Il futuro è troppo grande
Giusy Buccheri, Michele Citoni
Roma, Shanghai, Qingtian – 2014 – 80′

Quando Yousef si mise in cammino
Valerio Cataldi
Grecia Macedonia Serbia Ungheria – 2015 – 57′

Terra di transito
Paolo Martino
Roma – 2014 – 52’

 

2013

Campososta
Stefano Liberti, Enrico Parenti
Roma, Campo di via Salone – 2013 – 8′

Ciè Business
Marco Bova
Modena, Roma, Trapani – 2013 – 12′

EU 013 – L’ultima frontiera
Alessio Genovese
Ancona, Bari, Fiumicino (RM), Ponte Galeria (RM), Trapani – 2013 – 62′

L’escale
Kaveh Bakhtiari
Atene – 2013 – 100′

Grooving Lampedusa
Mario Badagliacca
Lampedusa (Ag) – 2013 – 5′

La prima neve
Andrea Segre
Trentino – 2013 – 105′

La polvere di Kabul
Morteza Kaleghi
Iran, Grecia, Roma – 2013 – 12′

Mare Madre
Ernani Paterra
Camigliatello Silano (Cs) – 2013 –  10′

Maschera mia quanto mi costi
Mohamed Kenawi
Roma – 2013 – 53′

Nuove cittadine
Sara Zavarise
Roma – 2013 – 8’

Ponte Galera
Marco Casciani, Maurizio Tafuro
Ponte Galeria (Rm) – 2013 – 63′

Rosarno
Greta De Lazzaris
Rosarno (Rc) – 2013 – ’70

Sanperè! – Venisse il fulmine
Francesca Frigo
Cuneo – 2013 – 70′

Schiavi – Le rotte di nuove forme di sfruttamento
Stefano Mencherini
Lecce – 2013 – 62′

To whom it may concern
Mohamed Zakaria Ali
Lampedusa (Ag) – 2013 – 16′

Un core dentro stazione Termini
Samuel Cirpaci
Roma – 2013 – 18′

Va’ pensiero. Storie ambulanti
Dagmawi Yimer
Firenze, Milano, Roma – 2013 – 55′

Italeñas
David Chierchini, Matteo Keffer, Davide Morandini
Genova – 2013 – 6′

 

2012

To work – A lavoro
Desislava Stoichkova
Roma – 2012 – 3’

Alì ha gli occhi azzurri
Claudio Giovannesi
Ostia (Rm) – 2012 – 100′

Anija (La nave)
Roland Sejko
Puglia – 2012 – 83′

Arcipelaghi
Martin Errichiello, Gabriele Sossella
Napoli – 2012 – 19′

Aula 3 – Storie di rifugiati politici‬
Silvia Perra
Cagliari – 2012 – 45′

Bello essere Habesha
Enrico Turli, Ines Vieira, Akio Takemoto
Bologna – 2012 – 30′

Benvenuti in Italia
Aluk Amiri, Hamed Dera, Hevi Dilara, Zakaria Mohamed Ali, Dagmawi Yimer
Venezia, Milano, Roma, Ercolano, Napoli – 2012 – 60′

Bilal
Havi Dilara
Roma – 2012 – 10’

Caminante
Franco Di Martino, Giuseppe Portuesi, Francesco Valvo
Noto (Sr) – 2012 – 80′

Centro Campista
Mahamady Dera
Roma – 2012 – 9’

Friziorat
Dagmawi Yimer
Roma – 2012 – 13’

GeNEWration
Amin Nour, Pietro Tamaro
Roma – 2012 – 12’16”

Grazie per tutto Signor Presidente
Bennati Matteo
Castiglione delle Stiviere (Mn) – 2012 – 49′

Il santo nero
Antonio Bellia
Agrigento – 2012 – 75′

In nome del popolo italiano
Gabriele Del Grande, Stefano Liberti
Ponte Galeria (Rm) – 2012 – 7′

Inshallah
Riccardo Tappo
Ferentillo (Tr) – 2012 – 31′

Just About My Fingers – Storie di confini e impronte digitali
Paolo Martino
Turchia, Grecia, Italia – 2012 – 40′

L’attesa
Zakaria Mohamed Ali
Roma – 2012 – 11′

La fortuna mi salverà
Alexandra D’Onofrio
Torino – 2012 – 18′

La nave dolce
Daniele Vicari
Albania, Bari – 2012 – 90′

La palestra
Francesco Calandra
Pescara – 2012 – 70′

La quarta via: Mogadiscio, Italia
Simone Brioni, Graziano Chiscuzzu, Ermanno Guida
Pavia – 2012 – 37′

Lampedusa-Parigi: diario di viaggio
Emiliano Pappacena
Lampedusa (Ag), Parigi – 2012 – 52′

Le perle di ritorno. Odissea di un vetraio africano
Franco Basaglia
Venezia – 2012 – 62′

L’amore ai tempi della frontiera
Alexandra D’Onofrio
Tunisia – Italia – 2012 – 20′

Mamma rom
Antonella Cristofaro, Vincenzo Valentino
Roma – 2012 – 43′

Mare chiuso
Stefano Liberti, Andrea Segre
Mar Mediterraneo, Shousha (Tunisia) – 2012 – 60′

Mare deserto
Emiliano Bos, Paul Nicol
Libia, Italia – 2012 – 54′

Memorie uditive
Adriano Foraggio
Palermo – 2012 – 16′

Mineo Housing
Cinzia Castanìa
Mineo (Ct) – 2012 – 59′

Papà non torna più
Alexandra D’Onofrio
Casablanca, Marocco – 2012 – 15′

Piccola terra
Michele Trentini
Valstagna, Canale di Brenta, Valsugana (Vi) – 2012 – 54′

Roma arrota
Aluk Amiri
Roma – 2012 – 9′

Sicilia Sama Diwaan – La Sicilia è la mia casa
Djibril Kebe, Marzia Mete, Roberto Scarpetta
Palermo, Catania, Porticello (Pa) – 2012 – 58′

Studenti in mezzo come me
Matteo Bennati
Castiglione delle Stiviere (Mn) – 2012 – 54′

Zingarò, una sartoria Rom
Marilisa Piga, Nicoletta Nessler, Nicola Contini
Carbonia (CI) – 2012 – 50′

 

2011

Katada Ayti (I Soldi di Mia Madre)
Suranga Deshapriya Katugampala
Wennappuwa (Sri Lanka) – 2011 – 11’48”

18 Ius soli
Fred Kudjo Kuwornu
Bologna, Roma, Napoli – 2011 – 50′

A Chjàna
Jonas Carpignano
Rosarno (RC) – 2011 – 19′

Aicha è tornata
Juan Martin Baigorria, Lisa Tormena
Castello di Serravalle (Bo), Torino – 2011 – 35′

Altra Europa
Rossella Schillaci
Torino – 2011 – 75′

Aulò
Simone Brioni, Graziano Chiscuzzu, Ermanno Guida
Roma – 2011 – 41′

Caramadre
Matteo Pianezzi
Mazara del Vallo (Tp) – 2011 – 6′

Dalla testa al cielo
Debora Scaperrotta
Bolzano – 2011 – 53′

Di tessuti e di altre storie
Teresa Paoli
Prato – 2011 – 53′

Ferrhotel
Mariangela Barbanente
Bari – 2011 – 73′

Good buy Roma
Gaetano Crivaro, Margherita Pisano
Roma – 2011 – 50′

Harraguantanamo
Ilyess ben Chouikha, Giulia Bondi
Lampedusa (Ag), Trapani – 2011 – 5′

I nostri anni migliori
Matteo Calore, Stefano Collizzolli
Manduria (Ta), Mineo (Ct), Palazzo San Gervasio (Pz) – 2011 – 46′

Il debito del mare
Adil Tanani
Torino – 2011 – 15′

Il viaggio di Mohammed
Web doc interattivo, sviluppo del film Dalla testa al cielo
Debora Scaperrotta
Settat (Marocco); Bolzano – 2011

Immaginario Rom
Domenico Distilo
Venezia, Budapest – 2011 – 42′

Invito a Cena‬ – ‪ Il Lazio incontra il Kurdistan turco‬
Angelo Bozzolini
Roma – 2011

Io sono – Storie di schiavitù
Barbara Cupisti
Crotone, Napoli, Roma – 2011 – 63′

Isola, là dove si parla la lingua di Bacco
Patricia Boillat, Elena Gugliuzza
Milano, quartiere Isola – 2011 – 108′

La-Bas. Educazione criminale
Guido Lombardi
Castel Volturno (Ce) – 2011 – 100′

Life in Italy is Ok. Emergency Programma Italia
Gianfranco Marino
Palermo, Marghera (Ve) – 2011 – 38′

L’arrivo di Wang
Antonio Manetti, Marco Manetti
Torino – 2011 – 80′

L’uomo nero‬
Jessica Di Benedetto
Abruzzo – 2011 – 45′

Mama illegal
Ed Moschitz
Austria, Italia, Moldavia – 2011 – 95′

Mohamed e il pescatore
Marco Leopardi
Lampedusa (Tp), Parigi – 2011 – 52′

Next stop Lampedusa
Nicola Angrisano
Lampedusa (Tp) – 2011 – 33′

Non è un paese per neri
Luca Romano, Francesco Amodeo, Armando Andria e Mario Leombruno
Castel Volturno (Ce) – 2011 – 50′

Recinti. Manduria 2011
Andrea Gadaleta Caldarola
Lampedusa (Ag), Manduria (Ta), Ventimiglia (Im) – 2011 – 40′

Schiavi
Giuseppe Laganà
Foggia, Rosarno (RC) – 2011 – 52′

Soltanto il mare
Dagmawi Yimer, Giulio Cederna, Fabrizio Barraco
Lampedusa (Ag) – 2011 – 49′

Sono qui perché
I ragazzi e gli insegnanti della scuola primaria e secondaria dell’Istituto Comprensivo Statale di Vimodrone, nel corso degli anni scolastici 2009-11
Milano – 2011

Storie di Libertà
Paolo Inno, Riccardo Specchia
Manduria (Ta) – 2011 – 15′

Terraferma
Emanuele Crialese
Italia, Francia – 2011 – 88′

Un paradiso di schiavi
Sandro Di Domenico
San Nicola Varco (Sa), Castel Volturno (Ce), Napoli – 2011

Vite in attesa
Alessio Genovese, Rosario Riginella, Gaspare Pellegrino
Trapani – 2011

Vol spécial
Fernand Melgar
Frambois (Ginevra, Ch) – 2011 – 103′

 

2010

Alysia nel paese delle meraviglie
Simone Amendola
Roma – 2010 – 40′

C.A.R.A. Italia
Dagmawi Yimer
Castelnuovo di Porto (Rm) – 2010 – 38′

Famiglie migranti a porte aperte
Aldo Pavan
Giavera del Montello (Tv) – 2010

Homeless United
Marco Leopardi, Emiliano Sacchetti
Milano – 2010 – 52′

Lasa Revuca‬
Martin Fliri
Alto Adige, Slovacchia – 2010 – 42′

Il paese dei bronzi
Vincenzo Caricari
Riace (Rc) – 2010 – 41′

Il sangue verde
Andrea Segre
Rosarno (Rc) – 2010 – 52′

Il tempo delle arance
Nicola Angrisano
Rosarno (Rc) – 2010 – 30′

In coda
Andrea Paz Cortès, Diego Fabricio con la collaborazione di Elia Mariano
Milano – 2010 – 60′

Jamal va in Europa
Paolo Palermo
Brindisi – 2010 – 9′

Nato sotto un altro cielo
Roberto Magnini
Torino – 2010 – 52′

Non tutti i neri vengono per nuocere‬
Salvatore Nappa
Provincia di Caserta – 2010 – 50′

Sola andata. Il viaggio di un Tuareg
Fabio Caramaschi
Pordenone – 2010 – 52′

Termini Underground
Emilia Zazza
Roma – 2010 – 80′

Una scuola italiana
Giulio Cederna, Angelo Loy
Roma – 2010 – 75′

Vera
Francesca Melandri
Campagna vicino Roma – 2010 – 48′

MEI [MEIG] voci migranti
Federico Greco
Valtiberina – 2010 – 50′

 

2009

Di che colore sei?‬
Carlo Ruggiero
Italia – 2009 – 26′

Fratelli d’Italia
Claudio Giovannesi
Ostia – 2009 – 90′

Giallo a Milano
Sergio Basso
Milano – 2009 – 74′

Good Morning Aman
Claudio Noce
Roma – 2009 – 105′

Hanna e Violka‬
Rossella Piccinno
Salento, Polonia – 2009 – 56′

Il colore delle parole
Marco Simon Puccioni
Roma – 2009 – 70′

Ritratto di famiglia con badante
Alessandra Speciale
Italia – 2009 – 51′

Io, la mia famiglia rom e Woody Allen
Laura Halilovic
Torino – 2009 – 50′

Le altre stelle. Il suono dei migranti
Simone Furbetta
Provincia di Ancona – 2009

Nìguri‬
Antonio Martino
Calabria – 2009 – 50′

Storie migranti
Takyiu Traoré, Abdelhadi Fahmi, Ana Maria Preda, Octavian Petriu, Florin Lucan, Shaku Gassma
Milano – 2009 – 39′

‘U stisso sangu
Francesco Di Martino
Sicilia – 2009 – 55′

Valentina Postika in attesa di partire
Caterina Carone
Pesaro – 2009 – 77′

 

2008

Come un uomo sulla terra
Andrea Segre, Dagmawi Yimer, in collaborazione con Riccardo Biadene
Roma – 2008 – 60′

I cercatori di miraggi
Mario Chemello
Zambia; Bologna – 2008 – 62′

La dispensa di Genet‬
Cristiano Regina
Modena – 2008 – 30′

La Domitiana. Dove non c’è strada non c’è civiltà
Romano Montesarchio
Castel Volturno (Ce), Mondragone (Ce) – 2008 – 58′

La forteresse
Fernand Melgar
Svizzera – 2008 – 100′

Sognavo le nuvole colorate
Mario Balsamo
Lecce – 2008 – 65′

Via Anelli
Marco Segato
Padova – 2008 – 68′

Voci di donne native e migranti‬
Rossella Piccinno
Lecce – 2008 – 14′

 

2007

14 Kilómetros
Gerardo Olivares
Mali, Niger, Algeria, Marocco – 2007 – 95′

Carmine. Voci da un quartiere
Sara Zavarise
Brescia – 2007 – 23′

Il deserto e il mare
Dagmawi Yimer, Sintayehu Eshetu, Solomon Moges, Menghistu Andechal, Adam Awad
Roma, Catania – 2007 – 61′

Le ferie di Licu
Vittorio Moroni
Roma – 2007 – 93′

La giusta distanza
Carlo Mazzacurati
Nord Italia – 2007 – 106′

Sei del mondo
Camilla Ruggiero
Ostia – 2007 – 52′

Storie arbëreshë
Mario Balsamo
Piana degli Albanesi (Pa) – 2007 – 53′

Un tempo si chiamavano cafoni
Orsola Sinisi
Orta Nova (Fg) – 2007 – 34′

 

2006

Donne in corriera
Michele Codarin, Marta Zaccaron
Udine, Casablanca – 2006 – 41′

Il mondo addosso
Costanza Quatriglio
Roma – 2006 – 90′

Inatteso
Domenico Distilo
Roma – 2006 – 50′

La grande corsa
Caterina Monzani, Alessandro Pavone, William Negro
Bologna – 2006 – 19′

L’orchestra di Piazza Vittorio
Agostino Ferrente
Roma – 2006 – 90′

Sini & Roi una storia d’amore tra Bologna e l’India
Claudine Tissier, Fabio Campo
Bologna; Kerala – 2006 – 60′

Storia di Habteab
Federico Triulzi
Roma – 2006 – 30′

Via dell’Esquilino
Daniele Di Blasio
Roma – 2006 – 47′

 

2005

Campioni d’Africa. Cittadini italiani
Gianfranco Anzini
Roma – 2005 – 111′

Hotel House
Giorgio Cingolani
Porto Recanati (Mc) – 2005 – 68′

La Polverera
Manuela Borgetti, Maria Rosa Jijon, Sonia Maccari
Roma – 2005 – 30′

Le donne vestivano gonne fiorite
Carlo Chiaromonte
Roma – 2005 – 52′

Tra due terre
Michele Carrillo
Buenos Aires – 2005 – 70′

Un cinese a Roma
Gianfranco Giagni
Roma – 2005 – 50′

 

2004

Filo di luce
Michele Fasano
Vescovato (Cr) – 2004 – 56′

Jetoj – Vivo
Ervis Eshja, Mattia Soranzo
Puglia – 2004 – 18′

Materiali a confronto
Giuseppe M. Gaudino
Napoli – 2004 – 109′

 

2003

Lovte
Andrea Camuffo, Simone Spada
Roma – 2003 – 52′

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cantiere Lampedusa

Barche abbandonate, sventrate, incendiate. Semplici oggetti d’uso e di affezione sequestrati ai migranti, o smarriti durante le fasi concitate dello sbarco, gettati alla rinfusa nella discarica, trasformati in cumuli di spazzatura, fatti a pezzi: scarpe rotte, vestiti, pacchetti di sigarette, croci, bussole, libri, carte, lettere.
Testimonianze preziose, oggetti di memoria e non di rimozione, da conservare e studiare come è stato fatto negli ultimi anni grazie agli sforzi dei volontari di Askavusa e ora del Comune di Lampedusa e Linosa e della Capitaneria di Porto, uniti a noi e altri nella creazione sull’Isola di Lampedusa di un Museo Diffuso delle Migrazioni. Attualmente il progetto è sospeso e in fase di ripensamento.

Senza dimenticare la tragedia dei tanti che perdono la vita in mare o che ancora soffrono in centri di accoglienza trasformati in centri di espulsione, il progetto intende ribaltare la consueta cronaca di emergenze e trattenimenti forzati per dare voce a quelle decine di  migliaia di persone, uomini, donne e bambini, portatori di speranze, sogni, vite, idee di futuro che si sono intrecciate con le nostre, ispirando l’idea di un possibile destino condiviso.
Le loro testimonianze, i racconti, le tracce – e quelle di chi ben prima di loro è emigrato dall’isola verso altre destinazioni, in Italia o all’estero – sono un bene comune per l’Italia contemporanea che abbiamo il dovere di conoscere e conservare per restituire memoria ai molteplici scambi e contaminazioni che hanno improntato il nostro stesso processo di formazione come paese del Mediterraneo.

In questa direzione, nel 2014 AMM ha fatto parte di un gruppo promotore della campagna “Giustizia per i nuovi desaparecidos”, per la costituzione di un tribunale di opinione sulle scomparse dei migranti in viaggio verso l’Europa.

Inoltre, insieme al CISP, l’Usigrai e il Comune di Lampedusa pensiamo a Lampedusa come laboratorio di studio, di insegnamento e di conoscenza delle nostre stesse radici, che unisca gli abitanti dell’isola e i migranti in un percorso di riflessione, condivisione di metodi e fonti, per rintracciare i percorsi, i reticoli, gli incroci di idealità e di cambiamento. Per questo abbiamo elaborato linee progettuali comuni e abbiamo presentato, insieme ad altri partner locali a Lampedusa, Malta, Atene e Lesbo, un primo progetto europeo (“Europe for citizens” 2014/2020).

Questa sezione del sito conserva i materiali iniziali del progetto di Museo diffuso e presenta una serie di materiali, scritti e video, sul cantiere aperto di Lampedusa.

DOCUMENTI

1. Per un museo diffuso delle migrazioni: il progetto
2. Delibera della costituzione del museo delle migrazioni (clicca qui)
3. Lettera del Sindaco di Lampedusa (clicca qui)
4. Che cosa resta di un viaggio della speranza di Attilio Bolzoni (clicca qui)

TESTI

1. “Middle passages”, musealizzazione e soggettività a Bristol e Lampedusa di Gianluca Gatta e  Giusy Muzzopappa
2. “Like a plate of spaghetti” di Alessandro Triulzi
3. The Madonna of the Sea di Maaza Mengiste
4. Lampedusa’s Gaze. Messages from the Outpost of Europe di Simona Wright
5. Landscape is a space of action and thought di Costanza Meli

IMMAGINI

1. Soltanto il mare, un documentario di Dagmawi Yimer, Giulio Cederna, Fabrizio Barraco, (49’) 2011
2. Grooving Lampedusa, un foto-racconto di Mario Badagliacca (5‘ 25’’), 2012
3. To whom it may concern, un cortometraggio di Zakaria Mohamed Ali (16’), 2013
4. La mappa di Mahamed di Mahamed Aman, a cura di Monica Bandella (26’ 19’’), 2013

Ricerche

Sezione dedicata alla riflessione critica e alle ricerche svolte sul lavoro e le attività di AMM, al suo sviluppo nel tempo, i suoi cambiamenti, la sua storia. Raccoglie documenti, progetti, saggi, ma è aperto anche a interpretazioni e dibattiti sul lavoro di testimonianza, di memoria e di (auto) rappresentazione di soggetti migranti in Italia, così come ai risultati di ricerche e indagini sui processi migratori e la loro rappresentazione nella società contemporanea.

Cartographic Storytelling, Migration, and Reception Environments
Hanna Musiol
in Environment, Space, Place, Vol. 12, No. 2, 2020, pp. 1-30.

Les mots pour le dire : un cercle narratif avec des arrivants somaliens à Rome
Alessandro Triulzi
in Violence et récit: Dire, traduire, transmettre le génocide et l’exil, sous la direction de Marie-Caroline Saglio-Yatzimirsky, Paris: Hermann, 2020, pp. 257-268.
Les mots pour le dire è un tentativo di ragionare sui materiali di archivio di AMM suggerendo incroci tra momenti di autonarrazione e momenti di video partecipativo – in questo caso il Cerchio narrativo con alcuni giovani somali arrivati in Italia nel 2008 svoltosi pressi la Suola di italiano Asinitas a Via Ostiense nel 2009 e il video-documentario C.A.R.A. Italia di Dagmawi Yimer (2010) filmato nel Centro di accoglienza rifugiati e richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto nei pressi di Roma.

Archiviare il presente. L’autonarrazione dei migranti come fonte
Alessandro Triulzi
in Stranieri nel ricordo. Verso una memoria pubblica delle migrazioni, a cura di Daniele Salerno e Patrizia Violi, Bologna: il Mulino, 2020, pp. 41-62.
Traduzione italiana di un saggio apparso in tedesco nel volume Schriftlose Vergangenheiten, a cura di Luisa Regazzoni, Berlino: De Gruyter, 2019, pp. 307-326.

Landscape is a space of action and thought
Costanza Meli
in PAD Pages on Arts & Design #17, dicembre 2019.

Temporality in cosmopolitan solidarity: Archival activism and participatory documentary film as mediated witnessing of suffering at Europe’s borders
Karina Horsti
in European Journal of Cultural Studies, Vol. 22, No. 2, 2019, pp. 231-244.

Ten Years of Participatory Cinema as a Form of Political Solidarity with Refugees in Italy. From ZaLab and Archivio Memorie Migranti to 4CaniperStrada
Annalisa Frisina and Stefania Muresu
in Arts, 7(4), 2018.

Working with migrants’ memories in Italy: The Lampedusa dump
Alessandro Triulzi
in Crossings: Journal of Migration & Culture, Vol. 7, No. 2, 1 ottobre 2016, pp. 149-163.

Stranded traces: Migrants’ objects, self-narration and ideology in a failed museum project
Gianluca Gatta
in Crossings: Journal of Migration & Culture, Vol. 7, No. 2, 1 ottobre 2016, pp. 181-191.

Futura memoria
Susanna Guerini
in AM – Antropologia Museale, n. 37/39, 2015-2016.

Voci, racconti e testimonianze dall’Italia delle migrazioni. L’Archivio delle memorie migranti
Alessandro Triulzi
in Storia e futuro on line, n. 35, giugno 2014.

A Gaze from Lampedusa. Dagmawi Yimer’s Journey to the Outpost of Europe
Simona Wright
(Direttore del Programma Italian Studies, The College of  New Jersey, USA).
in Italica, Vol. 91, No. 4, 2014, pp. 775-802
Una comparazione critica dei due principali film di Dagmawi Yimer, “Come un uomo sulla terra” (2008)  e “Soltanto il mare” (2011) visti come momenti di una “nuova epistemologia della resistenza” nei confronti del discorso dominante in Italia sui migranti di Lampedusa.

Da Long Journeys. African Migrants on the Road
a cura di Alessandro Triulzi e Robert Lawrence McKenzie, Leiden and Boston: Brill, 2013.

Listening to Migrants’ Narratives: An Introduction
Alessandro Triulzi and Robert Lawrence McKenzie

‘Like a plate of spaghetti’. Migrant Narratives from the Libya-Lampedusa Route
Alessandro Triulzi

Our Journey
Dagmawi Yimer

Corpi di frontiera. Etnografia del trattamento dei migranti al loro arrivo a Lampedusa
Gianluca Gatta
in AM – Rivista della società italiana di antropologia medica, n. 33-34, ottobre 2012.

Middle passages, musealizzazione e soggettività a Bristol e Lampedusa
Gianluca Gatta e Giusy Muzzopappa
in Estetica. studi e ricerche, No. 1, 2012.
Due esperienze museali molto diverse tra loro a confronto: la patrimonializzazione della storia della tratta degli schiavi a Bristol (UK) e la nascita di un museo delle migrazioni a Lampedusa. L’interrogativo aperto è quanto la forma-museo possa simultaneamente contenere al suo interno narrazione e contro-narrazione.

Per un archivio delle memorie migranti
Alessandro Triulzi
in Zapruder. Storie in movimenton. 28, maggio-agosto 2012 (Foto di Desislava Valentinova Stoichkova).

Da Colonia e postcolonia come spazi diasporici. Attraversamenti di memorie, identità e confini nel Corno d’Africa
a cura di Uoldelul Chelati Dirar, Silvana Palma, Alessandro Triulzi, Alessandro Volterra, Roma: Carocci, 2011.

Memorie e voci erranti tra colonia e postcolonia
Alessandro Triulzi
Il saggio ha l’intenzione di rendere testimonianza di un lavoro di ricerca cominciato al termine di una vita accademica di africanista. Nel ricercare i collegamenti e i punti di sutura tra fronti e frontiere e le loro slabbrature nel tempo, il saggio vuole indicare le sfide e gli inaspettati ritrovamenti di chi svolge indagini ai margini delle discipline e delle tematiche, come è sempre in  ogni percorso di ricerca “di confine”.

Come in uno specchio. Il gioco delle identità a Lampedusa
Gianluca Gatta
Il saggio analizza i discorsi e le pratiche nei confronti dei migranti che arrivano a Lampedusa, mettendo in luce quelle strutture radicate di  pregiudizi locali e di “governo” della diversità nel nostro paese, in cui, non da oggi, cittadini e sudditi appartengono a mondi differenziati ed estranei, non solo etnicamente, e non solo in colonia.

The Madonna of the Sea
Maaza Menghiste
in Granta, No. 118, 2012,
L’odissea dei migranti che arrivano a Lampedusa dalla Libia attraverso gli occhi e i racconti del rifugiato e regista etiope Dagmawi Yimer.

Una nuova voce nel cinema italiano? L’emergenza di forme di cinema migrante in Italia
Alessandro Jedlowski
in Camera Africa: Classici, noir, Nollywood e la nuova generazione del cinema delle Afriche, a cura di Vanessa Lanari, Fabrizio Colombo e Stefano Gaiga Cierre Edizioni, Verona 2011, pp. 69-76.

Africani in Italia: la memoria e l’archivio
Alessandro Triulzi
in Meridione, n. 2, aprile-giugno 2010, p. 30-50.

Io manifesto

“Io manifesto”: laboratorio per la presa di parola

Uno spazio di riflessione, nel quale gli studenti possono mettere in gioco la capacità di pensare bisogni e necessità di altri – in questo caso migranti – e ipotizzare possibili forme di manifestazioni collettive.

 

Foto: Mario Badagliacca – 2015

Ogni novità comincia come trasgressione segnalata
da qualche vocabolo imprevisto collocato
sulla superficie
di una società costituita
(Michel de Certeau, La presa di parola e
altri scritti politici
, 2007)

Non si dovrebbe mai dare un “noi” per scontato
quando si tratta di guardare il dolore degli altri
(Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, 2003)

 

Qualcosa non va. Gruppi di persone si riuniscono per dimostrare insieme il proprio disagio, la propria discordanza. Manifestare. Tanti individui che camminando insieme formano un unico grande gruppo, che prende un nome unico: “Non una di meno” (manifestazione nazionale a Roma, 26 novembre 2016), “Women’s march” (Washington, 21 gennaio 2017), “La marcia degli scalzi” (in 60 città italiane, 11 settembre 2015), “Manifestazione antirazzista (Firenze,17 dicembre 2011”.
Cosa spinge le persone a scendere per la strada, a manifestare il proprio dissenso in luoghi pubblici? A prendere parola e far sentire la propria voce davanti a quella che percepiscono chiaramente come un’ingiustizia, un diritto negato a sé stessi o ad altri?

Le tappe

“Quando ho saputo quello che era accaduto a Firenze, ho deciso subito di partecipare alla manifestazione. Volevo esserci anch’io, vedere la risposta della gente, e devo dire che è stato un momento emotivamente molto forte e intenso, che ho cercato di raccontare soffermandomi sugli occhi delle persone, sulle loro espressioni, sull’attenzione con cui seguivano ogni momento del corteo. C’erano davvero tantissime persone: parecchi cittadini e cittadine di Firenze […] ma la cosa che mi ha colpito di più è stata la presenza massiccia di tantissimi uomini e donne di diverse comunità africane. Durante il corteo ho cercato in particolare di riprendere il loro modo colorato di animare la protesta, di esprimere il dolore e l’indignazione con canti, balli e musica”.
Dagmawi Yimer, Va’ pensiero. Percorsi di antirazzismo in classe, p. 36.
Il laboratorio “Io manifesto”, tratto dal kit didattico Va’ pensiero. Percorsi di antirazzismo in classe di AMM, parte da alcune di queste domande. Lo abbiamo proposto a due classi di quarta e quinta superiore, in previsione dell’intervento di alcuni studenti in un convegno dedicato al tema della migrazione e dei rifugiati politici.
Tra i principali obiettivi che ci siamo posti con questa attività c’era l’apertura di uno spazio di riflessione, nel quale gli studenti potessero mettere in gioco la propria soggettiva capacità di pensare bisogni e necessità di altri – in questo specifico caso persone che hanno vissuto l’esperienza della migrazione – e ipotizzare possibili forme di presa di parola collettiva. La forma di protesta elaborata sarebbe poi stata messa in scena durante il convegno finale.
Come in altri laboratori (vedi post Per un diario collettivo), siamo partiti da un esercizio di immedesimazione. Ogni studente doveva confrontarsi, infatti, con il tentativo di comprendere esigenze, necessità, malesseri e desideri di una persona diversa da sé; tentare, in sostanza, di pensare, o meglio di pensar-si, come un Altro.

Qualche giorno prima dell’incontro a scuola abbiamo distribuito agli studenti una busta sigillata contenente alcuni fogli nei quali era indicato il “profilo identitario” di una persona: nome, età, provenienza, professione e status giuridico, insieme a una fotografia di quella ipotetica persona. Abbiamo chiesto ad ognuno di loro di calarsi nel personaggio ricevuto casualmente e, a partire da quello, provare ad immaginare: i suoi gusti – “likes” – su musica, film e altro; un suo possibile sogno e un suo incubo; infine di provare a pensare se ci fosse qualcosa che non andasse nella sua vita. Ogni studente, nei giorni precedenti l’incontro, aveva già cominciato a pensarsi in base a quei pochi dati che gli avevamo fornito, e aveva scritto una breve presentazione di “sé stesso”. Il giorno del laboratorio con noi di AMM, ciascuno si è presentato con l’identità che aveva “preparato”.

 

Nome: Hawa
Cognome: Mohamed Ali
Età: 16
Nazionalità: somala
Professione: studentessa
Status giuridico: protezione sussidiaria

“Likes”
Musica: mi piace molto la musica pop/rock, recentemente sono andata ad un concerto di Justin Bieber
Film: Il mio film preferito è “The help”, perché è l’esempio che l’unione di una minoranza può portare a grandi cambiamenti.
Altro: La domenica mi reco sempre con la mia famiglia in chiesa

Un sogno: Il mio sogno è quello di riuscire a diventare un bravo medico per poter aiutare tutti i bambini malati del mio villaggio.

Un incubo: un incubo che ricorre molto spesso nei miei sogni è quello che non mi venga rinnovata la protezione sussidiaria e che rispediscano me e la mia famiglia nel nostro paese d’origine, di conseguenza non riuscire a portare a termine gli studi ed essere promessa in sposa ad una persona che nemmeno amo.

Cosa non va? Per ora, qui in Italia le cose vanno abbastanza bene, mio padre e mia madre hanno un buon lavoro. L’unica cosa che “non va” è che mio fratello maggiore si è trasferito in Inghilterra per studiare da attore e fare ciò, secondo i miei genitori, non è una cosa dignitosa.

 

A partire dalla divisione della classe in due gruppi – ogni gruppo costituiva una specie di piccola comunità -, abbiamo creato altri tre sottogruppi più piccoli di 4-5 studenti, chiedendo loro di immaginarsi seduti intorno al tavolino di un bar in un giorno qualsiasi. Ogni gruppo si è così raccolto per confrontarsi con gli altri sulle vicende della “propria” vita, soffermandosi in particolare sui possibili problemi del proprio “profilo identitario”. Ogni piccolo gruppo, ascoltate le voci di tutti, ha quindi avviato una riflessione sulle diverse questioni emerse, cercando il modo di individuare soltanto due problematiche – scegliendo quelle sentite come più urgenti e condivise dalla maggior parte del gruppo, oppure articolando diverse problematiche in un’unica istanza, negoziando dunque i temi – per elaborarli “politicamente”.

 

 

Una volta appuntati i nodi tematici prescelti dal primo “piccolo gruppo”, un paio di persone si sono trasferite negli altri gruppi per farsi portavoce delle questioni emerse; anche in questa seconda fase sono state scelte quelle avvertite dalla collettività come più urgenti, rielaborate ulteriormente.

Tra i temi/problemi emersi maggiormente vi erano:

• L’Italia non vuole concedermi i documenti per cui lavoro in nero e vengo sfruttato.
• Dato che non ho i documenti non mi sento integrato.
• Faccio fatica a pagare tutte le tasse.
• Sono dovuto scappare dal mio paese a causa della guerra.
• Ho poca libertà, lavoro tanto e guadagno poco.
• Solitudine, non so bene la lingua, ho paura di subire aggressioni a causa della mia nazionalità e del posto in cui vivo.
• Solitudine e pregiudizi, difficoltà ancora adesso ad integrarmi.
• Sono più di tre anni che non ho notizie di mio padre, e in due anni sono riuscita a vedere solo due volte mia madre e i miei fratelli.
• Troppe ore di lavoro, bassa paga, i miei figli sono in Cina con i nonni e mi mancano.
• Il problema è che ho un permesso di soggiorno triennale e non sono sicura di poterlo rinnovare quando scade.

Infine, i piccoli gruppi si sono riaccorpati nei due gruppi/assemblea, nei quali la classe era stata divisa inizialmente. Ognuna delle due assemblee ha cercato di elaborare una possibile forma di protesta e di manifestazione per dimostrare pubblicamente il suo punto di vista collettivo. Sono state così individuate delle strategie d’azione: sit in; manifestazioni; flash mob; appelli, e altro.

La fase conclusiva è stata il momento di performance “pubblica” dell’azione o del progetto di protesta: a turno i due gruppi hanno messo in scena la propria protesta davanti all’intero gruppo-classe.

 

 

Cosa è emerso?

Dal punto di vista dell’immedesimazione dei “profili identitari” dai noi forniti, alcuni studenti hanno manifestato il proprio disagio e la propria difficoltà al momento di dover scegliere i “gusti” dell’ipotetica, ma realistica, persona nella quale dovevano immedesimarsi. Alcuni si chiedevano ad esempio: come fare a non banalizzare o stereotipizzare una studentessa somala di sedici anni? Come posso conoscere o immaginare i suoi gusti musicali? Se ci si immagina che ascolti Justin Bieber, il timore è quello di banalizzarla, ma se le si attribuisce musica rock, forse è il soggetto che si immedesima che prende il sopravvento sul personaggio inventato?

Per quanto riguarda la ricerca di questioni che “non vanno”, che devono essere cambiate e risolte, alcuni studenti sono riusciti ad immedesimarsi verosimilmente in questioni realistiche, in certi casi “intime” e plausibili, che possono avere a che fare con la dimensione quotidiana. Altri, tuttavia, hanno fatto riferimento a questioni che potremmo definire come universali, quali ad esempio la “fine della guerra”, la “pace tra i popoli”. Questioni che nella fase successiva di elaborazione della protesta hanno portato buona parte degli studenti a sentire come inadeguata qualsiasi forma di dimostrazione pubblica, in quanto inefficace verso un cambiamento.

In questo senso, alcuni studenti hanno palesato la loro difficoltà nel trovare forme appropriate di presa di parola. Alcune forme di protesta, come la manifestazione in piazza, sono percepite come troppo abusate, dunque inefficaci.

Altri ancora hanno cercato di schivare forme conflittuali di protesta, percepite come inevitabilmente violente. Come se il conflitto – anche non violento – costituisse una modalità fallimentare di reazione alle contraddizioni sociali. In questi casi, infatti, la “protesta” è stata articolata in termini di produzione di progetti culturali, o anche di “eventi culturali” aperti.

Il processo innescato dal laboratorio – attraverso l’intreccio di presa di coscienza dei problemi sociali, immedesimazione nell’Altro e istanza di cambiamento – ha reso visibili alcune dinamiche molto interessanti, relative alle difficoltà di partecipazione alla vita comune, di affermazione della propria soggettività, di riconoscimento della capacità di agire individuale e collettiva. L’Altro – con il suo vissuto un po’ da osservare, ricorrendo all’evocazione di frammenti di conoscenza estemporanea su contesti, popolazioni, fenomeni sociali, un po’ da immaginare e ricostruire attingendo alla propria esperienza personale – ha consentito, se non di fare chiarezza sui propri desideri e sulla propria capacità di relazionarsi in gruppo per negoziarli e renderli politicamente vivi, almeno di confrontarsi con i limiti caratteristici dell’epoca in cui siamo immersi che ostacolano la possibilità di pensare la politica come vita attiva.

 

Dal blog Sesamo di Giunti Scuola

21 marzo 2017