Sapevamo che era ingiusto… ma non sapevamo si chiamasse schiavitù…

Vedi il testo originale della lettera, della quale riportiamo qui una traduzione.

 

 

di Luwam Estifanos

“Quando sento qualcuno argomentare a favore della schiavitù, sento dentro un forte impulso di vederla applicata a lui personalmente” (Abramo Lincoln, da un discorso tenuto il 17 marzo 1865)

Sono stata sistematicamente assoggettata ad accettare servitù e prigionia per un tempo davvero lungo e sono sicura che lo stesso è avvenuto per la maggior parte degli eritrei della mia età.
Può sembrare strano a dirsi, ma per noi è stato possibile non sapere che eravamo sotto una dittatura, né che ci venisse in mente che, come esseri umani, meritassimo di essere padroni della nostra vita, di parlare liberamente, di scegliere e fare le cose che avremmo voluto fare. Siamo state delle persone con grandi speranze e abbiamo posto fiducia totale nel nostro governo, senza alcun sospetto di poter essere traditi. Noi giovani eritrei siamo stati ingenui fino a questo punto. Siamo stati molto lenti a capire cosa sia la schiavitù.

La coscrizione militare a tempo indeterminato, il privarci dei diritti fondamentali, le continue retate sulle nostre strade che una volta erano pacifiche e sicure, la carcerazione di persone appartenenti ad alcune religioni e i maltrattamenti estremamente crudeli non erano cose che trovavano accordo nei nostri cuori… ma ci è voluto del tempo affinché capissimo la reale entità della schiavitù, travestita da servizio nazionale. Solamente ora capiamo che non eravamo null’altro che schiavi del regime del FPDG (Fronte Popolare per la Democrazia e Giustizia). Tutto è iniziato quando siamo stati costretti ad aderire al servizio militare obbligatorio e illimitato all’età di 16 anni… sì, in una nazione come l’Eritrea questa è l’età in cui i sogni innocenti dell’adolescenza e le speranze ti abbandonano, invece di essere coltivati per sognare alla grande e realizzare il proprio potenziale e contribuire allo sviluppo del paese.

C’è stato un tempo in cui i nostri quartieri erano allegri e pieni di risate di giovani, e le strade dove passeggiavamo erano sicure… c’è stato un tempo in cui l’aria che respiravamo era piena delle nostre speranze, dove tutto era ‘normale’, dove il futuro era promettente…c’è stato un tempo in cui pensavamo che tutto era bello e buono… fino a quando non lo fu più. Fino a quando le nostre speranze e aspirazioni per una grande Eritrea caddero in rovina e svanirono con l’effetto paralizzante del servizio nazionale a tempo indeterminato.
La guerra con l’Etiopia è stata usata per giustificare la coscrizione militare a tempo indeterminato… Tuttavia, è passato più di un decennio dopo la firma del trattato di Algeri che pose fine alla guerra. Eppure lo sfruttamento illegale del lavoro dei giovani eritrei continua ad essere effettuato sotto le mentite spoglie di servizio nazionale con effetti irreversibilmente distruttivi sulla società eritrea. Invece di incoraggiare e motivare le persone a sviluppare e ricostruire l’Eritrea assicurando la pace, la legge e l’ordine, il regime ha deciso di compensare i nostri contributi disinteressati e i nostri sacrifici condannandoci a una schiavitù eterna e spietata. Il nostro lavoro è stato sfruttato per servire gli interessi dei membri dell’élite e per costruire opere che non beneficiano per niente né il popolo né la nazione; e tutto ciò con una paga da vera miseria. E così siamo fuggiti via! Noi giovani abbiamo risposto con la fuga in massa, paralizzando la capacità produttiva e di difesa della nostra nazione.

Quando ci hanno negato il diritto di esprimere la nostra frustrazione con le nostre voci… abbiamo parlato con i nostri piedi! Siamo fuggiti in ogni direzione che potevamo, abbiamo abbandonato la nostra nazione, che una volta era piena di speranza. Per molti il viaggio non ha avuto un lieto fine. Gli oceani si sono aperti per diventare delle tombe, alcune persone si sono trasformate in bestie per predare su di noi.
Anche dopo essere sopravvissuti a tutto questo, ciò che si aspetta da noi è di tacere e scomparire in una nuova forma di schiavitù. Non da parte mia!
Mi rifiuto di stare zitta e continuare a servire pagando la tassa del 2%… mi rifiuto di essere ancora schiava. Ho rischiato la mia vita per mettermi in libertà, pertanto vivrò libera.

A molti,compreso i giovani della nostra età, che si definiscono YPFDJ (Young People’s Front for Democracy and Justice, organizzazione giovanile nella diaspora del FPDG), appare strano che si possa fuggire dal proprio paese correndo grandi rischi. Loro non hanno mai provato la vita di schiavitù nazionale. Sono sorpresi nel vederci fuggire e infastiditi nel sentirci definire come schiavitù la nostra esperienza di servizio nazionale. Ora stiamo semplicemente dicendo basta!

In realtà, sarebbe strano se non lo dicessimo, quando per tutto il nostro duro lavoro e i sacrifici, ciò che abbiamo ottenuto è stato solo scherno; quando tutto il nostro sangue e sudore è stato per il piacere e il divertimento di alcuni pretenziosi ‘patrioti’ durante i loro avventurosi viaggi in Eritrea; quando si è condannati a servire fino a quando solo Dio sa, senza poter mettere in discussione una sola cosa; quando tutto quello che puoi fare per alleviare l’indignazione dentro di te è soffocare le urla di disperazione; quando le famiglie sono costrette a sopravvivere con 10 dollari al mese; quando ti è consentito di vedere la famiglia solamente una volta in un anno o due; quando un’intera generazione è bloccata in una vita da militare ed è costretta a rinunciare a istruzione, carriera, lavoro, futuro, al matrimonio e famiglia. Sarebbe strano se non si scappasse, anche rischiando tutto. Non si può fare a meno di scappare quando la fuga è l’unica cosa che potrebbe mantenere vive le proprie aspirazioni di vita.

In un mondo di tirannia estrema come il nostro, è più che lecito ritenere che saremmo stati privati totalmente dei nostri anni di gioventù e che saremmo stati condannati a lavorare per il resto della nostra vita senza alcun riconoscimento, credito, rispetto o  compenso. Questo non sarebbe stato male se avessimo contribuito alla prosperità del nostro popolo, alla pace della nostra nazione e a qualcosa di positivo che avrebbe reso orgogliosi i nostri genitori dopo il sacrificio che era stato chiesto a noi.

Abbiamo lavorato come schiavi per il regime, senza poter beneficiare nemmeno del più fondamentale dei diritti umani, il diritto di vivere. Se avessimo visto un barlume di speranza piuttosto che la nostra situazione e quella del nostro popolo peggiorare di giorno in giorno, se come frutto del nostro sfruttamento avessimo visto il progresso dell’Eritrea, le cose avrebbero potuto essere diverse. Ma tutto quello che abbiamo ottenuto è stato di essere spinti e tirati in tutte le direzioni. Ora so che questo è ciò che l’oppressione fa a chi sta seduto sull’ultima ruota del carro.

E ora che siamo in grado di condannare apertamente la schiavitù nazionale… alcune persone ci stanno dicendo che non eravamo schiavi, ma veterani. Queste persone spudoratamente cercano di convincere i fratelli e le sorelle che abbiamo lasciato dietro di continuare a servire, non la loro nazione, ma gli interessi di un regime e quelli di una élite che continua a schiavizzarci e a condannarci all’inesistenza.

Come se non ne avessimo avuto abbastanza del loro danzare sui corpi dei nostri caduti, come se non ne avessimo avuto abbastanza del loro vantarsi per le strade e le dighe che noi abbiamo costruito, come se essere privati dei diritti fondamentali per noi non fosse il sacrificio estremo, come se giocare d’azzardo con le nostre vite non fosse la cosa più scellerata… ci stanno dicendo di considerarlo un onore!

Il mio consiglio a queste persone è di andare e provare a vivere un solo giorno senza sapere quando avranno ancora il controllo del loro destino; direi loro di provare a vivere un solo anno senza sapere quando avranno il permesso di vedere i loro genitori; di andarci per una sola settimana sapendo che le urla che provengono dalla cella della prigione sono quelle della tua migliore amica con la quale hai condiviso il letto a castello; direi loro di andarci per un solo mese a faticare per una miseria, a costruire strade e ponti che altri potranno utilizzare mentre tu continui a faticare senza fine e poi tornare qui e dirci quanto si sentono onorati!
Le persone che non hanno passato ciò che noi abbiamo subito non possono dirci cosa eravamo, né possono ordinarci di smettere di condannare la nostra terribile situazione di schiavitù. Non stiamo inventando noi la schiavitù, ma semplicemente la chiamiamo con il suo nome e lo stiamo dicendo ad alta voce. Stiamo finalmente riversando le nostre frustrazioni che avevamo manifestato solo attraverso i nostri occhi in lacrime e i nostri piedi fuggiaschi.

Quindi, per favore non ditemi che sono una veterana. Non chiamate servizio nazionale la schiavitù a cui ero stata condannata. È molto dispotico e offensivo dirlo a qualcuno il cui destino viene deciso da altri, o dirlo alla donna in schiavitù senza una paga adeguata e lontana dal calore della famiglia, o dirlo al giovane uomo senza un futuro a cui guardare; non chiedete a coloro che sono stati sfruttati in modo opportunistico di stare in silenzio. Perché i loro cuori affranti hanno storie da raccontare, storie di dolore, tristezza e stenti che voi ignorate o di cui non avete alcuna idea! Eravamo schiavi fino al momento in cui siamo fuggiti e ci sono molti altri rimasti lì mentre alcuni sono morti, e questa è la verità.