Parole per il cerchio (Pcn/1-5)

di Cristina Ali Farah

Nell’inverno 2008, la scrittrice somala Cristina Ali Farah veniva coinvolta in un programma radio su alcune parole chiave per la trasmissione Fahrenheit di RaiTre. Così ci scriveva Cristina il 15 marzo 2009: “Vi mando i testi costruiti intorno a cinque parole, nell’ordine, 1 avventura 2 abbagliare 3 lingua 4 partire 5 casa. Sono da lavorare ancora, ma è stato molto bello scriverle. Tutte le volte Sinibaldi ha ribadito che si trattava di un lavoro collettivo. Le parole sono scelte e raccontate insieme agli studenti e ai maestri della scuola di italiano Asinitas. Lo stimolo nasce da una parola e in qualche modo dall’impossibilità di tradurla. Troviamo termini che la sfiorano, ma spesso ci portano in dimensioni che non prevedevamo”.

Si riportano qui alcuni estratti.

 

(Pcn/1) Avventura 

Vicenda singolare e straordinaria, caso inaspettato. Impresa rischiosa ma attraente per ciò che vi si prospetta di ignoto e vi si vive di fuori dal comune.
Pare non esistere un termine corrispondente in somalo. Sul dizionario troviamo sursuur. Sursuur baan galay significa ho corso un pericolo. Il pericolo è quindi un elemento connaturato all’avventura?

Continuiamo cercando. C’è chi suggerisce dalmar, l’attraversare i paesi, ma anche badmar, attraversare il mare. Figura simbolo dell’avventuriero per il somalo era il siman dall’inglese seaman, uomo di mare.

Durante la seconda guerra mondiale sulle navi da guerra inglesi nel golfo di Aden, molti somali si arruolavano come marinai. Qualcuno tornava, qualcuno non tornava mai più.

C’è un libro uscito di recente, intitolato Akui di Fatima Ahmed, è un meraviglioso racconto in prima persona della figlia di un seaman somalo, vissuto in Cambogia per 30 anni, sposato con un indo vetnamita, e tornato in Somalia negli anni 70 in fuga dalla guerra civile cambogiana.

A proposito dei seaman Abdulkadir, che in Somalia faceva il pescatore, dice che i seamen non erano dei veri e propri avventurieri come lo sono i pescatori, perché a bordo delle grosse navi non c’è bisogno di conoscere il mare e i rischi che si corrono navigandolo. Ci riporta quindi all’idea dell’avventura come pericolo.

(…)

 

(Pcn/2) Abbagliare 

La parola che abbiamo scelto oggi (…) è abbagliare: offuscare la vista per una luce troppo intensa. Dal latino volgare advariare legato alla varietà dei colori. Esiste una traduzione di questa parola in somalo, cawir, “succede quando il sole è troppo forte e devi coprirti gli occhi” dice Xawa. Cawirran si dice anche a colui che non vede, aggiunge Yusuf, al cieco.

A proposito del non vedere, di avere lo sguardo impedito, Farhan cita un proverbio:
Meel il laga la’yahay il aa la istiraa, quando si arriva in un paese di guerci, ci si cancella un occhio. Non tutti abbiamo le stesse aspettative – continua F. – quello che voglio dire è che poiché il caso ci ha portati qui, dobbiamo entrare a far parte di questa vita, di questa comunità.
E continua: in una lezione che abbiamo seguito qualche giorno fa, c’è la storia di uno studente che va da un mu’allim famoso e gli chiede di insegnargli l’arte della magia. Come posso imparare l’arte della magia? In questo giardino c’è il tuo posto, gli risponde, hai una notte per trovarlo. Quella notte per me è la fortuna, è il destino. Allora io mi chiedo: poiché molti di quelli che ci hanno preceduto non ci sono riusciti troveremo il nostro posto? Avremo la nostra notte, la nostra fortuna?

Le parole sono come cristalli hanno bisogno di un ambiente favorevole per formarsi. In Somalia la luce ha colori talmente diversi nel corso della giornata e delle stagioni che esistono tantissime parole per definirla. Queste parole segnano anche la divisione del tempo, della giornata, in modo diverso da come la pensiamo qui, in Europa.  In una riflessione sull’alba e sul tramonto A. ha scritto un bellissimo testo che vi leggo:

Io ringrazio Dio quando è il momento dell’alba e prego una preghiera della religione musulmana che si chiama “L’alba”. Questa preghiera è per ringraziare Dio e dice: “il tempo per dormire è un piccolo morire” e dico grazie a Dio che mi fa ancora vivere dopo un piccolo morire. Perché ci sono tante persone che hanno dormito ma non riescono a rialzarsi un’altra volta.

(…)

 

(Pcn/3) Lingua

Come in italiano lingua è sia l’organo di fonazione che il linguaggio vero e proprio così è per il somalo af, bocca e linguaggio.
F. e molti altri ragazzi del corso hanno più volte ribadito: la prima difficoltà che si incontra arrivando qui è quella della lingua. Siamo come un bambino appena nato e un bambino appena nato ha bisogno di diverse cose per crescere e per questo occorre tempo.

Diversi anni fa stavo cercando di tradurre una ninna nanna tradizionale e mi mancava una parola. Questa parola sarà il tema di domani. Come sempre in questi casi ho chiamato mio padre in Inghilterra e gli ho cantato i versi che non avevo capito. È meraviglioso vedere la sua reazione in questi casi, potrei decidere di passare le mie giornate a cercare espressioni per me incomprensibili solo per sentire nella sua voce, quella specie di orgoglio che raramente ritrova nel corso delle sue giornate. Sto parlando di mio padre e in questi giorni ho parlato degli studenti della scuola di italiano Asinitas, ma in realtà è di una storia collettiva che sto parlando, una storia in cui c’entra l’Italia. Come tutti quelli nati fuori dalle grandi città, mio padre conosce bene il lessico dei nomadi.

Nella cultura orale la memoria è considerata una grandissima virtù e per questo incoraggiata e sostenuta con varie strategie, per esempio con la luuq, la tonalità del canto, vengono enunciati i versi. Luuq diversa da luuqad che significa lingua parlata sia in somalo che in arabo. Gli studenti di Asinitas che non hanno ricevuto una vera e propria educazione scolastica, sono quelli che ricordano più canti, detti e poesie e ci ricamano continuamente la propria voce. Questa vena giocosa e incredibilmente creativa per esempio gli uomini istruiti come mio padre, l’hanno persa. Da piccolo lo chiamavano Af Dabeyl mi ha raccontato una volta mia zia, bocca di vento o forse lingua di vento, perché alla dugsi, la scuola di Corano, era uno di quelli che avevano più memoria. A questa lingua arcaica, rituale, saporosa, si aggiunga la sua profonda conoscenza dell’italiano. Non  per esaltarlo, ce ne sono molti come lui di diversa o identica generazione. Quello che voglio dire,  è che esiste un vocabolario somalo-italiano per un motivo. Quegli esperti che negli anni settanta hanno lavorato al dizionario somalo italiano, sono gli stessi che hanno messo per iscritto il somalo, lingua fino a quel momento di tradizione orale. Un gruppo di esperti somalo italiani. Cosa importava agli italiani di una delle tante lingue africane parlata nel continente? A questo mi dobbiamo cercare una risposta insieme.

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(Pcn/4) Partire 

Ieri vi ho parlato di una ninna nanna al telefono e di una parola che non riuscivo a tradurre. La ninna nanna è così:

Hobey hobeeyaa/Ya hobey hobeyaa e la parola mancante da cui sono rimasta affascinata è carrabay che significa partire nel pomeriggio. Si parte nel pomeriggio solo in caso di grave calamità, quando si è obbligati, perché partire di pomeriggio, in mezzo alla giornata, significa lasciare molte cose in sospeso.

È molto emozionante sentire il racconto dei ragazzi sul momento in cui hanno preso la decisione di partire. È qualcosa alla quale continuano a pensare nel corso degli anni, come un’ossessione, quasi nessuno parla di un’unica causa, forse una goccia che fa traboccare il vaso c’è, ma alla fine decidere di separarsi dalla propria casa è molto difficile, è come una sconfitta.

Andarsene spesso è qualcosa di repentino credo.

Uno dei giovani che frequentano il corso di italiano, si chiama F. e l’ho nominato diverse volte in questi giorni. Il suo racconto è forse quello che ci colpisce di più, per le ripetute partenze, il suo è pellegrinaggio da un paese all’altro, prima verso lo Yemen, poi verso il Sudafrica e infine verso l’Italia. Tra queste destinazioni lui torna sempre a casa. È come se il suo partire nascesse sempre contenuto dal desiderio del ritorno. La prima volta parte di pomeriggio: ha solo 15 anni e lascia la sua città Beletweyne, per salvarsi dagli scontri. Corre, corre per 60 chilometri dice. Corre per 23 ore di seguito, poco meno di un giorno intero. Rimane in sospeso: qualche giorno dopo la guerra lo raggiunge anche nel paese in cui si è rifugiato. Per salvarsi si tuffa nel fiume e passa dall’altra parte. Alcune persone lo seguono, ma non ce la fanno e rimangono intrappolati nel fiume.

La grande causa per cui si parte è nominata solo a tratti, quasi uno scongiuro, è la guerra civile, dalgalka sokeeye si dice in somalo. Lo scrittore Nuruddin Farah nel suo romanzo Legami, così spiega, il significato di questa espressione: “Dagaalka sokeeye” […] Dentro di sé, Jeebleh non riusciva a decidere come tradurre quella espressione somala: alla fine preferì il concetto di “uccidere un intimo” a quello di “fare la guerra a un intimo”.

È molto interessante questa idea dell’intimità, insita nella violenza. Forse è anche questa la ragione del pudore, del motivo per cui raramente i ragazzi usano questa espressione.

Non dicono guerra civile, ma burbur, che significa la frantumazione. Mentre ero in mezzo a quella frantumazione, ho deciso di entrare nel viaggio.

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(Pcn/5) Casa

La mia ultima parola che abbiamo scelto è casa. In inglese house o home non sono la stessa cosa, home è l’intimità, la dimora, il luogo dell’anima. C’è una differenza simile tra guri e daar anche se con sfumature diverse.

Quando ho lasciato la mia casa avevo diciassette anni. Era da poco nato mio figlio così, uscendo, non mi sono preoccupata di portare via un granché, sia perché ero convinta che sarei tornata, sia perché mi importava soprattutto di salvare il bambino. L’ho appoggiato su un cuscino di quelli che si usano per i neonati e mi sono avvolta in un velo nero molto ampio. Poco prima di uscire mi ha sfiorato per un attimo il pensiero che non sarei potuta tornare, così ho preso il mio ultimo diario. Poche ore dopo, la casa è stata assaltata e saccheggiata. Ne ho visti i brandelli sparpagliati per tutto il quartiere. Per un attimo ho sentito un forte senso di smarrimento, pensando a tutti i libri, ai disegni, ai diari, persino agli abiti che avevo amato. Una specie di lutto celebrato per una frazione di secondo. Mi fa impressione ora, perché come risultato di quella esperienza sono esageratamente disaffezionata, distaccata dagli oggetti.

In Somalia in questi diciotto anni tutto ha funzionato, secondo A., quello che manca è l’istituzione. Vigeva questo motto, dice F.: ku qabso ku qadimeysid, occupa e non rimarrai a mani vuote (non rimarrai digiuno). Lo dice a proposito della casa in cui viveva nella città di Beledweyn improvvisamente rivendicata da altri proprietari. Avevano addirittura assoldato dei mercenari per dissuadere eventuali testimoni.

Puoi cambiare casa, dice H., ma è difficile trasferire la tua home.

Eppure i somali sono tradizionalmente nomadi, caricano la casa sul cammello per muoversi verso pascoli più grassi.

Sangub, poeta e drammaturgo somalo scrive: Durante il trasloco notturno, ci sono grida, ci sono urla, le anfore per l’acqua sono imballate male, come è calda la situazione, come è buio il tempo in cui mi sono svegliato!

H. dice che il centro d’accoglienza in cui vive ora, è il luogo dove mangia e dorme, ma non è una vera e propria casa. Posso dire che sento molto più come casa mia la scuola.” aggiunge. Alla scuola niidda aa laguu dhisaa, ti incoraggiano, ti motivano, letteralmente: ti costruiscono l’animo. Mi piace molto questa espressione, costruire l’animo.

È forse l’animo la nostra dimora prima, il luogo in cui dobbiamo imparare a convivere con noi stessi?

(…)