Futura memoria

di Susanna Guerini

Articolo pubblicato nella rivista AM-Antropologia Museale, n. 37/39, 2015-2016.
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Quando sono arrivato in Italia, pensavo che avrei dimenticato tutto ciò,
ma poi insieme abbiamo capito che bisognava raccontare.
Dagmawi Yimer, dal documentario Come un uomo sulla terra (2008)

Per una storia del presente
È possibile parlare oggi in Italia di “comunità patrimoniali migranti”[1]? In riferimento a quali eredità culturali? Se vi fosse un processo di patrimonializzazione delle esperienze che accompagnano i processi migratori nell’Italia del presente, oggetto della presente riflessione, chi sono i suoi ‘promotori’? Sotto quali forme le tracce salvaguardate assumono un valore collettivo? Le convenzioni sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (in particolare Faro 2005; UNESCO 2003) e il Codice dei Beni Culturali sembrano descrivere un concetto di cultural heritage proveniente dal passato[2], ma è possibile costituire un patrimonio culturale a partire dal presente?
L’anno zero della trasformazione dell’Italia in paese di immigrazione è generalmente fatto risalire al 1991, quando navi come la Vlora riversarono sul territorio italiano un’alterità culturale e corporea che creò uno shock e un cambiamento radicale nella percezione e nella rappresentazione socio-culturale dei migranti. Tuttavia l’immigrazione assume rilevanza fin dai primi anni Settanta[3], si tratta perciò di un fenomeno datato già oggi etichettabile come “eredità culturale”, il quale rende la società italiana, parafrasando Anderson (2003), una “comunità immaginata multiculturale”. Una presa di coscienza collettiva che tuttavia comincia a percepirsi solo negli ultimi anni, e che forse i primi processi di patrimonializzazione qui descritti potrebbero prefigurare[4]. Consapevolezza che però necessita comprensione, dunque conoscenza e riflessione a partire da un possibile patrimonio culturale che rappresenti i processi migratori, in una prospettiva di superamento della rappresentazione del migrante “per difetto” o “per eccesso” (Sayad 1999).
Fenomeno costantemente rappresentato come straordinario, la migrazione in Italia sembra non trovare spazio in una memoria storica e culturale pubblica, luogo di riflessione in cui “fermare” lo scorrere del tempo. È interessante la considerazione del presidente dell’associazione Kel ‘Lam onlus di Roma Ndjock Ngana, che ha collaborato con il Museo Pigorini in diversi progetti di mediazione museale, quando definisce il contesto italiano “speciale” a causa della condizione di perpetua emergenza in cui vivono i migranti che vi risiedono, costretti ad abbandonare la “capacità di sviluppo di un lavoro culturale e identitario”[5] (Munapé 2012: 51).
La costruzione di una memoria sottoforma di patrimonio culturale da salvaguardare è un processo, lo sanno bene gli antropologi del patrimonio, tutt’altro che neutrale (Palumbo 2011); le implicazioni politiche, economiche, sociali e culturali sono molteplici, complesse ed imprevedibili, e forse diventano ancora più complicate quando gli elementi da salvaguardare hanno a che fare con un tema attuale ‘caldo’, ricco di retoriche estremizzate e oggetto di ferventi dibattiti.
Il presente contributo vuole essere una breve, e non esaustiva, rassegna di cosa sta avvenendo oggi in Italia nel campo della patrimonializzazione dei processi migratori. Verranno considerati alcuni casi in cui è esplicita la volontà di conservare un patrimonio culturale originato nell’immediato presente da tramandare alle generazioni future. “Patrimoni migranti” costituiti da “voci” e storie che diventano fonti orali archiviabili (Simonicca 2013). Un patrimonio da formare e dal quale partire per costruire nuove comunità, in una prospettiva di antropologia dialogica che vede i soggetti coinvolti come testimoni ma innanzitutto come soggetti interpretanti con i quali lo studioso dovrebbe, appunto, dialogare.
L’analisi dei casi verrà affrontata a partire da un particolare posizionamento rispetto alla tematica, legato alla mia esperienza diretta nel campo della conservazione delle memorie migranti all’interno dell’associazione culturale Archivio delle memorie migranti (AMM).

Archiviare memorie migranti
Da tre anni faccio parte del gruppo di lavoro di AMM, che dal 2012 si adopera nel territorio italiano, in particolare a Roma dove ha la sua sede, ma anche internazionale, per raccontare la migrazione attraverso il punto di vista delle persone che l’hanno vissuta, in un percorso difficile ma condiviso di ricerca e di azione critica sui processi di rappresentazione e di narrazione di questa esperienza, che vede attivi sia italiani sia migranti. In questa prospettiva narrazioni audiovisive, scritte o dialogiche sono raccolte e conservate come elementi di una “archiviazione dinamica di questo pezzo di storia del presente”, che aiutano a costituire “nuove griglie interpretative, strumenti di comprensione per una realtà di attraversamenti” (Triulzi 2012). Tracce che raccontano il presente e che vengono registrate nel momento stesso in cui vengono agite[6], per divenire oggetto di riflessione teorica e di condivisione. Cosicché, il processo di archiviazione di tracce del presente esperite attraverso film, interviste, immagini o testi, si trasforma in un’attività funzionale alla loro salvaguardia e trasmissione.
La nascita dell’associazione risale all’esperienza maturata nella scuola di italiano per migranti, richiedenti asilo e rifugiati Asinitas, nella quale un gruppo di lavoro composto da volontari e studenti ha cominciato a raccogliere alcune storie di viaggio e di vita, in particolare attraverso video-interviste e laboratori di video partecipativo[7]. Gli esperimenti di autonarrazione e i laboratori audiovisivi sono divenuti occasioni importanti per ripensare l’esperienza migratoria e le condizioni di vita dei migranti in Italia; dal 2012 il gruppo ha deciso così di proseguire autonomamente questo percorso. Fu con un laboratorio di video partecipativo che nacque il primo film di AMM Benvenuti in Italia (2012), un documentario composto da cinque cortometraggi, in cui i protagonisti, migranti dislocati in cinque città italiane, vengono seguiti dai registi, anch’essi di origine migrante, in alcuni momenti delle loro giornate e in situazioni particolari della loro esistenza[8].
Tra i mezzi di narrazione privilegiati dall’associazione vi è innanzitutto il cinema documentario, inteso come linguaggio multivocale e alla ‘portata di tutti’, mezzo efficace di narrazione autoriale e di autorappresentazione capace di trasmettere idee, desideri e visioni del mondo dei suoi autori, in questo caso persone che hanno vissuto l’esperienza della migrazione. I documentari sono concepiti come “costrutti autoriali” (Faeta 2003) e spazi in cui l’esperienza viene raccontata dall’autore/regista a qualcuno (Jedlowski 2009).
Il gruppo si costituisce così come “comunità di pratica” (Wenger 2006) che persegue obiettivi comuni da punti di vista differenti. Inizialmente si volevano sostenere e valorizzare le forti esigenze di raccontare[9] e di condividere[10] il vissuto dei richiedenti asilo in Italia e le esperienze di viaggio dei rifugiati politici, ma questa esigenza si è poi trasformata nella voglia di raccontare altro: contro-storie dissonanti in opposizione alla violenza delle politiche e delle retoriche nazionaliste e razziste, storie di incontri tra persone dislocate. La patrimonializzazione stessa di queste memorie diventa un preciso atto e posizionamento politico.
Questa stessa volontà politica è alla base del progetto RAMM – Rete di Archivi Memorie e Migrazioni, di cui AMM è promotrice insieme al Circolo Gianni Bosio, l’Università di Napoli “L’Orientale” e l’Istituto Centrale dei Beni Sonori e Audiovisivi (ICBSA). Da una parte due associazioni impegnate nella raccolta di “tracce migranti”[11]; dall’altra due istituzioni nazionali di ricerca scientifica e di tutela dei beni culturali. Le quattro realtà si propongono come punto di riferimento per chiunque voglia condividere e rendere accessibile al pubblico testi, film, storie di vita legati all’esperienza della migrazione[12]. Obiettivo principale della collaborazione è quello di promuovere un’attività di rete per “la raccolta, la produzione e l’archiviazione di fonti sulle nuove culture della società italiana contemporanea, con adeguato supporto tecnico-scientifico ai fini di tutela e valorizzazione del patrimonio di memorie ‘altre’ come parte della memoria multiculturale del Paese” (Accordo di collaborazione RAMM 2015).
Il significato di questa operazione è principalmente quello di inserire nella memoria dello Stato contronarrazioni, storie di subalternità oscurate dalla comunicazione massmediatica, racconti di persone che si muovono anche contro le politiche e la violenza degli Stati. È l’inserimento di uno spazio critico fatto di memorie storiche discrepanti e trans-nazionali all’interno del discorso nazionalistico che tradizionalmente vede il patrimonio culturale come un segno identitario omogeneo.
Un altro caso interessante di archiviazione di memorie e racconti dei processi migratori è il sito web storiemigranti.org coordinato da Federica Sossi. Il gruppo promotore di questo tipo di salvaguardia è la comunità scientifica, composta da docenti universitari, ricercatori e dottorandi di varie discipline che vogliono rivolgersi in particolare al mondo scientifico. Si tratta di un archivio digitale che parte anche in questo caso dal racconto autobiografico o partecipativo della migrazione. “Una storia delle migrazioni attraverso i racconti dei migranti”. Così viene descritto il progetto nella homepage del sito di archiviazione: “Storie Migranti è un archivio di storie di migrazione, una storia del nostro presente attraverso i racconti dei/delle migranti. Non un sito di dibattito sulle migrazioni ma un luogo in cui depositare esperienze dirette di migrazione. La redazione è impegnata nella raccolta di questi racconti e nella loro diffusione”. Un archivio digitale che raccoglie interviste, immagini e video, racconti narrati in prima persona o attraverso la voce dei redattori, e raggruppati in base al continente in cui le storie sono state raccolte[13].
Anche l’Archivio Diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano negli ultimi anni ha cominciato ad aggiungere alle sue autobiografie alcuni “diari migranti”. In particolare con i progetti Culture in movimento. Storia e memoria dei nativi e dei migranti, nato nel 2000 da occasioni di confronto sui temi della memoria, della storia, della scrittura e della parola; e Voci migranti, un percorso avviato nel 2009 che aveva l’obiettivo di aprire lo storico archivio a nuovi linguaggi, intesi sia come voci provenienti da contesti storici e culturali altri rispetto all’Italia, sia come mezzi di espressione e di narrazione alternativi alla scrittura, nel rispetto degli obiettivi fondativi dell’archivio, ovvero l’auto-narrazione e la biografia. È da questi due percorsi paralleli che nel 2014 è nata l’idea di un fondo speciale dedicato esclusivamente ai racconti autobiografici di persone di origine “non italiana” sottoforma di video, immagini, audio, cartoline, perfino Power Point. Si tratta del progetto DIMMI – Diari Multimediali Migranti, finanziato dalla Regione Toscana, che attualmente è in corso di rielaborazione e che in futuro vorrebbe allargarsi a tutto il territorio nazionale.

Esperienze museali
A Camigliatello Silano in provincia di Cosenza è stato inaugurato nel 2005 il museo La Nave della Sila. Un “Museo Narrante” dedicato all’emigrazione calabrese, che attra- verso l’allestimento ha voluto creare un legame con l’immigrazione di oggi. Con l’apertura della sezione “Mare Madre”, allestita in un container esterno alla struttura museale, il pubblico può “immergersi” in un racconto audiovisivo fatto di voci ed immagini che presentano alcuni aspetti storici dell’immigrazione in Italia, attraverso il punto di vista dei migranti. La storia inizia l’8 agosto 1991, quando la nave Vlora approda al porto di Bari, e prosegue con alcuni estratti del film Come un uomo sulla terra (Biadene – Segre – Yimer 2008), immagini girate dalla Guardia Costiera e alcuni video della RAI, uniti in un’unica installazione audiovisiva guidata dalla voce dello scrittore Erri De Luca, da voci mescolate di migranti, dal racconto di Dagmawi Yimer. Un’installazione immersiva che si concentra sull’aspetto tragico della migrazione, quella dei viaggi attraverso il deserto e il mare, dei CIE e dei campi di Rosarno.
Un’altra realtà museale che ha affrontato il tema, anche in questo caso collegando l’emigrazione italiana all’immigrazione odierna in una continuità storica apparentemente unica ed universale, à il Galata Museo del Mare di Genova. La migrazione di cittadini di origine straniera, in una sezione aperta nel giugno del 2016 intitolata “Italiano sono anch’io”, viene raccontata attraverso dati, interviste e testimonianze, con l’intento di sfatare e superare alcuni luoghi comuni che si coagulano intorno al tema a partire da definizioni teoriche e temi chiave[14]. Lo staff del museo ha inoltre raccolto alcune video-interviste fatte a cittadini immigrati residenti a Genova, e conservate in un archivio intitolato “Memoria Migrante”. Seppure il tentativo dichiarato sia quello di “avere racconti in prima persona”, emerge prevalentemente il punto di vista dei ‘non migranti’, uno sguardo esterno al fenomeno nel quale gli intervistati rispondono a domande standardizzate con risposte altrettanto convenzionali[15].

Lampedusa
L’idea di creare uno spazio museale/espositivo dove radunare gli “oggetti dei migranti” arrivati dal mare o finiti nella discarica di Lampedusa è nata dalle sperimentazioni dell’artista locale Giacomo Sferlazzo nel 2005[16]. Il progetto si rafforza con la formazione del collettivo Askavusa, nato nel 2009 per opporsi all’apertura di un CIE e contro la militarizzazione dell’isola, con l’iniziale collaborazione del Comune di Lampedusa e Linosa e altre realtà nazionali ed europee attive nel campo della migrazione. Una prima esposizione dei materiali si è avuta nel 2013 con la mostra Con gli oggetti dei migranti, nell’ambito del progetto “Museo e centro di documentazione sulle migrazioni a Lampedusa” avviato in collaborazione con altre realtà, tra cui l’Associazione Isole, l’Archivio delle memorie migranti e il Comune di Lampedusa (Mosca Mondadori – Cacciatore – Triulzi 2014; Gatta – Muzzopappa 2013). Oggi, in seguito a una riflessione interna al gruppo che ha portato all’interruzione di quel progetto[17], gli oggetti sono raccolti in PortoM, uno spazio espositivo gestito autonomamente dal collettivo Askavusa, il quale si è dichiarato contrario a qualsiasi genere di allestimento museale ufficiale che preveda catalogazione, restauro e conservazione degli “oggetti dei migranti”. Unico obiettivo del gruppo è quello di esporre gli oggetti, affidandoli ad una lettura filtrata dallo sguardo e dall’esperienza artistica. Infatti una parte di PortoM è dedicata ed aperta ad artisti, che possono intervenire su alcuni “oggetti dei migranti” raccolti per creare, riassemblandoli in nuove forme, opere d’arte. Fotografie, legni delle barche, documenti, pagine di bibbie e corani sono trasformati in opere autoriali che finiscono per parlare molto dell’artista che le ha create e meno delle persone che un tempo possedevano quegli oggetti.
In un percorso diametralmente opposto rispetto al progetto dell’associazione Askavusa, la recente esposizione intitolata Museo della Fiducia e del Dialogo per il Mediterraneo[18] è stata sostenuta da MiBACT, Regione Sicilia e Comune di Lampedusa e Linosa da una parte, e da Comitato 3 ottobre[19], associazione First Social Life e Fondazione Falcone dall’altra. La mostra, inaugurata in pompa magna dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha esposto un patrimonio culturale di beni storico artistici ed archeologici, prestati da istituzioni museali quali gli Uffizi, il Museo del Bardo di Tunisi e il Museo delle civiltà dell’Europa e del Mediterraneo di Marsiglia, affiancato ad alcuni oggetti dei migranti recuperati dalle forze dell’ordine. Il progetto espositivo descrive la “Cultura”, intesa nella sua accezione di Belle Arti, come un “elemento essenziale per diffondere i valori della tolleranza, del dialogo e della comprensione reciproca”[20], finendo per riproporre la stessa ideologia e rappresentazione mainstream che guarda ai processi migratori come percorsi desoggettivati.

Riflessioni
Se è vero che il patrimonio culturale è uno spazio politico (Palumbo 2009; 2011) e una sfida per la formazione delle identità (Skounti 2011), il riconoscimento e la salvaguardia di un ‘patrimonio culturale migrante’, che parla di spaesamento, di migrazione come “fatto sociale totale” (Sayad 1999), di controstorie transnazionali, rappresenta una sfida sia culturale sia politica; vuol dire riconoscere finalmente l’esistenza di comunità migranti, anche diasporiche, attive e con obiettivi eterogenei, prospettive e proiezioni verso il futuro, che vivono entro specifici spazi locali, ma allo stesso tempo li superano grazie a panorami immaginativi globali (Appadurai 2012). Si tratta di un patrimonio culturale che sembra creare un cortocircuito epistemologico all’interno della memoria storica e culturale nazionale e nelle politiche di salvaguardia ufficiali, che desoggettivizzano e appiattiscono i soggetti ‘altri’ in identità omogenee.
Tuttavia i rischi di essenzializzazione nei processi di patrimonializzazione sono ineludibili (Palumbo 2009). Inoltre, ci si può chiedere quanto sia alto il rischio di spegnere, metaforicamente, la ‘scintilla illuminante’ che accompagna storie alternative e contro-narrazioni quando vengono fissate in un riconosciuto e pubblico patrimonio culturale. Certamente è un rischio da non sottovalutare, che richiede un posizionamento teorico, metodologico e d’azione chiaro dal quale partire. L’auspicio è che si cominci da uno spazio dialogico in cui persone che hanno vissuto in prima persona la migrazione possano autorappresentarsi ridando senso alle proprie esperienze[21].
Dovrebbe essere chiaro che lo scopo di questi processi di patrimonializzazione non è solamente quello di ricordare e di trasmettere ricordi alle future generazioni. Nel caso di AMM lo scopo della raccolta è anche e soprattutto quello di riflettere e comprendere il presente e l’effetto che la migrazione ha sulla vita delle persone, in uno spazio di dialogo condiviso e partecipato.
Le esperienze qui presentate parlano soprattutto di collaborazioni. Non solo comunità di migranti ma anche gruppi di persone, con un alto livello di preparazione teorica, che ‘accompagnano’ e ‘traducono’ questi nuovi percorsi. Prevalentemente antropologi, storici, sociologi e psicologi impegnati in metodi innovativi, sia dal punto di vista tecnico sia metodologico, per conservare tracce del presente da trasformare in una Storia per i posteri. Metodi che possano restituire tracce di esperienze, posizionamenti soggettivi e di ricerca di senso nei luoghi di oggi. Storie di persone, di punti di vista “altri”, nati da esperienze dirette o dalla creazione di nuovi spazi di incontro, riuniti in ar- chivi multimediali o in esposizioni museali[22].
Ci sono spinte di patrimonializzazione “dal basso”, di migranti che vogliono raccontar(si), con la consapevolezza del peso e della responsabilità che l’atto stesso della testimonianza incorpora in sé; oppure di associazioni di volontariato e di indagine sociale e culturale, composte da ricercatori, studiosi e operatori sociali che cercano di creare spazi di condivisione. Ci sono poi spinte “dall’alto”, percorsi forzati legati a élite e gruppi influenti, che si chiudono in monologhi distaccati dalle comunità interessate, rafforzando in tal modo luoghi comuni e stereotipi sul tema. Discorsi che troppo spesso vengono supportati dalle istituzioni, trasformandosi nella rappresentazione mainstream dell’immigrazione in Italia. Forse un percorso di mediazione percorribile potrebbe essere quello intrapreso con il progetto RAMM.
Si tratta di percorsi in cui è oramai riconosciuta l’esistenza di comunità di persone che si muovono non solo come corpi e “forza lavoro”, ma con nomi, storie, pensieri, progetti, “oggetti d’affezione”; un patrimonio che si sente l’esigenza di tramandare alle “comunità d’eredità” future.

Riferimenti bibliografici
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Sitografia
www.archiviomemoriemigranti.net
archiviodiari.org
askavusa.wordpress.com
www.storiemigranti.org
vocimigranti.blogspot.it
www.memoriaemigrazioni.it

Note
[1] Il presente contributo prenderà in considerazione solamente casi di patrimonializzazione che riguardano i processi di immigrazione in Italia, tuttavia si utilizzerà prevalentemente il termine “migrazione” al fine di svincolarla da riferimenti spaziali precisi.

[2] “L’eredità culturale (cultural heritage) è un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano […] come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel tempo tra popolazioni e luoghi” art. 2 comma a (Faro 2005); il Codice dei Beni Culturali e paesaggistici (2008) inserisce tra le “cose” oggetto di specifica tutela “le fotografie […] gli esemplari di opere cinematografiche, audiovisive o di sequenze di immagini in movimento, […], la cui produzione risalga ad oltre venticinque anni”, Art. 11 comma f. [corsivo mio].

[3] Per una storia della migrazione in Italia si veda Corti – Sanfilippo 2009; Pugliese 2006.

[4] Nel 2010 la rivista “Nuova Museologia” ha dedicato un numero al tema “Musei dell’immigrazione e dell’emigrazione”, nel quale si evidenzia come in Italia vi sia una “confusione fra musei veri e propri e centri di documentazione dotati di collezioni”. I musei italiani dedicati alla storia delle migrazioni sono descritti come “una tipologia recente ancora fortemente dinamica, perciò esistono molte iniziative annunciate ma non del tutto operative” (Maggi 2010: 1).

[5] Nello stesso contributo, Ngana riflette sul significato che in Italia assumono i concetti di “diaspora” e di “comunità migrante”, proponendo una differenziazione che vede la prima comunità costituita da gruppi organizzati in prospettive comuni, l’altra frammentata in uno “sparpagliamento di persone-individui privi di forza” e “in cerca di sistemazione” (cfr Munapé 2012: 51).

[6] Un esempio di questo tipo di azione è stato realizzato con il progetto Cantiere Lampedusa, il ritorno sull’isola dopo qualche anno dallo sbarco di alcuni membri di AMM viene filmato e fotografato per essere consapevolmente fissato nel momento stesso in cui avviene. Dal progetto sono nati due documentari, un foto-racconto e una mappa interattiva (cfr http:// archiviomemoriemigranti.net/ focus).

[7] Il video partecipativo, che vede tra i suoi pionieri il collaborative video di Robert Flaherty e soprattutto il cinéma vérité di Jean Rouch, è una pratica oggi sempre più diffusa da associazioni che operano nel settore della promozione sociale e culturale. Strumento di empowerment sociale e di auto-narrazione, il video partecipativo ha come scopo principale il cambiamento sociale e l’auto- rappresentazione di comunità periferiche e marginalizzate. Per un approfondimento sulla storia e la metodologia del video partecipativo si vedano in particolare Worth – Adair 1972; Balma Tivola 2014; Marano 2007; Collizzolli 2009.

[8] Per la storia e le attività svolte dall’associazione si veda Triulzi 2012; 2014.

[9] Durante una mia intervista a Dagmawi Yimer, egli sostiene di voler “usare la telecamera per poter raccontare”. Il suo percorso di avvicinamento al cinema, con qualche sporadico episodio di videoriprese in Etiopia ma giunto a compimento in Italia, è nato da un’esigenza che egli racconta così: “Prima della passione [per il cinema], c’era l’esigenza di usare quello strumento [la telecamera]. L’esigenza di raccontare. L’esigenza di dire le cose nostre, no? Dell’immigrazione” (Verona, 12.10.2013 in Guerini 2013).

[10] In un’intervista in cui domando a Zakaria Mohamed Ali qual è il significato che attribuisce al racconto egli spiega: “Per me raccontare significa rendere visibile. Rendere visibile e dire a tutti. […] rendere visibili le motivazioni per cui scappiamo, la realtà […] Quando hai delle cose che tieni nel buio, dentro di te, non hai niente. Quando invece le tiri fuori… fa bene parlare no? Dire quello che si pensa. Come se ti stai togliendo qualcosa che hai dentro, sulla tua pelle… qualcosa che ti rimarrà per sempre, ma che cerchi di condividere”. (Roma, 20.12.2013 in Guerini 2013).

[11] Il Circolo Gianni Bosio in particolare con il progetto “Roma Forestiera”, sulle musiche dei migranti in Italia.

[12] I materiali saranno depositati presso l’ICBSA, secondo una convenzione tra i partner, nella quale sono stabiliti criteri di accessibilità che hanno l’obiettivo di tutelare i testimoni delle narrazioni, in certi casi richiedenti asilo o migranti privi di documenti.

[13] Il sito raccoglie storie a partire dal 2007; attualmente risulta essere fermo al 2015 (www.storiemigranti.org).

[14] Il percorso è scandito da: “Storie di popoli in fuga”, “I nuovi italiani a scuola”, “Genova, in un giorno”, “La casa e la famiglia”, “Cucina e la migrazione del gusto”.

[15] Una sperimentazione innovativa nelle sue premesse e obiettivi, che si avvicina ai casi qui analizzati, è quella avviata dal Museo Pigorini con il progetto europeo READ-ME. Il museo ha coinvolto alcune associazioni romane di cittadini di origine migrante per ripensare le proprie collezioni in chiave dialogica e in una prospettiva di audience development. I migranti, pensati come “comunità della diaspora”, hanno “filtrato” gli oggetti del museo attraverso il loro sguardo soggettivo e la loro esperienza biografica, all’interno di un museo pensato come “zona di contatto” in cui “le diaspore possono trovare aggregazione ed espressione” (cfr. Munapé 2012). Parte di questa esperienza è poi confluita nel progetto “Al museo con… Patrimoni narrati per musei accoglienti”. Similarmente, la Pinacoteca di Brera ha cercato nuovi modi di comunicare le proprie collezioni in una prospettiva interculturale.

[16] Sul blog del collettivo Askavusa, Giacomo Sferlazzo ha tracciato un resoconto delle tappe che hanno portato allo spazio espositivo attuale. Si veda https:// askavusa.wordpress.com/con- gli-oggetti/

[17] Il percorso che ha portato il collettivo a rinunciare a qualsiasi tipo di collaborazione è legato all’interpretazione che il gruppo attribuisce all’istituzione museale. Il museo e le sue pratiche sono viste unicamente come “trappola” per gli oggetti, il quale li sottrae alla trasformazione che è loro connaturata. Per Askavusa il semplice gesto di “salvare” questi oggetti dalla distruzione coincide con una forma di conservazione e di memoria. Per un’analisi critica in chiave antropologica e dall’interno di questa frattura (cfr. Gatta 2016).

[18] Al centro dell’attenzione mediatica “l’Amorino dormiente” dipinto a Malta da Caravaggio, a ricordare le morti in mare di bambini “come Aylan”.

[19] Il Comitato del 3 ottobre è nato in seguito al naufragio del 2013 nel quale morirono 368 persone, prevalentemente eritrei; mirava all’istituzione di una “Giornata della Memoria e dell’Accoglienza”, poi riconosciuta in Senato nel marzo del 2016, come momento di commemorazione e di riflessione sul fenomeno della migrazione.

[20] Il progetto è descritto sul sito della Direzione generale Musei del MiBACT http://musei.beniculturali.it/ attivita/progetti.

[21] Spazi di auto- rappresentazione sono nati nella letteratura cosiddetta migrante, e negli ultimi anni anche nel cinema, nella fotografia e nell’arte più in generale. In questa stessa prospettiva la creazione di un patrimonio culturale migrante potrebbe forse diventare un nuovo spazio di posizionamento politico e culturale.

[22] Recentemente, e come conseguenza degli imponenti arrivi di richiedenti asilo che giungono in Europa passando per l’Italia, sembra che qualcosa si stia muovendo negli interstizi delle istituzioni nazionali verso azioni di informazione e sensibilizzazione sul tema. In questo senso sono nati alcuni bandi come il “MigrArti” per il cinema e lo spettacolo dal vivo del MiBACT e diversi progetti del MIUR per favorire percorsi di educazione interculturale nelle scuole.